Centro Studi Internazionali per Associazione Nicola Ciardelli Di Enrico Bruni La guerra in Italia Dall’entrata in guerra dell’Italia nel 1940 al 1945 la penisola fu da subito sconvolta da incessanti bombardamenti, intensificatisi a seguito dell’invasione nazista che trasformò di fatto il territorio nazionale in una trincea. L’obbiettivo dei bombardamenti aerei erano gli impianti industriali e bellici italiani, ma le tecnologie militari post I guerra mondiale non erano ancora così sofisticate da permettere azioni chirurgiche contro bersagli strategici. I soldati alleati e quelli dell’Asse non si trovavano pertanto a maneggiare armi di precisione: il radar, infatti, verrà brevettato proprio durante il secondo conflitto mondiale da ingegneri britannici. Pertanto, non saranno soltanto gli obbiettivi strategici a crollare sotto il fuoco delle potenze alleate: interi quartieri, infrastrutture civili, luoghi di culto diverranno ben presto vittime involontarie del conflitto – proprio per questo si parla di conflitto totale in riferimento alla Seconda Guerra Mondiale. Il 31 agosto 1943 i bombardamenti per aprire la strada alle truppe alleate raggiungono la nostra città. Gli obbiettivi sono chiari: fiaccare le infrastrutture di sostentamento della guerra fascista e abbattere il morale dei civili. Il bersaglio sono ancora una volta gli impianti della zona industriale di Porta a Mare, ma ben presto gli aerei alleati arriveranno a colpire tutte le strade fino a Porta Fiorentina. Il bombardamento fu effettuato da 152 apparecchi americani, suddivisi in quattro squadroni, composti da Boeing B17 (le cosiddette Fortezze Volanti) e da B 24 - “Liberator”. Le difese antiaeree italiane non furono in grado di opporre alcuna resistenza, poiché i velivoli operavano ad alta quota. Le prime bombe raggiunsero il suolo alle 13 e nell'arco di 9 minuti caddero circa 1.100 bombe, per un totale di 408 tonnellate di esplosivo. Tutta la parte sud oltre Piazza Vittorio Emanuele II si trasformò in una lugubre distesa di macerie. I dati sottostimati della Prefettura indicarono 952 vittime, 1.000 feriti, 961 case crollate e molte centinaia danneggiate. Precedentemente, nella notte tra il 9 e il 10 luglio l’esercito degli Alleati aveva concluso con successo lo sbarco delle proprie truppe in Sicilia, non trovando una resistenza militare in grado di difendere le coste dell’isola. Il 25 luglio il Gran Consiglio del Fascismo, massimo organo dirigente del Partito Nazionale Fascista e più alto organo costituzionale del Regno d’Italia sotto la dittatura, approvava l’ordine del giorno Dino Grandi con 19 voti favorevoli (Acerbo, Albini, Alfieri, Balella, Bastianini, Bignardi, Bottai, Cianetti – ritira il giorno successivo – Ciano, De Bono, de Marsico, De Stefani, De Vecchi, Federzoni, Gottardi, Grandi, Marinelli, Pareschi, Rossoni), 7 contrari (Biggini, Buffarini-Guidi, Farinacci, Frattari, Galbiati, Polverelli, Scorza, Tringali Casanova) e un astenuto (Suardo). L’odg recitava: “Il Gran Consiglio del Fascismo, riunendosi in queste ore di supremo cimento, volge innanzi tutto il suo pensiero agli eroici combattenti di ogni arma che, fianco a fianco con la gente di Sicilia, in cui più alta risplende l'univoca fede del popolo italiano, rinnovano le nobili tradizioni di strenuo valore e d'indomito spirito di sacrificio delle nostre gloriose Forze Armate. Esaminata la situazione interna e internazionale e la condotta politica e militare della guerra; proclama il dovere sacro per tutti gli italiani di difendere ad ogni costo l'unità, l'indipendenza, la libertà della Patria, i frutti dei sacrifici e degli sforzi di quattro generazioni dal Risorgimento ad oggi, la vita e l'avvenire del popolo italiano; afferma la necessità dell'unione morale e materiale di tutti gli italiani in questa ora grave e decisiva per i destini della Nazione; dichiara che a tale scopo è necessario l'immediato ripristino di tutte le funzioni statali, attribuendo alla Corona, al Gran Consiglio, al Governo, al Parlamento, alle Corporazioni i compiti e le responsabilità stabilite dalle nostre leggi statutarie e costituzionali; invita