a cura di Carlo Comensoli Negli ultimi decenni, l’Asia centrale ha visto crescere la propria importanza geopolitica. Fino a trent’anni fa, infatti, quest’area geografica era parte integrante dell’Unione Sovietica: questo pone tuttora i paesi che la compongono sotto l’influenza di Mosca, soprattutto per quanto riguarda il Kazakistan e il Kyrgyzstan, che fanno parte dell’Unione economica eurasiatica. Va da sé che il rapido emergere della Cina come potenza globale ha inevitabilmente intaccato gli equilibri della regione, soprattutto da quando Pechino ha iniziato a cambiare gradualmente la propria attitudine in politica estera proiettandosi verso l’esterno. Questo processo, come è noto, ha visto la propria concretizzazione nella presidenza di Xi Jinping e nel lancio dell’immenso progetto della Belt and Road Initiative (BRI), la “Nuova via della seta”, che proprio in questa regione vede necessariamente uno snodo cruciale. Questo piano globale di investimenti infrastrutturali e non solo si è ovviamente presentato fin da subito come un’enorme opportunità di crescita economica e miglioramento delle condizioni di vita per le popolazioni di questi paesi. Ciò è particolarmente vero per due repubbliche come il Tagikistan e il Kyrgyzstan, strutturalmente diverse tra loro ma entrambe caratterizzate da una situazione economica particolarmente instabile, con un prodotto interno lordo che dipende in buona parte dalle rimesse dei cittadini che lavorano all’estero. Allo stesso tempo, la strategia di investimenti nella regione da parte di Pechino porta con sé dei rischi, soprattutto alla luce del fatto che in pochi anni è diventata il primo creditore dei due paesi: la Cina infatti detiene attualmente il 41% del debito pubblico del Kyrgyzstan e il 53% di quello del Tagikistan. La strategia adottata dalla Cina non si limita solo a questa regione, ma negli anni ha coinvolto altri paesi, e come è noto ha anche esteso la propria influenza all’Africa subsahariana. A partire dal lancio del progetto della BRI da parte di Xi Jinping nel 2013, la Cina ha progressivamente prestato 350 miliardi di dollari a paesi in via di sviluppo, tra cui molti considerati debitori ad alto rischio. È chiaro, quindi, che la battuta d’arresto alla crescita economica causata dalla pandemia di Covid-19 si è fin da subito presentata come un ostacolo alla linea condotta fin qui da Pechino. Già durante la scorsa primavera questa problematica ha iniziato a delinearsi a livello internazionale, sollevando interrogativi su quali sarebbero state le risposte della Cina a fronte di questo nuovo scenario. Da un lato, infatti, se adottasse una politica di riprogrammazione delle scadenze e cancellazione dei debiti, questo avrebbe ovviamente ripercussioni sul sistema finanziario interno e sulla già compromessa crescita economica della Repubblica Popolare. Tuttavia, anche un approccio intransigente e la pretesa di pagamenti nell’impossibilità di assolvere alle condizioni stabilite prima del 2020 comprometterebbe non solo la stabilità dei singoli paesi, ma anche lo sforzo cinese di estendere la propria influenza a livello globale. Se consideriamo il caso di Tagikistan e Kyrgyzstan, i due paesi più poveri dell’Asia Centrale, questo fenomeno ha avuto importanti implicazioni a livello locale. Visto l’impatto degli effetti della pandemia nella regione, la Cina starebbe riprogrammando la propria strategia. Anche solo osservando la posizione geografica di questi due paesi è possibile capire come gli interessi in gioco per la superpotenza le impediscono di rinunciare tout court al ruolo primario che svolge nell’economia della regione. Tuttavia già prima del 2020 Pechino ha in parte abbandonato la politica di adozione di accordi di credito su larga scala con i due paesi per lo sviluppo di progetti infrastrutturali, visto il concreto rischio di non poter assolvere alle condizioni previste, mentre negli ultimi sei anni avrebbe per lo più puntato sullo sviluppo industriale della regione e sulle esportazioni verso il mercato cinese. Complice anche il cambio di strategia, quindi, a differenza di altri paesi che hanno stretto accordi con la Cina nell’ultimo decennio, Tagikistan e Kyrgyzstan, almeno fino alla prima metà del 2020, sono generalmente riusciti a rispettare le condizioni. Rispettivamente ad agosto e settembre, invece, per gli effetti della inevitabile contrazione del primo semestre, i due paesi hanno ufficialmente richiesto la riprogrammazione delle scadenze. Se da un lato, però, lo scenario che si prospetta come conseguenza della pandemia di Covid-19 porterebbe quasi far pensare al rischio di una spirale del debito con Pechino, la novità degli ultimi mesi è stato il maggiore coinvolgimento del Fondo Monetario Internazionale. L’istituzione con sede a Washington è infatti intervenuta già prima dell’estate con prestiti di 242 milioni di dollari al Kyrgyzstan e di quasi 190 milioni al Tagikistan per finanziare il pagamento dei debiti dei due paesi con la Export-Import Bank of China, il maggior creditore delle due repubbliche centro-asiatiche. Già prima di quest’anno, quindi, la strategia adottata dalla Cina nei due paesi è gradualmente cambiata diminuendo i finanziamenti su larga scala per lo sviluppo delle infrastrutture. Considerando comunque la posizione strategica dei due paesi, rimane comunque importante osservare come si svilupperà la situazione nei prossimi anni, anche seguendo gli sviluppi politici interni. I cittadini di entrambi i paesi sono andati alle urne lo scorso ottobre: in Tagikistan, Emomali Rhamon è stato prevedibilmente riconfermato come Presidente con il 90% dei voti (probabilmente supererà l’ex presidente kazako Nursultan Nazarbayev come leader rimasto in carica più a lungo in un’ex Repubblica Socialista Sovietica). In Kyrgyzstan, invece, considerato tuttora come l’unica democrazia in Asia Centrale, i risultati delle scorse elezioni sono stati invalidati dalla Commissione elettorale centrale in seguito alle proteste nella capitale Biškek. In attesa del nuovo voto, il leader nazionalista Sadyr Japarov svolge l’incarico sia di Primo ministro che di Presidente della Repubblica, e nel frattempo ha anche indetto un referendum costituzionale che potrebbe portare a un ulteriore accentramento dei poteri nelle mani del Capo di Stato. In tutto questo, se dieci anni fa gli interessi di Pechino nella zona apparivano come un’opportunità di sviluppo economico, oggi il rischio di una spirale del debito con la superpotenza ha portato a un crescente scetticismo, se non a tratti sinofobia, tra la popolazione.
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