A cura di Alessandra Mozzi, tratto dal CSI Review n.1
1. Global-democracy: dove eravamo rimasti? Fin dal primo incontro con ciò che generalmente viene identificato come globalizzazione, probabilmente si percepisce già che, proprio come accade con tutti gli incontri particolarmente interessanti, la sua portata non finirà di stupire, facendo continuamente vacillare ogni conoscenza “certa” che col passare del tempo si fosse creduta acquisita. A dire il vero, di fronte ad un argomento come quello del c. d. “movimento globalizzante” la parola “certezza” è a maggior ragione fuori luogo: a partire dal dato per cui è difficile trovarne una definizione certa e univoca per tutti (essendone pressoché infinite piuttosto le “interpretazioni”)[1], fino ad arrivare alle dispute tuttora esistenti sulla esatta collocazione spazio-temporale del fenomeno nella sua dimensione ufficialmente riconosciuta (ovvero, da quando effettivamente le dinamiche globali/globalizzanti sono penetrate all’interno dei contesti politico-istituzionali, essendo già in parte operative invece nei contesti sociale ed economico)[2]. Le difficoltà che si presentano già dalla fase di impostazione dello studio in argomento non possono tuttavia distogliere l’analista curioso dalle infinite riflessioni che il tema stesso suscita, semmai anzi ne alimentano gli interrogativi, soprattutto con riferimento a realtà già consolidate, ossia se si entri all’interno del contesto “tipico” in cui da oramai più di tre secoli l’uomo si trova a vivere: gli Stati-Nazione, o plurinazionali. Sorti quali emblemi dell’età moderna dalle ceneri degli antichi imperi, poi divenuti Stati “assoluti” prima dell’età dei Lumi, e infine, una volta inseritisi nel cammino “liberale” attraverso la rivoluzione industriale e quelle politiche americana e francese, sono stati definiti come “costituzionali” grazie al trionfo dei diritti fondamentali borghesi e dello schema della divisione (rigida o morbida) dei poteri dello Stato. Il cammino verso la definitiva “costituzionalizzazione”, appena indicato a grandi linee e percorso da quasi tutti gli Stati appartenenti alla tradizione “liberal-democratica” (di matrice europea o comunque fortemente vincolata nei presupposti socioculturali alla c.d. “parte occidentale” del mondo), ha in realtà a lungo ispirato l’origine di diverse correnti di pensiero secondo le quali sarebbe stato possibile, nonché necessario, “esportare” questo modello costituzionale sottostante alle diverse varianti concretamente realizzate per applicarlo ovunque una stessa “evoluzione” storico-politica come quella vissuta dagli ordinamenti liberali e poi liberal-democratici non avrebbe potuto avere spontaneamente luogo, in mancanza di idonee condizioni storiche, economiche, politiche e sociali . Questo modello, nelle sue applicazioni e negli arricchimenti, ha dato corpo e significato ad una sorta di “mito democratico”, che ha animato gran parte della storia recente (a partire dalla fine della II Guerra Mondiale, cui ha sicuramente contribuito la nascita delle Nazioni Unite, e, rimasto “congelato” durante la Guerra Fredda, ha ripreso il suo cammino teorico e pratico dopo la caduta del muro di Berlino), ma ha anche costituito una fonte di problemi e difficoltà in diversi contesti nazionali, non adeguatamente (o meglio, culturalmente[3]) preparati a compiere un simile “salto in avanti”. La diffusione e l’implementazione dei modelli liberaldemocratici nel mondo, sia stata essa forzatamente introdotta o spontaneamente avvenuta per opera degli stessi ordinamenti che via via vi aderivano, si può quindi definire come un esperimento di “globalizzazione” tentato all’interno delle dimensioni statali, intendendo quest’ultima quale processo di “adeguamento progressivo” dei sistemi costituzionali ad una comune linea istituzionale in ogni caso come vigente in gran parte degli Stati del mondo[4]. Nonostante che gli esiti di questi interventi si siano rivelati spesso problematici, per non dire ― in certi casi ― completamente “deludenti”[5] , questo non ha fermato lo spirito rinnovatore introdotto nell’ambito degli stessi sistemi con tali adeguamenti, i quali anzi, attraverso dinamiche sempre più incalzanti, hanno accelerato i processi di conversione degli ordinamenti giuridici interessati in ordinamenti secondo canoni di “apertura democratica”, stavolta però pre-formati per essere applicati direttamente su scala globale. Le ulteriori “forzature” effettuate a partire da un modello costituzional-liberale tipicamente “interno” hanno probabilmente provocato conseguenze di maggiore rilievo proprio nei confronti di quegli Stati che erano già democraticamente caratterizzati, almeno sul piano politico-istituzionale, i quali si trovano adesso a confrontarsi con un nuovo modello globale di democrazia, dai tratti difficilmente decifrabili tramite i tradizionali strumenti del costituzionalismo. 