il Governo a pregare la Maestà del Re, verso il quale si rivolge fedele e fiducioso il cuore di tutta la Nazione, affinché Egli voglia per l'onore e la salvezza della Patria assumere con l'effettivo comando delle Forze Armate di terra, di mare, dell'aria, secondo l'articolo 5 dello Statuto del Regno, quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a Lui attribuiscono e che sono sempre state in tutta la nostra storia nazionale il retaggio glorioso della nostra Augusta Dinastia di Savoia". A seguito di questo voto epocale, Benito Mussolini si recò a Villa Savoia – residenza reale all’interno del più grande complesso di Villa Ada, oggi sede dell’Ambasciata Egiziana – per presentare le proprie dimissioni a Re Vittorio Emanuele III, il quale ne ordinò l’arresto nominando il Maresciallo di Italia Pietro Badoglio Capo del Governo. Sebbene la caduta del regime venne effettivamente interpretata dalla popolazione come la fine della guerra, è noto il proclama radio del Maresciallo Badoglio “la guerra continua al fianco dell’alleato germanico”. Nei quarantacinque giorni che separano l’Italia dall’Armistizio la storia italiana si caratterizza per due aspetti: le forti proteste popolari a favore della pace parallelamente alla riorganizzazione dell’antifascismo politico, e lo stanziamento in Italia dei primi reparti tedeschi contemporaneamente alle trattative segrete del Governo italiano con i comandi degli Alleati. Il 3 settembre 1943 fu così stipulato l’Armistizio tra Regno d’Italia e anglo-americani. Questo verrà reso noto agli ex “alleati germanici” solo cinque giorni dopo, l’8 settembre, giorni preziosi che permetteranno allo Stato Maggiore del Regio Esercito, al Governo tutto e, soprattutto, alla famiglia Savoia di abbandonare la Capitale e di riorganizzarsi a Brindisi, in quello che diverrà il Regno del Sud. Sulla fuga dei vertici dello Stato italiano e sulla non predisposizione di un piano per fronteggiare le truppe tedesche presenti sul territorio nazionale, si sono espressi in molti, avanzando tesi alle volte contrastanti. In un articolo della Rivista Limes, l’analista Gino Birindelli fornisce una lettura politica interessante e originale di quell’avvenimento storico: “L’8 settembre 1943 l’Italia non ha perso l’onore militare, come si tende a far credere. Ha perso l’onore politico. Se ancora oggi soffriamo di una crisi di credibilità internazionale è perché per due volte in un quarto di secolo, nella prima come nella Seconda guerra mondiale, abbiamo abbandonato l’alleato liberamente scelto. Non per colpa o per decisione delle forze armate, che furono mandate a morire in una guerra sbagliata nei tempi e nei modi, ma per l’incapacità e per la mancanza di cultura militare della nostra classe dirigente. Se ancora oggi l’Italia è considerata politicamente inaffidabile, la causa sta nel tradimento dell’8 settembre”. In alcuni territori della penisola e dell’ex “Impero” le truppe italiane tentarono di organizzare da soli una controffensiva alla penetrazione delle truppe tedesche, che, seguendo le disposizioni predisposte dall’Alto Comando tedesco sotto il nome in codice di “Operazione Achse”, dall’8 al 19 settembre puntarono a neutralizzare le forze armate italiane e a occupare l’Italia centro-settentrionale, nonché i territori occupati nel Mar Egeo e nei Balcani. Qui, ricordiamo, tra i tanti episodi, la strage della Divisione Aqui a Cefalonia e la resistenza approntata da reparti autorganizzati del Regio Esercito e di civili a Porta San Paolo. (VIDEO https://www.youtube.com/watch?v=MJH3GwYbV1Q VIDEO 2 https://www.youtube.com/watch?v=SRBzflFtOhE) Nello stesso mese Mussolini fu liberato dal reparto di Otto Skorzeny dalla sua prigionia sul Gran Sasso e il 23esimo giorno dello stesso mese venne istituita la Repubblica Sociale Italiana con capitale nella località di Salò, in Lombardia. La penisola si divise così in due: lo Stato italiano legittimo a sud, lo Stato fantoccio saloino a nord. In questo contesto, la città di Pisa si trovò sopra la Linea Gustav e sotto la Linea Gotica, in regime di occupazione nazifascista: la guerra continua e si trasforma