a cura di Laura Schella Sabato 20 marzo 2021 il Presidente turco Recep Tayyip Erdoǧan ha licenziato il governatore della Banca Centrale (Türkiye Cumhuriyet Merkez Bankası, TCMB) Naci Agbal e lo ha sostituito con Sahap Kavcioglu, precedentemente membro dell’Assemblea Nazionale Turca per il partito di governo Adalet ve Kalkınma Partisi, AKP. La reazione dei mercati è stata molto dura: all’apertura della borsa il lunedì successivo la lira turca ha perso il 15% del suo valore, facendo ricadere il Paese nel timore di una nuova crisi economica (forse mai del tutto finita) come quella del 2018. La lira ha poi recuperato parte del suo valore dopo le dichiarazioni rilasciate dal Ministro delle Finanze Lütfi Elvan che ha affermato che la Turchia continuerà a dare attuazione a politiche di libero mercato, di fatto lasciando trasparire che non è intenzione del governo porre dei vincoli sui movimenti di capitali. Il Presidente Erdoǧan e il partito AKP, al governo dal 2002, sono riusciti a mantenere alti i consensi nel Paese soprattutto grazie al periodo di crescita economica iniziata nei primi anni 2000 e che sembra essersi ormai esaurito, come la crisi del 2018 pare dimostrare. L’inflazione troppo alta e il basso livello dei risparmi privati sono caratteristiche tipiche dell’economia turca, che basa la sua crescita sugli investimenti esteri. Tuttavia, se si vuole continuare ad attirare investitori stranieri, è necessario che l’economia del Paese venga percepita stabile e che le sue istituzioni dimostrino di essere impegnate a mantenere l’inflazione sotto controllo. Al contrario, decisioni come quella del Presidente Erdoǧan dimostrano ancora una volta come l’operato della Banca Centrale non sia esente da influenze politiche e come il governo sia disposto a destabilizzare la politica monetaria pur di mantenere elevati i consensi di cui ancora gode. Economia e politica interna C’è un forte legame tra le prestazioni economiche di un governo e il consenso politico di cui gode. Dalla sua salita al potere l’AKP è stato in grado di assicurare un periodo di crescita economica che vedeva il PIL crescere anche del 12% l’anno. Queste prestazioni, definite straordinarie da molti analisti, furono rese possibili dalla grande circolazione di liquidità a livello internazionale, dall’affluire di investimenti stranieri nel paese e da un livello di inflazione piuttosto contenuto. Questa fase di crescita ha consentito al governo turco di mettere in atto politiche economiche espansive, quali aumento della spesa pubblica e riduzione delle tasse, che hanno mantenuto alti i consensi, soprattutto nei mesi antecedenti importanti appuntamenti elettorali. Quando l’economia ha incominciato a mostrare i primi segnali di crisi nel 2018, che ha visto un crollo vertiginoso della lira rispetto al dollaro (similmente a ciò che è accaduto nell’ultimo mese), l’AKP ne ha dovuto pagare le conseguenze politiche, subendo un forte ridimensionamento durante le elezioni amministrative del 2019. Un altro aspetto che preoccupa gli investitori stranieri e che può diventare ragione di fuga di capitali esteri dal paese è la credibilità dell’operato della Banca Centrale. Nello statuto della TCMB è chiaramente esplicitato che deve essere preservata la sua indipendenza da influenze politiche, essendo questa una condizione essenziale per perseguire con efficacia il mantenimento della stabilità dei prezzi. Non solo negli ultimi anni il valore dell’inflazione si aggira intorno al 15% (arrivando anche al 20%), ben al di sopra del target del 5%, ma anche in più occasioni il Presidente Erdoǧan non si è astenuto dall’esercitare pressioni sulla Banca Centrale affinché adeguasse le sue politiche monetarie alle necessità elettorali del momento. Il nuovo governatore della Banca Centrale Sahap Kavcioglu, intervistato da Bloomberg, si è affrettato a garantire che, nonostante Erdoǧan abbia fatto licenziare tre governatori in due anni, l’indipendenza della Banca Centrale rimane comunque integra. Kavcioglu ha inoltre dovuto rispondere in merito ad un’altra spinosa questione: la gestione dei tassi di interesse. Negli ultimi anni, infatti, il Presidente turco è diventato noto per la teoria per cui sono i bassi tassi di interesse che favoriscono un basso livello di inflazione, quando è comunemente riconosciuto dagli economisti che è l’innalzamento di questi ultimi a favorire il contenimento dell’inflazione. Il precedente governatore, che non si era adeguato a questa “peculiare” concezione del Presidente, e, al contrario, aveva deciso di aumentare i tassi di interesse di 200 punti base, è stato costretto a rassegnare le dimissioni. Economia e politica estera Le difficoltà dell’economia turca, incrementate con la pandemia di Covid-19, non hanno conseguenze solo sul piano interno ma influiscono anche sulla politica estera del Paese: l’elevata inflazione e il deprezzamento della lira indeboliscono il ruolo della Turchia a livello internazionale e ne restringono il campo di azione. Ne sono ben coscienti gli Stati Uniti che, ancora sotto la presidenza Trump, hanno imposto sanzioni all’alleato turco, esacerbando ulteriormente le difficoltà economiche portate dalla pandemia. L’attuale Presidente americano Joe Biden sembra intenzionato a mantenere un atteggiamento duro nei confronti di Ankara, accusata di essersi eccessivamente avvicinata alla Russia (a seguito dell’acquisto del sistema missilistico S-400) e di essersi allontanata dalla strada della democrazia e dei diritti umani (critiche sono giunte da Washington dopo la decisione del Presidente Erdoǧan di ritirare la Turchia dalla Convenzione di Istanbul sulla violenza contro le donne). Il pensiero prevalente tra gli analisti è che la Turchia “abbia bisogno di buone relazioni con l’Unione Europea e gli Stati Uniti” e che il Paese sia ancora troppo dipendente, dal punto di vista economico, energetico e tecnologico-militare, dai suoi alleati della NATO da potersi permettere una vera rottura. Nuove alleanze con Mosca o con Pechino non produrrebbero gli stessi vantaggi economici e militari come quelli derivanti dai mercati e dagli investimenti occidentali e dall’avanzata tecnologia dell’Alleanza Atlantica. Nessuna delle due parti sembra essere nelle condizioni di provocare una spaccatura definitiva nella NATO; infatti, anche gli Stati europei, seppur critici nei confronti di Erdoǧan, non sembrano disposti a rinunciare ai vantaggi strategici che la Turchia apporta nella NATO, in virtù della sua posizione geografica. Resta da vedere se nei prossimi mesi il Presidente turco si arrenderà alle pressioni politiche (ed economiche) e adotterà una posizione più morbida nei confronti dell’alleato americano. La palla è in campo turco. ![]()
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