2. Termini e motivazioni di un (im)possibile confronto Perché tuttavia accostare la globalizzazione (fenomeno tipico del mondo dell’economia) con la democrazia (inquadrata semplicisticamente come “forma di Stato”)? I due campi ― l’uno riguardante principalmente quelle dinamiche macroeconomiche di carattere “integrativo” nutrite soprattutto da sviluppo tecnologico, liberalizzazioni degli scambi e processi di cooperazione internazionale, l’altro invece relativo ad un genere dei rapporti tra lo Stato e i suoi cittadini che implica il rispetto, da parte del degli organi del primo delle garanzie costituzionali che si sostanziano nel riconoscimento ai secondi dei diritti fondamentali ― sembrano apparentemente lontani tra loro. Eppure le due dimensioni (economica e politico-istituzionale) presentano, anche così semplicisticamente descritte, un elemento che le rende simili: entrambi infatti, pur agendo (almeno all’inizio) su ordini di interessi differentemente percepiti e regolati, hanno ad oggetto un tipo di relazione, o meglio sviluppano una precisa idea di relazionalità, che si genera entro l’ordine/gli ordini, come anteriormente concepiti. Mentre però, nello specifico, la globalizzazione si concreta in una miriade di relazioni che possono svolgersi anche contemporaneamente, o addirittura di attività di relazione provenienti da “non-luoghi” e diretti in “non-spazi” volte ad azzerare quasi del tutto i tempi occorrenti per produrre effetti, la democrazia invece è profondamente legata, anzi inscindibilmente connessa, ad un tipo di rapporto (quello rappresentativo, ma anche diretto) costante e orientato a durare per un tempo determinato se intende produrre risultati utili, ossia decisioni appunto politiche e si sviluppa solo all’interno di una comunità idealmente pluralista, ma coesa. Allora, potrebbe dirsi che, se la democrazia, nata nell’arcaico ambiente della polis, disegna coerentemente il tipo di rapporti possibili entro la comunità cittadina e poi statale, la globalizzazione, ispirata alla dimensione cosmopolita, traccia il tipo di relazioni che sussistono quando nulla fa da confine, da barriera o da ostacolo all’azione (o all’inter-azione) pura e semplice tra soggetti[6]. Il punto da chiarire risulta ora un altro, ossia bisogna interrogarsi sul come agiscano in concreto, cioè in base a quali regole, i due ordini di fenomeni. La democrazia, almeno nel suo ideal-tipo liberal-costituzionale, funziona, in base a precise norme dal valore meta-etico e anche meta-democratico, astrattamente condivisibili da tutti, ma con un minimo di contenuto necessario (ovverosia non completamente “neutre”)[7] che possa costituire la base per la ragione pubblica. Questo modello integra appunto lo schema del fluire di una di relazionalità costante, costruttiva e intimamente pluralista, che deve caratterizzare la comunità (appunto se “democraticamente” intesa) e si comprende solo a partire dal presupposto, fissato dal costituzionalismo moderno, che la Costituzione abbia un valore prescrittivo e si ponga, a causa della natura stessa delle sue norme, al di sopra di ogni altra fonte presente nell’ordinamento, insomma che i suoi principi e le regole da essa poste, in quanto auto-legittimantesi, siano le uniche pre-condizioni essenziali da far valere, non solo sul piano formale, ma anche su quello valoriale[8]. La globalizzazione economica, dal suo canto, segue regole (ma potrebbe dirsi anche non-regole) del tutto differenti: non avendo basi precostituite da valori condivisi (e non potendosene praticamente dotare, dal momento che la condivisione dovrebbe provenire dall’intera popolazione mondiale), si muove seguendo caratteri, più che principi. Questo vuol dire che, ad esempio, gli attori dei processi globali (tra cui si contano, in maniera del tutto indifferente, Stati, organizzazioni internazionali, imprese private, ONG, banche, multinazionali, Autorità indipendenti ecc..), saranno liberi di scegliere metodi/ regole/ codici di comportamento attraverso i quali dare impulso alle proprie politiche, coinvolgenti qualsiasi campo del reale (che siano progetti sociali, o che riguardino relazioni economiche, o ancora che si propongano di amministrare la giustizia riguardo a certe tematiche), purché tutti rispecchino un comune spirito caratterizzato da universalità, specialità, perenne “apertura” al rinnovo, all’influenzabilità e all’allargamento verso “altri” attori e “altri spazi” non già ricompresi dall’inizio nel campo di gioco [9]. In termini più concreti, il metodo con cui procede la globalizzazione permette di creare relazioni sfruttando l’alta capacità comunicativa delle nuove tecnologie e del cyberspazio, non mirando tuttavia alla costituzione delle stesse, quindi a una solidificazione, a una stabilizzazione, quanto piuttosto ad una loro descrizione[10] pura e semplice. Questa inversione di sguardo rispetto al modo di proporsi del costituzionalismo è dovuta a quanto osservato dei caratteri dei due approcci: come è stato detto, la relazionalità globale/globalizzata non parte da legami stabili, né è diretta a crearne, ma opera secondo dinamiche che sono fini a sé stesse, e che, una volta innescate da soggetti (o, il più delle volte, da “entità” anche non soggettivate giuridicamente) che perlopiù rimangono estranei all’instaurazione di qualsiasi tipo di legame (giuridico, sociale, o istituzionale) con i destinatari delle loro stesse “politiche” (sostanzialmente i cittadini del mondo, intesi in senso economico come consumatori), le lasciano agire spontaneamente, in virtù di continui adattamenti/aggiustamenti alle circostanze[11]. Appare inutile in questa sede soffermarsi sulla decifrazione dei singoli “attori” che mettono in moto questi complicati processi, tantomeno sarebbe del resto possibile elencarli con completezza, data l’alta tendenza degli stessi a rifluire nelle categorie privatistiche, in modo da godere di più libertà d’azione in cambio di una minore “visibilità”[12]. La loro individuazione puntuale richiederebbe in effetti un complesso lavoro di ricostruzione a partire dagli “eventi” verificatisi, una vera e propria indagine per capire da dove e soprattutto da quali fattori sono scaturiti, ma questo implicherebbe l’impresa titanica di osservare criticamente fatti che riguardano popolazioni intere, che attraversano più continenti (anche in tempo reale) e che oramai coinvolgono la maggior parte delle nostre attività quotidiane. L’effettiva portata di queste nuove dinamiche rispetto all’ordine giuridico-costituzionale di segno