in guerra di Liberazione. Il conflitto in città Nei primi mesi del 1943 le città del nord non erano state il bersaglio principale dell’aereonautica alleata, che si era piuttosto concentrata sulle zone del Meridione per fornire supporto aereo allo sbarco delle truppe in Sicilia. In quei mesi la Soprintendenza pisana lavorava in previsione delle incursioni aeree che avrebbero coinvolto la città con l’avvicinamento del fronte. In Piazza del Duomo venivano ultimati i preparativi per la difesa antiaerea e in aprile il capo delle maestranze Bruno Farnesi organizzava la messa in sicurezza delle ultime opere d’arte rimaste in Duomo. L’Opera del Duomo si caratterizzò in quei giorni come un punto di riferimento per la cittadinanza, stabilendo il 15 maggio che in caso di incursioni aeree la Cattedrale sarebbe stata adibita a rifugio antiaereo, mentre Battistero, Campanile e Camposanto sarebbero stati sigillati. Nei mesi di giugno e luglio gli allarmi aerei si intensificarono, costringendo gli operai della Primaziale a interrompere ad ogni sirena i lavori di tutela del patrimonio artistico. La Soprintendenza, nella persona del soprintendente Vittorio Invernizi, aveva disposto i lavori per la protezione antiaerea dei monumenti della Piazza, complicati però non soltanto dalle dinamiche della guerra, ma anche dalla mancanza di fondi. Dopo il bombardamento di Livorno del 28 maggio fu evidente la necessità di approntare nuove modalità di tutela del patrimonio locale. Fra queste, venne proposta la creazione di squadre di volontari dediti allo spegnimento degli incendi e l’approntamento di depositi d’acqua in prossimità dei monumenti maggiormente minacciati – come già era stato fatto a Firenze; queste due direttive non poterono tuttavia essere esperite. Sotto la direzione di Piero Sanpaolesi, succeduto a Invernizi come Sprintendente il I luglio 1943, i lavori a tutela del patrimonio artistico della città e di Piazza dei Miracoli proseguirono in continuità con quanto precedentemente disposto. A Calci proseguiva lo sfollamento e la manutenzione delle opere d’arte della Cattedrale e nel luglio dello stesso anno il Ministero autorizzò la Soprintendenza a iniziare lo sgombero delle opere conservate nel Museo Civico di Pisa trasferite in provincia di Firenze, nella Palazzina del Campo da Golf dell’Ugolino sulla via Chiantigiana. Il 31 agosto 1943 i bombardamenti per aprire la strada alle truppe alleate nella loro avanzata raggiungono la nostra città. Gli obbiettivi sono chiari: fiaccare le infrastrutture di sostentamento della guerra fascista e abbattere il morale dei civili. In città erano molti a pensare che la zona sarebbe stata risparmiata dai bombardamenti, soprattutto per la presenza dei monumenti della Piazza. Pisa, tuttavia, era al tempo uno snodo strategico particolarmente interessante nel contesto del conflitto: ospitava l’aeroporto, era attraversata dall’Aurelia che la collegava al porto di Livorno, nonché era sede di stabilimenti industriali al servizio delle dinamiche di guerra. Così, alle 13 del 31 agosto, quattro squadroni di apparecchi americani composti da Fortezze Volanti e da B 24 - “Liberator” sorvolano la città, prendendo come bersagli la parte sud-ovest, partendo dal quartiere industriale di Porta a Mare e arrivando fino a Porta Fiorentina. Le difese antiaeree italiane non furono in grado di opporre alcuna resistenza, poiché i velivoli operavano ad alta quota. Le prime bombe raggiunsero il suolo alle 13 e nell'arco di 9 minuti caddero circa 1.100 bombe, per un totale di 400 tonnellate di esplosivo. Sulla Saint Gobin furono lanciate circa 367 bombe; a Porta a Mare gli stabilimenti industriali furono rasi al suolo e l’affollato quartiere operaio riportò un altissimo numero di caduti. Tutta la parte sud oltre Piazza Vittorio Emanuele II si trasformò in una distesa di macerie. I dati sottostimati della Prefettura indicarono 952 vittime, 1.000 feriti, 961 case crollate e molte centinaia danneggiate. Il conflitto imperversò nella nostra città fino al 2 settembre 1944 quando i partigiani scortarono le truppe angloamericane nella città già controllata dal