a cura di Antonio di Casola Nella sovente instabile regione mediorientale, il Regno Hashemita di Giordania rappresenta oramai da qualche decennio un attore tendenzialmente in grado di garantire un elevato livello di stabilità e sicurezza. Re Husayn, prima, e suo figlio Abdullah II, poi, sono riusciti, a livello interno, a percepire il cambiamento dei tempi e ad operare una modernizzazione della monarchia e, sul piano degli affari esteri, a mantenere con notevole abilità diplomatica rapporti generalmente equilibrati con la gran parte degli Stati aventi interessi nell’area. In particolare, la Giordania intrattiene relazioni pacifiche sia con Israele sia con Paesi a quest’ultimo storicamente oppositori, cercando di apparire il più possibile in una posizione di neutralità nei conflitti per poterne, così, beneficiare da tutti i fronti. La strategia vincente della Giordania consiste esattamente in questo: nel proporsi come “ponte” tra due mondi, come l’interlocutore islamico più affidabile agli occhi dello scettico Occidente. Nonostante il passato conflittuale, si può senza sopravvalutazioni affermare che oggi, almeno a livello istituzionale, i rapporti tra Giordania ed Israele siano pacifici. Per diversi anni, a partire dalla firma del trattato di pace nell’ottobre 1994, il rapporto è stato caratterizzato da una reciproca tolleranza, ma negli ultimi mesi, spinti dall’onda degli Accordi di Abramo e, nello specifico, dall’esempio degli Emirati Arabi Uniti, i due Paesi hanno intensificato la cooperazione, specialmente a livello economico. Il più recente esempio ne è la stipula, il 19 gennaio scorso, di un piano di cooperazione sul clima, finalizzato ad attenuare le conseguenze che stanno colpendo particolarmente i Paesi più desertici dell’area. Con questo accordo, concluso attraverso la mediazione proprio degli EAU, la Giordania, il cui territorio soffre una pesante carenza idrica, si è impegnata ad esportare in Israele all’incirca 600 megawatt di elettricità generata da pannelli solari, per ricevere in cambio 200 milioni di metri cubi di acqua desalinizzata. Già a dicembre, inoltre, i due Stati avevano firmato un accordo per facilitare le esportazioni giordane, il cui livello da anni si era bloccato ad una certa, discreta, quota senza riuscire mai a superarla. La situazione, tuttavia, non sempre è idilliaca. Il piano di cooperazione ha fatto seguito ad un incontro tra il Re e il Ministro della Difesa israeliano Gantz, avvenuto il 5 gennaio: l’incontro aveva avuto un precedente appena 7 anni prima, ed è quindi risultato storico. Il Governo giordano, infatti, continua a non esitare nel condannare Israele quando ritiene le sue azioni contrarie al diritto internazionale: il 7 gennaio, ad esempio, il Ministro degli Affari Esteri Abu Al-Foul ha dichiarato il proprio disappunto verso l’approvazione da parte del Governo israeliano della costruzione di più di 3500 edifici nei territori palestinesi, ritenendo che tale atto “rappresenti una violazione del diritto internazionale e mini le basi della pace e le possibilità di raggiungere una pace completa e giusta sulla base della soluzione dei due Stati”. In aggiunta, non è possibile ignorare il fatto che la popolazione, che dalla fine degli anni ’80 è composta per la gran parte da profughi palestinesi e loro discendenti, provi verso Israele un certo risentimento, a causa della nota situazione di occupazione che persiste nella sponda occidentale del Giordano. Questo clima di tensione spesso sfocia in manifestazioni, generalmente non violente, che vengono presto placate dal Governo. Anche in occasione dei più recenti accordi, visti da parte della popolazione come un “tradimento”, dettato esclusivamente da interessi economici, sono seguite proteste. Anche il rapporto con gli altri “vicini” non è meno problematico. La Giordania è unita da un profondo legame storico con l’Iraq, poiché i “padri fondatori” dei due Stati, Abdullah e Faisal, erano fratelli. Ciononostante, con gli anni le tensioni sono cresciute esponenzialmente, soprattutto perché il Regno Hashemita ha dovuto, senza colpe, subire le conseguenze dell’instabilità dell’altro Paese. Prima la Guerra del Golfo, poi la diffusione dell’estremismo islamico e l’espansione dell’ISIS, hanno infatti innescato una profonda crisi economica in Giordania: il crollo del turismo per ragioni di sicurezza, l’arrivo di un numero elevatissimo di profughi iracheni, la penetrazione di cellule terroristiche all’interno del territorio sono solo alcune delle questioni più gravi che il governo giordano si è trovato a dover affrontare negli ultimi decenni. A ciò sono da aggiungersi la crisi in Siria, anch’essa sfociata in movimenti di centinaia di migliaia di persone verso la Giordania – secondo i dati dell’UNHCR, attualmente i rifugiati siriani sono quasi 700mila – e l’immigrazione dall’Arabia Saudita. Quest’ultima, seppur numericamente più discreta, ha permesso l’importazione del Wahhabismo, una corrente dell’Islam più intransigente, che ha aggravato una situazione già compromessa. Nonostante i numerosi problemi, però, la Giordania è un Paese che guarda al futuro. Con gli ingenti investimenti nel settore dell’energia solare, il Regno non intende solo ricavarne autosufficienza energetica e, attraverso la vendita, ricavi economici, ma anche accredito presso il mondo occidentale come Paese “green”, attento alla sostenibilità. Anche dal punto di vista sociale, rispetto agli altri Stati nella regione, la Giordania può essere considerato un Paese all’avanguardia. La situazione delle donne è certamente ancora arretrata, ma in via di sviluppo. Le donne sono tuttora svantaggiate, sul piano giuridico, nelle questioni ereditarie o matrimoniali, che vengono regolate da tribunali religiosi che applicano la sharia. Tuttavia, l’obiettivo stabilito è quello di raggiungere la completa parità di genere entro il 2030. Infine, ulteriore tassello della strategia giordana come interlocutore da prediligere è la promozione del pluralismo e del dialogo interreligioso. Infatti, seppur l’articolo 2 della Costituzione dichiari l’Islam la religione ufficiale dello Stato, la tutela garantita ad alcune minoranze, specialmente quella cristiana che compone circa il 2/3% della popolazione, è indubbiamente di un livello elevato – altre minoranze, però, come quella Bahá'í, non riconosciute dall’Islam come religioni, non godono di alcuna tutela. I Reali giordani sono attivamente impegnati su questo fronte: il celebre Messaggio di Amman del 2004, in risposta al terrorismo islamico, e la World Interfaith Harmony Week, proposta dal Re ed approvata dall’Assemblea Generale ONU, sono solo i due esempi più rilevanti di un’apertura che, seppur certamente strategica, sembra, in fondo, essere sincera.
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