completamente opposto che caratterizza la maggioranza dei Paesi nel mondo e in ogni caso il “sentimento di sé” della cultura occidentale comporta la necessità di chiedersi se (e, in caso di risposta positiva, come) si possa ipotizzare che proprio attraverso “nuove strutture” fluide, perché globalizzate, la democrazia originariamente occidentale riesca a raggiungere definitivamente tutto lo spazio (cosmico), a coinvolgere davvero tutta la popolazione (cosmo-polita), a riguardare ogni aspetto della realtà (comprendendo indistintamente in essa politica, dell’economia, del sociale, della giustizia, del diritto), a realizzare, per dirla con in una espressione sintetica, un futuristico “governo democratico del mondo”, o usando espressioni correnti, una “global-governance[13]”, ma democratica. Emerge a questo punto un’altra netta differenza concettuale tra movimento globalizzante e metodo democratico: il primo presenta un solo riferimento concreto possibile, che è quello relativo alla natura umana, nello specifico quella di un “uomo in quanto uomo” (in senso prettamente individualistico), rispetto ai bisogni (segnatamente il profitto, tenendo in conto il carattere essenzialmente economicistico della globalizzazione) dal quale pretende che tutte le attività esistenti siano orientate, siano quelle svolte all’interno dei singoli Stati, o appartengano già alle dimensioni sovra/inter-nazionali. Anche il concetto di metodo democratico, da parte sua, fa costante riferimento alla dimensione dell’uomo in quanto individuo, come espressa nei principi costituzionali e pur sempre collocandolo entro la “comunità” di altri individui pari a lui[14], ma non soffre questi quali fini della sua azione, bensì li riconosce quali limiti invalicabili all’esercizio della stessa[15]. La questione dell’incontro/scontro tra democrazia e globalizzazione viene smontata praticamente sul nascere, essendo certo che questi due fenomeni agiscono in misura praticamente antitetica, la democrazia garantendo il rispetto dei diritti, la globalizzazione fondandosi su di essi, senza però corredarli di alcun sistema di protezione. Il motivo di tale lacuna sta nel fatto stesso per cui la “global governance” non conosce alcun sistema se non quello regolato (o meglio auto-regolantesi) dalle variabili economico-sociali, che a loro volta possono esplicitarsi (così come possono scegliere di rimanere “nell’opaco”) sfruttando le più svariate tecniche, sia di natura già nota (regolamenti, contratti, direttive, ordini..), magari estendendone il significato e la portata, sia di natura nuova e a volte anche problematicamente “incerta”. Molteplici sono i riferimenti possibili a queste categorie empiriche del diritto globale: si va dal difficile inquadramento della c.d. soft law; al “trionfo” della lex mercatoria quale diritto “autopoietico” dell’economia globale, positivizzante un vero e proprio «strato di norme costituzionali» al di sopra e al di là del proprio stesso ambito, in origine tipicamente contrattuale; alle pratiche di bargaining applicate al di fuori delle sedi tradizionali ossia privatistico/commerciali; ma ancor di più si parla di Global Administrative Law o di Corporate Constitutionalism, che, completamente avulsi da una possibile origine statale/economica/privatistica, si affermano come veri e propri fenomeni giuridici globali. Tutto questi fenomeni sfuggono non solo alle dimensioni ristrette degli Stati nazionali e all’azione dei loro organi istituzionali di rappresentanza politica, ma si sottraggono altresì a qualsiasi tentativo di istituzionalizzazione (politica o giuridica che sia), non essendo in grado di realizzarsi entro il presupposto di unità ed eguaglianza sostanziale di tutte le parti coinvolte, anzi cedendo spesso ai fenomeni di c. d. ipersovranità [16]di quelle potenze (anche statali, ma egemoni) che più di altre riescono a tradurre in atto con successo un tal genere di politica. 3. Tra idealizzazione e realtà: non c’è global-democracy senza un constitutional-global-government Non è peraltro molto difficile pensare al passaggio successivo rispetto all’ultima notazione fatta, per cui, proprio in virtù dell’impossibilitata opera di “conformazione” globale di tutte le democrazie sotto un’unica identità comune, la prevalenza (almeno nei termini “informali” di influenza politico-economica) sarà attribuita non tanto (o non più) agli ordinamenti fortemente legati al paradigma democratico liberal-costituzionale, ma a quelli che, per motivi storico-culturali (primi fra tutti gli USA), o in virtù di tendenze di politica economica intraprese soltanto di recente (i casi delle c.d. “tigri asiatiche”, affiancate da sempre più Stati appartenenti alle aree indo e medio-orientale), meglio si adattano ai menzionati tratti del global law, come è dimostrato dal dominio indiscusso che gli stessi già detengono sui piani commerciale, finanziario e digitale investiti dalla globalizzazione. D’altra parte, lo stesso imperativo globale comporta che la suddetta operazione “conformativa” (volta a rendere tutti gli Stati adeguatamente pronti ad affrontare la global-democrazia) avvenga proprio avendo a base i “modelli democratici” realizzatisi in tali contesti, che tuttavia, al di là dell’apparente “progressismo” mostrato sul piano politico, spesso mostrano preoccupanti lacune sul piano dell’effettivo rispetto delle garanzie costituzionali, dunque delle stesse basi imprescindibili per la “buona” democrazia)[17]. A mano a mano che il fenomeno della globalizzazione (nozione dunque onnipervasiva, non facente più riferimento ad un contenuto di valore preciso, come la democrazia, bensì inglobante in maniera indiscriminata ogni aspetto del reale) avanza le sue “pretese” nei