Comitato di Liberazione Nazionale, ma i mesi di occupazione tedesca erano stati carichi di sofferenze per tutta la città. Il 2 settembre 1943 la difesa contraerea italiana, denominata dai pisani “Tosca”, mancando il bersaglio nemico, colpì una colonna della sesta galleria della Torre, che l’anno seguente sarebbe diventata attrazione per l’esercito di liberazione da cui poter estrarre un ironico souvenir della città. Nel settembre del 1943 altri due pesanti bombardamenti, avvenuti rispettivamente nelle date di 23 e 24 settembre, danneggiarono il tetto del Duomo, provocando lievi danni anche alla facciata, e il tetto del Camposanto, danno che mise a serio rischio la conservazione degli affreschi della parete nord-est. In quei bombardamenti le zone residenziali di Borgo Stretto e delle Case Dipinte vennero prese di mira, come, del resto, il patrimonio monumentale ecclesiastico: la chiesa di Sant’Antonio, già danneggiata nel bombardamento del 31 agosto, venne definitivamente distrutta (si salvò soltanto un bassorilievo di una Madonna col Bambino di Andrea Guardi), mentre le chiese del Carmine, di San Paolo a Ripa d’Arno e dei Santi Cosma e Damiano subirono ulteriori danni. Nel mese di ottobre, un’ulteriore incursione aerea colpì la zona di Porta Nuova, provocando l’apertura di una voragine all’interno delle mura medievali all’altezza della Porta del Leone. In quel giorno, la Domus Mazziniana, già colpita nei bombardamenti del mese precedente, venne completamente distrutta; si salvò solo una parte corrispondente alla stanza in cui morì Mazzini, il cui letto fu trasportato in salvo fuori dall’edificio per salvarlo dal crollo. Gli uffici della Soprintendenza avevano intanto lasciato la città, trasferendosi temporaneamente nei locali della Certosa di Calci. Il trasloco delle opere d’arte dal Museo Civico della Città si era dovuto interrompere a causa dei bombardamenti, riprendendo poi nel novembre e interessando successivamente il patrimonio del Museo dell’Opera del Duomo. A complicare le operazioni di trasferimento nei depositi fu anche il cambio di regime dallo Stato italiano agli apparati della Repubblica di Salò: con la nomina a direttore generale Antichità e Belle Arti del Ministero dell'Educazione Nazionale del fascista Carlo Anti, i piani di salvaguardia che prevedevano il trasferimento delle opere in depositi predisposti a Roma con il supporto della Santa Sede vennero liquidati e sostituiti con la soluzione di Firenze. In quello stesso mese le maestranze del Camposanto avevano dato il via a una prima campagna di restauro del tetto dell’edificio, riparando le capriate del tetto e la copertura di lastre piombo. Il 25 dicembre un altro bombardamento salutò le festività natalizie, causando ingenti danni al tetto del Camposanto. Nei due mesi successivi tutti gli sforzi della Primaziale furono volti alla riparazione del tetto, preservando in questo modo gli affreschi alle pareti. Con il nuovo anno, i bombardamenti non cessarono, verificandosi in maniera più strategica e periodica. Questi distrussero la ferrovia e l’aeroporto, devastando la zona della Cittadella e il Centro della città. A seguito dei bombardamenti migliaia di abitanti sfollarono sui monti e nelle campagne, i servizi amministrativi furono ridotti a zero, le officine cessarono la loro produzione e la città, non appena gli eserciti alleati la raggiunsero, si trasformò in una trincea. Il 19 luglio iniziò l’offensiva dell’esercito alleato via terra e i tedeschi ordinarono di minare i ponti e i lungarni per rallentare l’avanzata. Così, a nord dell’Arno si assestarono i tedeschi supportati dalle milizie repubblichine, mentre da sud gli alleati “cannonavano” le difese tedesche stanziate sui lungarni. In quell’ultima estate di guerra i danni provocati dalla guerra fascista erano stati ingenti: in giugno tra bombe e mine tedesche la cittadella era stata pesantemente danneggiata, mentre Palazzo Pretorio con la sua torre dell’orologio e vaste zone dei lungarni con i loro storici ponti erano state rase al suolo. Non si trattò soltanto di perdite in numeri di civili, ma di un vero e proprio