confronti degli Stati, essa rivela peraltro un’ulteriore e controverso aspetto che la differenzia completamente da ogni altro tipo di “adattamento” già storicamente vissuto dagli stessi (come accaduto nell’ambito internazionale e/o comunitario) e che è stato sempre formalmente accolto nei sistemi giuridici interni. Le dinamiche globalizzanti infatti, (già pre-munite di estrema flessibilità, che per di più va incontro alla grande permeabilità dei sistemi democratici) poiché agiscono in maniera informale all’interno degli ordinamenti, cioè senza essere sottoposte alla insostituibile funzione di consapevole interpretazione e organizzazione svolta tramite gli strumenti giuridici a ciò preposti, rischiano di generare dannosi fenomeni di loro erosione strutturale, proprio a partire da nozioni di base in cui si concretano i caratteri pre-giuridici essenziali all’identificazione di qualsiasi sistema istituzionale. Nello specifico, ci si riferisce al popolo (il demos) cui dare voce, “punto cardine” della cultura democratica, poiché questo è appunto l’obiettivo funzionale per la democrazia, la cui “costruzione” non potrà mai dirsi definitivamente terminata: la sovranità integrale del popolo viene indicato come “ideale” da raggiungere. L’avvento delle dinamiche globali ha segnato una netta cesura rispetto al compito spettante alle istituzioni democratiche degli Stati, ossia quello della continua elaborazione di politiche sociali volte a favore del popolo (del c.d. welfare, per intenderci): i canoni della globalizzazione sono a-politici (perché non dediti di per sé alla formazione di un popolo, ma diretti ad un imprecisato “complesso” di cittadini c.d. “globali”) e altresì a-sociali (le “società cosmopolite” in effetti non esistono, essendo piuttosto l’insieme di quei soggetti privati che utilizzano i menzionati strumenti informali), nonché, essendo privi della capacità di tutelare il cittadino in maniera “generale e astratta”, di fatto vincolati a mere variabili contingenti ed insieme a queste infine destinati a consumarsi. Gli stessi imperativi, su questi presupposti, mal si adattano poi a “dialogare” correttamente con le istituzioni della rappresentanza politica, su cui intanto ricade sempre di più il peso della dura scelta categorica tra il dover rispondere (democraticamente) agli interessi del (proprio) cittadino o il dover seguire in maniera a-prioristica il resto del mondo[18]. Altro ambito che risulta profondamente colpito dagli innescati meccanismi di indiscriminata apertura globale è quello economico, ove ancora una volta può rintracciarsi la sempre più tangibile privazione per gli Stati della possibilità di definire una propria politica economica (consistente nelle pur limitate misure di “aggiustamento” volte a sostenere la struttura del c.d. welfare). In virtù della crescente sollecitazione da parte “mercato globale”, gli stessi ordinamenti si vedono costretti spesso a delegare ad altri protagonisti esterni l’imperio assoluto in tale campo, nel quale, al precipuo interesse pubblico di perseguire il benessere collettivo, si sono sostituiti i dettami di una (ipotetica) “costituzione economica globale”, i cui principi fondamentali sono rivolti a garantire l’ illimitata libertà di movimento delle sole “variabili” di mercato, dalle dinamiche fluide ed incerte consentono sempre meno spazio al raggiungimento di obiettivi fi utilità generale (soprattutto se di medio/lungo periodo), a vantaggio del perseguimento dei “risultati attesi”[19]. Si può in sintesi affermare che al “globalizzare” la realtà statale democratica debba necessariamente far precedere la ricerca di comuni parametri di riferimento, sulla cui base costituire regole potenzialmente applicabili ovunque, in qualunque momento, in qualsiasi circostanza. Questi stessi paradigmi si rivelano invece tuttora inadatti al confronto con il “bene comune”, di cui intanto entro i confini statali si continua a richiedere la promozione da parte delle rappresentanze politiche: una visione distopica che in sé rispecchia l’intrinseca contradizione in termini che si è finora palesata tra globalizzazione e democrazia, la quale insieme comprende e giustifica gli innumerevoli paradossi generati nelle attuali realtà (sempre meno) politiche.L’invito a questo punto è di ripensare i termini della questione proposta all’inizio, più precisamente di riscrivere i termini del rapporto democrazia-global governance in una constitutional- global governance, unica strada realmente praticabile per poter innalzare il livello di “democraticità” dei processi d’integrazione globale (intesi nel senso di un loro “avvicinamento alla cittadinanza”, ma stavolta mondiale), che risulta essere quella data dall’accrescimento e dalla transnazionalizzazione delle garanzie costituzionali[20]. Anche sul piano globale, quindi, così come rilevato in ambito statale, non può insomma concepirsi una reale democrazia senza costituzionalismo, anzi, benché ci si sforzi di immaginare che in un lontano futuro la global-democrazia possa realizzarsi sul serio, sarebbe il caso di concentrarsi in primo luogo nell’opera di ricostruzione delle strutture democratiche interne agli Stati (innanzitutto organi rappresentativi, autonomie locali e associazionismo politico/sociale), «contropoteri decisivi per la salvaguardia della democrazia “al tempo della globalizzazione”»[21]. [1] A. Baldassarre, Globalizzazione contro democrazia, Bari, Laterza, 2002, 6 s.: «L’essenza della globalizzazione sta nel fatto che una particolare azione umana, simultaneamente ad altre provenienti da non-importa quale luogo, può direttamente estendersi da una parte all’altra del mondo […] annullando tutto lo spazio fisico, cioè la distanza, e […] azzerando il tempo occorrente per il compimento dell’azione stessa» Dunque per l’autore, che abbraccia questa versione prettamente sociologica del concetto, essa è un prodotto della rivoluzione cibernetica che ha radicalmente rivoluzionato la comunicazione sociale ed essendo questa il mezzo principale attraverso cui si svolge ogni interazione umana ― arriva a dire che «non c’è attività sociale – dall’economia, alla politica, dall’etica al diritto, dall’educazione e dall’istruzione alla formazione culturale ― che possa sfuggire all’influenza della rivoluzione cibernetica»; mentre è diversa, ma allo stesso tempo complementare, l’interpretazione del termine da un punto di vista prettamente psicologico, un cui esempio è dato dal pedagogista belga O. Decroly, La fonction de globalisation et l’enseignement, Brussels, Lamertin 1929, il quale, nell’ambito degli studi sul metodo di apprendimento del bambino, afferma che egli coglie “globalmente” nella percezione gli oggetti a lui presentatisi in situazioni concrete e in essa tende ad inserire indistintamente anche gli stati d’animo, quindi le emozioni e gli interessi di base (i c.d. “bisogni”, quali il nutrirsi, il coprirsi, il difendersi..). Non essendo fin dall’inizio la sua mente predisposta a discernere analiticamente la realtà, costituiranno questi ultimi l’impulso principale per la stessa attività globalizzatrice. [2] In questi due campi, in effetti, la nozione trova le sue premesse applicative a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, quando l’uso del termine in sé ancora non è attestato, né nelle scienze sociali ― dove è viva però (già dalle esperienze degli anni Venti) la percezione di una crisi sistemica in atto ― né in economia, ambito in cui i mutamenti in corso venivano riconosciuti per la prima volta non semplicemente “provvisori”, ma definitivamente “costitutivi” dell’ordine post-moderno, tanto da far parlare (abbracciando la famosa interpretazione data nell’opera omonima di J.K. Galbraith) di una imminente vera e propria “età dell’incertezza”. Su questo e altri temi legati alle evoluzioni del concetto v. R. Sciortino, Il dibattito sulla globalizzazione: dagli anni Novanta ai segnali di crisi, Working Paper, Asterios, Maggio 2008. [3] Per quanto da molti ci si sforzi di analizzare la democrazia con i soli strumenti del giurista, ammesso che questo sia possibile e utile, l’aspetto culturale è una delle variabili che maggiormente determina il successo o meno delle “formule democratiche”. Quella occidentale-europea/anglo-americana (la liberal-democrazia) si è rivelata quale modello di maggior successo, proprio perché nasce dalla cultura europea, profondamente liberale; essa però, oltre a conoscere varianti al suo interno, si è vista nel tempo contrapporre modelli diversi, quali frutti altrettanto “culturali” di ambienti totalmente differenti (si ricordano tra i meno risalenti i risultati delle democrazie “innestate” nelle aree di ex-dominî coloniali o di quelle “intraprese” nell’Est europeo post-sovietico). Tra i più recenti casi di democratizzazione propostisi sulla scena mondiale vi sono quelli appartenenti al c. d. “East Asian Model” (tra cui si collocano Cina, Singapore, Taiwan, Sud Corea, Thailandia, Malaysia…), i quali attualizzano il discorso relativo al legame cultura/democrazia più di ogni altri. Come infatti fa notare acutamente F. Zakaria, The Future of Freedom, New York-London, 2003, 54 ss. :«A hundred years ago, when East Asia seemed immutably poor, many scholars- most famously Max Weber-argued that Confucian-based cultures discouraged all the attribues necessary for success in capitalism. A decade ago, when East Asia was booming, scholars had turned this explnation on its head, arguing that Confucianism actually emphasized the traits essential for economic dynamism. Today the wheel has turned again and many see in “Asian values” all the ingredients of crony capitalism». Così come è accaduto per il capitalismo, dunque, anche una volta intrapresa la “strada della democratizzazione”, il successo o meno dei modelli applicati in questi Paesi non può che essere valutato parallelamente e in relazione al giudizio sul “cammino culturale” da essi effettuato. Come più avanti lo stesso autore dirà: «If one wants to find cultural traits of hard work and thrift within East Asia, they are there. If you want instead to find a tendency toward blind oboedience and nepotism, these too exist » , tuttavia, a conferma di quanto il piano culturale sia spesso assai più complesso rispetto ai tentativi di “immagazzinarlo” entro strutture e istituzioni giuridiche, aggiunge : «Look hard enough and you will find all these traits in most cultures.», infatti proseguendo, :«East Asia is still rife with corruption, nepotism and voter fraud- but so were most Western democracies, even fifty years ago. Elections in Taiwan today are not perfect but they are probably more free and fair than those in the American South in the 1950s […] large conglomerates have improper influence in South Korean politics today, but so did their equivalents in Europe and the United States a century ago» insomma la sua conclusione è significativa :«One cannot judge new democracies by standards that most Western countries would have flunked even thirthy years ago . East Asia today is a mixture of liberalism, oligarchy, democracy, capitalism and corruption- much like the West in, say, 1900. But most of East Asia’s countries are considerably more liberal and democratic than the vast majority of other non-Western countries». Tutto ciò a riprova del fatto che sarebbe praticamente impossibile (nonché teoricamente errato e politicamente scorretto) procedere nella selezione del “modello (cultural)-democratico” ideale per la global-democrazia e dunque letteralmente “giudicare” quale tra le diverse culture dovrebbe prevalere, senza che però ci siano davvero alla base principi comuni, che siano astrattamente condivisibili da tutti, ossia principi costituzionali accomunanti, che siano formalizzati o no in un testo o più. [4] S. P. Huntington, The third wave. Democratization in the late twentieth century, 1991, (trad.it., La terza ondata. I processi di democratizzazione alla fine del XX secolo, Il Mulino, Bologna 1995, 36), in particolare parla di tre “ondate” di democratizzazione che hanno interessato diverse zone del mondo a partire dalla fine del XIX secolo, intendendo con queste «una serie di passaggi da regimi autoritari a regimi democratici, concentrati in un periodo di tempo ben determinato, in cui il numero di fenomeni che si producono nella direzione opposta (passaggi da regimi democratici a regimi autoritari) è significativamente inferiore». Per l’esattezza, mentre con la prima e (dopo quella di c. d. “riflusso”, corrispondente ai regimi totalitari degli anni ’20 e ’30) in parte con la seconda (dopo il secondo conflitto mondiale) la democrazia si consolida soprattutto l’Europa occidentale e l’America (sia nel Nord che nel Sud del continente), è con la seconda e la terza che questa si diffonde in zone completamente “nuove” (perché rimaste completamente estranee fino ad allora da ogni “contaminazione” democratica): l’Europa orientale, l’Africa, l’Asia centrale, i cui singoli Stati hanno tuttavia dato diversa prova circa la “tenuta” di questo modello. [5] Una conferma di quest’ultima constatazione è il disincantato bilancio sullo stato delle democrazie “innestate” nel continente africano fornito da O. Nwatchock A Birema, La démocratie en Afrique subsaharienne. Une question de volonté? che si legge in Carpadd, Note d’analyses sociopolitique, n.3/Mai 2018, 1 ss.:« Dans le sillage de la chute du mur de Berlin (1989), plusieurs États d’Afrique subsaharienne engagent, de façon tumultueuse, des réformes institutionnelles et juridiques devant faciliter la diffusion et l’intériorisation de la culture démocratique. Près de trente ans plus tard, le bilan démocratique est très mitigé, l'horizon de ce système est de plus en plus obscurci et les peuples ont largement déchanté. Le sentiment général est que les fruits récoltés de la pratique démocratique en Afrique n'ont pas confirmé la large promesse des fleurs de 1990. Le tableau est sombre : coups d'État récurrents, alternances bloquées, partis- (d’)États persistants, néopatrimonialisme, fragilité de l'État et de la souveraineté, sous-développement continu, etc. C'est manifestement le règne de la “démocrature “: maintien des logiques autoritaires sous les draps de la démocratie réelle. Bref, la démocratie est encore hésitante en Afrique». [6] Per questo A. Baldassarre, Globalizzazione contro democrazia, cit., 37 arriva a ritenere che: «La “forma” delle relazioni sociali come disegnata dalla globalizzazione confligge in particolare con la democrazia (pluralista-occidentale)», poiché in sostanza – egli continua ― «il mondo globale è fatto di molteplici relazioni, ma non si configura come una comunità». [7] Cfr. A. Spadaro, Il re è nudo: le Costituzioni sono “di tutti” (etica pubblica generale), ma non sono “vuote” (politicamente neutre), in Costituzionalismo versus Populismo, Scritti in onore di Lorenza Carlassare. Il diritto costituzionale come regola e limite al potere, Jovene, 2009, 3 ss [8] G. Azzariti, Democrazia e Costituzione nei grandi spazi della contemporaneità, Giornale di storia costituzionale, 32/ II 2016, 234 ss : «Che la Costituzione si ponga- e sia percepita- come lex superior risulta essere una precondizione essenziale perché essa possa continuare ad assicurare la garanzia dei diritti fondamentali ed a tenere separati i poteri. […] Una supremazia riconosciuta cioè sul piano di valori capace di imporsi a tutti i soggetti detentori del potere, ponendosi a fondamento di legittimazione della politica. È la Costituzione […] che deve fondare la politica e non viceversa». [9] M. R. Ferrarese, Mercati e globalizzazione. Gli incerti cammini del diritto, in Politica del diritto, 3/ 1998, 3 ss :«Si può insomma parlare di nuove forme di “intelligenza giuridica” prodotte al contempo da vari soggetti pubblici e privati, che accompagnano la vita dei mercati. [..] si potrebbe dire che i mercati registrano, accanto alle tradizionali misure giuridiche statali, la produzione di nuove forme giuridiche che non hanno più un carattere prestabilito, ma assumono piuttosto modalità adattive […] Esse non si propongono più tanto il fine di normare e governare le relazioni economiche, quanto di costruirle, ampliarle, legalizzarle, rispondendo volta a volta a finalità organizzative, di contrattazione, di flessibilità ecc.» In seguito l’autrice sottolinea come la produzione di “intelligenza giuridica”, pur partendo dal campo economico, con il coinvolgimento di soggetti sempre più numerosi, genera cambiamenti «sia sulla natura delle istituzioni economiche, che assumono una valenza politica, che su quella degli Stati, che per converso assumono come proprii moduli di azione economica, come quello della competizione». [10] G. Azzariti, Democrazia e Costituzione nei grandi spazi della contemporaneità , “ in Ivi”, 235 si sofferma sull’assetto pensato dal costituzionalismo post-moderno o globalizzato, che giunge a «scindere il rapporto tra costituzione e politica», per cui «[..] la costituzione finirebbe per perdere la sua specifica forza precettiva» e quindi «[…] il costituzionalismo finirebbe per assolvere ad una funzione sostanzialmente descrittiva degli ordinamenti e delle organizzazioni sociali, secondo il tipico modello pre-moderno di costituzione. Si dovrebbe correttamente parlare, allora, di nascita di un neo-medioevalismo costituzionale». [11] Ancora , sulle entità “multiformi” di tali “nuove dinamiche”, v. M.R. Ferrarese, op.cit., 1 ss : «[Esse] possono avere sia carattere istituzionale che carattere non istituzionale. In secondo luogo possono avere sia carattere sovranazionale, come mostra l’importante esempio dell’ Unione Europea, sia carattere infranazionale, come avviene ad esempio quando protagoniste di accordi sono regioni o aree che possono appartenere allo stesso Stato o a più Stati. Così, […] nel contesto della globalizzazione, ci si riferisce a realtà diverse, in parte disegnate da processi istituzionali, in parte [..] da processi spontanei e informali». Tra i casi che più vengono richiamati sulla base di queste indicazioni si colloca sicuramente l’ambiente europeo (soprattutto quello disegnato dal c.d. mercato unico) che, caratterizzato da una molteplicità di culture giuridiche senza una definita dinamica istituzionale, si trova spesso a dover legittimare le scelte dei propri soggetti politici con il ricorso a motivazioni “tecniche”, presuntamente neutrali (fatto che spesso costa all’Unione l’appellativo di “tecnocrazia”); così come pure si muovono le c.d. “tigri asiatiche”, vere e proprie late-comers sia in campo economico che politico, le quali (pur consistendo in “Stati”, sia geograficamente, sia culturalmente) sfruttano le più variegate tecniche giuridiche, politiche e statali per raggiungere di volta in volta risultati preventivamente fissati. [12] La ragione di questa “traduzione” dal pubblico al privato è insita nella natura stessa delle dinamiche globalizzanti, innescate a partire dal campo economico, da sempre (e soprattutto a partire dalla rivoluzione capitalistica) connotate da una caratteristica ad esse utile, considerando che la dimensione privata è anche il luogo della schermatura dal controllo del potere politico. Un assunto convalidato dall’esperienza storica e divenuto anche oggetto di principi fondamentali garantiti dalle Costituzioni (ad es. negli articoli 13, 23, 32 e 41 della Costituzione italiana. Quest’ultimo assicura che “L’iniziativa economica privata è libera”. Tali prescrizioni tuttavia, proprio in virtù di un processo di perdita della loro forza precettiva vengono soppiantate da modelli contrattuali uniformi, codici di condotta internazionali, lex mercatoria, quali prodotti da corporazioni transnazionali, (tra cui si può collocare anche il WTO) , ONG, multinazionali, tutti soggetti sempre più slegati dal circuito politico-rappresentativo che ridisegnano il diritto a vantaggio dell’ interesse. [13] Cit. G. Azzariti, op. cit., 237. [14] Basti pensare, a questo proposito, proprio al testo dell’art 41 nella Costituzione italiana, appena richiamato, dove, accanto al diritto di libera iniziativa economica del singolo, è previsto il divieto di contrasto al principio di “utilità sociale”(c. 2) e il vincolo al rispetto della sicurezza, libertà e dignità umana altrui. Limiti che, purtroppo, diventano sempre più irrilevanti mano a mano che l’economia si allarga verso lo spazio globale, allontanandosi dalle discipline giuspubblicistiche statali. [15] Il problematico rapporto tra il costituzionalismo democratico (riferito ai diritti umani) e la Drittwirkung transnazionale e globale (che pure, affermatasi più di recente, ha fatto enormi progressi in pochi decenni grazie soprattutto al contributo di attori collettivi non statali, spesso gli stessi protagonisti dei movimenti globali) nasce da uno scontro teorico tra nomoi differenti, segnalato già da C. Schmitt, Il Nomos della terra nel diritto internazionale dello "jus publicum europaeum", trad. it., Milano, 1991, che vede il nomos democratico ancora vincolato alla dimensione dello Stato sovrano, la quale a sua volta è impermeabile all’influenza del nomos internazionale; mentre per il nomos globale ciò che accade all’interno degli Stati assume «la più piena rilevanza», data la «massima permeabilità degli Stati stessi di fronte ad autorità internazionali o a forze esterne che intendano far valere gli unici criteri conferenti legittimità alla società globale, e cioè la libertà individuale e diritti umani». Quest’ultimo principio fa sì che possano svilupparsi sul piano dei rapporti tra Stati dottrine come quella dell’“ingerenza umanitaria”, permettendo che democrazia e diritti siano imposti da chi (Stati, ONU o altri attori) nel vuoto politico e giuridico, ha la forza di sostituire un governo globale che non esiste. Non si può non sottolineare come, così facendo, non si alimenti la democrazia, ma piuttosto la si conduce proprio contro i suoi principi, rendendola in primo luogo illiberale. [16]È quasi paradossale che, proprio mentre ci si avvicina sempre di più al tanto auspicato superamento del “dogma” della sovranità statale, questa faccia il suo ritorno sulla scena globale, addirittura presentandosi in forma rinforzata. Questo, secondo A. Baldassarre, op.cit., 143 ss., è dovuto all’idea che la globalizzazione, nonostante stia proseguendo il suo cammino nell’area giuridico-poltica, nasce pur sempre quale sistema economico “autoregolantesi”, che non conosce la politica istituzionalizzata, e non può per questo auto-controllarsi. Nel mercato cioè, come l’autore sottolinea ( 174 ss.) «emerge un problema di cittadinanza [..] perché (esso) ammette al suo interno, non già ogni individuo, ma soltanto le persone che hanno potere d’acquisto», il che a sua volta confligge con il principio di eguaglianza (e in particolare con la regola one man, one vote), quindi determina che “votino”, ossia pesino, «non solo le persone fisiche, ma anche le cosiddette persone giuridiche (cioè società, fondazioni ecc..) e tutti gli altri soggetti [...] che interferiscono con le attività economiche e finanziarie (banche centrali, autorità indipendenti ecc..)». Nel mercato, insomma, «ogni persona entra con un diverso peso legato, non solo alla differente posizione ricoperta nella scala sociale, ma anche alla specifica funzione e allo specifico ruolo svolto». Il mercato non può, in sostanza fondare la democrazia, essendo anzi piuttosto un pericolo per essa. [17] A parte il caso nordamericano, la cui cultura giuridica (difficilmente riproducibile altrove, date le particolari vicende storiche del Paese) contiene da sempre i tratti distintivi del tipo di diritto “globalizzato”: basti pensare ai principi del judge-made law, o del corporate law , al riuscito connubio tra drift e direction e a tutte le altre caratteristiche dinamiche “ di stampo mercantile” che vengono di volta in volta assorbite dal diritto, tanto da poterlo eleggere a sua “metafora” (cit. M. R. Ferrarese, op.cit., 30: Il diritto americano: metafora del diritto globalizzato?). Più preoccupanti sono invece le linee evolutive su cui Paesi dell’Est, del Sud-est asiatico e del Medio Oriente si sono assestati. In un continuum con il discorso già intrapreso, si può sostanzialmente dire che il problema di queste zone non stia tanto nel non riuscire a riprodurre le “ricette” democratiche dei Paesi occidentali, attraverso la liberalizzazione/modernizzazione dell’economia, l’assetto di una burocrazia, di un sistema giudiziario indipendente e persino di una Costituzione scritta, bensì nella mancanza di quegli elementi (prima di tutto culturali) volti a dare effettività alle regole formali: in riferimento a quelle che in un ordinamento che voglia dirsi democratico debbono porsi al di sopra di qualunque altra, si parla significativamente di “Costituzioni senza costituzionalismo”. L’assonanza con le tendenze globali(zzanti), portatrici di valori umanitari, ma sfornite di sistemi volti a garantirne la tutela, è evidente. [18] La “sfida” della globalizzazione è e rimane prima di tutto sociologica, in quanto solo a partire da una (ri)specificazione dell’ambiente socio-culturale (globale) in cui inserire funzioni, processi e strutture (global)-costituzionali potrà ottenersi una legittimazione piena di questi ultimi: le domande che a questo punto sopraggiungono ruoteranno intorno al come effettuare un tale tipo di transizione. Così G. Teubner, Costituzionalismo della società transnazionale, Relazione al XXVIII Convegno annuale dell’AIC, in Riv. AIC, 4/2013, 7 ss, ne tenta in forma interrogativa una possibile elencazione, suddividendole per ambiti d’indagine: «(1)Funzioni costituzionali. Producono i regimi transnazionali, analogamente alle costituzioni dello Stato-nazione, norme che esercitino funzioni più che meramente regolative o di risoluzione dei conflitti, dunque [..] le funzioni d’una costituzione?. […] (2) Ambiti costituzionali. Si possono identificare anche all’interno dei regimi diversi ambiti regolativi della costituzionalizzazione, la cui standardizzazione è essenziale per un costituzionalismo democratico in forme comparabili all’interazione dei processi politici organizzati e di formazione spontanea dell’opinione pubblica regolata nella parte organizzativa delle costituzioni statali?[…] (3) Processi costituzionali. Riescono le norme giuridiche prodotte all’interno dei regimi ad avere una connessione sufficientemente diretta col loro contesto sociale d’una “nomic-community” comparabile alla connessione delle norme costituzionali nazional-statali con la nomic-community della politica? [..] (4) Strutture costituzionali. Formano i regimi le tipiche strutture costituzionali proprie dei contesti dello Stato-nazione? E producono in particolare le note gerarchie normative e le loro garanzie istituzionali?». Dare risposta a questi interrogativi rappresenta per l’autore un vero e proprio compito “multidisciplinare” , a cui la stessa globalizzazione, vista sul serio in un’ottica più “globale” (nonché più costituzionale), richiama. [19] G. TeubneR Ibidem, .3, parla della Costituzione economica globale così come sviluppata dal “Washington Consensus” degli ultimi trent’ anni nei termini che seguono: «Non ha prodotto meramente delle regolazioni politiche, ma piuttosto la standardizzazione di principi costituzionali. Questi ultimi sono stati finalizzati a garantire illimitati margini di manovra per le imprese operanti a livello globale, ad abolire le partecipazioni pubbliche a combattere il protezionismo commerciale e a liberare gli attori economici dalle regolamentazioni politiche». Si evince da tale impostazione la scarsa “costituzionalità” dei principi suddetti, non rispondenti al compito di istituire quelle “limitazioni” tipiche di un tale tipo di sistema. Anzi, rileva lo stesso autore, «la produzione di regole limitative in sostituzione delle regolazioni nazionali non era all’ordine del giorno, […] è stata per anni ritenuta controproducente. Soltanto oggi, in seguito alla quasi-catastrofe delle ultime crisi economico-finanziarie, sembrano essersi messi in moto processi d’apprendimento collettivo che in futuro potrebbero portare a limitazioni costituzionali per l’economia a livello globale». [21] A. Spadaro, Su alcuni rischi, forse mortali…,.cit., 29, il quale conclude che «In breve: probabilmente non serve tanto più democrazia globale, quanto più “regole globali” ispirate a giustizia distributiva internazionale, conseguentemente minori “competenze statali” e più “autogestione democratica locale”». |
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