stravolgimento del disegno urbanistico della città che alterò per sempre la sua immagine ottocentesca. L’incendio del Camposanto A luglio si verificò quella che fu la vera e propria tragedia per il patrimonio storico artistico della nostra città e non solo: il 27 luglio durante un bombardamento di artiglieria proveniente da mezzogiorno, venne esploso un colpo che raggiunse il tetto del Camposanto Monumentale provocando un incendio di alcune capriate. Le fiamme che divamparono fusero le lamine di piombo che formavano il tetto: un evento simile si era già verificato nel 1595, quando durante i lavori di ristrutturazione una piccola fiamma usata dagli operai provocò l’incendio di gran parte del tetto della Cattedrale, danneggiando così la struttura e gli arredi medievali. Il danno al Camposanto era di portata straordinaria. Nel corso dei secoli questo monumento aveva assunto una fama e un valore superiore a tutti gli altri monumenti della piazza: considerato una sorta di Pantheon cittadino, avendo accolto nel corso dei secoli le sepolture degli esponenti più illustri della città, a partire dal 1700 era divenuto una delle tappe del cosiddetto gran tour per gli straordinari affreschi che adornavano le pareti delle gallerie. Camposanto dei grandi della città in origine, poi vero e proprio museo arricchito dagli acquisti voluti dal suo conservatore nominato nei primi dell’800, Carlo Lasinio, che in quegli anni si adoperò per traferire in questo luogo monumenti antichi ed opere d’arte provenienti da altre chiese di Pisa e dal territorio. Chiaramente non era volontà degli Americani quella di colpire monumenti tanto importanti quanto quelli di Piazza dei Miracoli; tuttavia, erano già stati fatti vari piani nel caso in cui le ipotesi che vedevano la presenza di un comando tedesco negli edifici della Piazza si fossero rivelate vere. L’obbiettivo di quei colpi di artiglieria leggera era una batteria tedesca posta alle spalle di Piazza del Duomo in via Contessa Matilde che, purtroppo, venne mancata in quella notte di fine luglio. Fu così che il 27 luglio, i colpi di artiglieria statunitensi arrivarono sul tetto del Camposanto Monumentale, provocando un incendio che non fu possibile arrestare – responsabilità anche da imputare ai tedeschi di stanza in città che si rifiutarono di aiutare i cittadini a placare le fiamme in una fase in cui la città era priva d’acqua. Il calore sprigionato dall’incendio della copertura del tetto provocò il rigonfiamento degli intonaci dipinti degli affreschi che rigonfiandosi si distaccarono in parte dal muro. Nel giro di una notte uno dei più imponenti esempi di architettura medievale si trasformò nell’ombra di se stesso. In quei mesi di caldo estivo le travi lignee del tetto erano particolarmente secche e per questo fu facile per il fuoco progredire di trave in trave molto rapidamente. Bruciando le travi, il piombo che le rivestiva, liquefacendosi, iniziò a colare sugli affreschi e sui sarcofagi conservati all’interno delle gallerie, distendendosi poi sul pavimento marmoreo a mo’ di manto dallo spessore di qualche millimetro. L’azione del capitano Deane Keller e del gruppo dei Monuments Man Nel corso dei primi due anni di guerra i governi delle nazioni belligeranti stavano assumendo coscienza della natura dei danni della guerra nei confronti del proprio capitale storico culturale. Negli Stati Uniti, gruppi di privati cittadini e Organizzazioni Non Governative si mobilitarono già dai primi tempi del 1943 per la creazione di un programma di salvaguardia del patrimonio artistico europeo. A seguito di una forte crescita di un sentimento internazionale in termini di protezione e con l’intento di migliorare la propria immagine all’estero, il Presidente Roosvelt autorizzò l’istituzione di una commissione al fine di salvaguardare l’arte nei territori occupati dagli Alleati. La commissione prese il nome di American Commission for the Protection and Salvage of Artistic and Historic Monuments in War Areas, conosciuta anche come Second Roberts Commission dal nome del suo presidente, Owen Roberts, Giudice della Corte Suprema, ed operò a fianco dell’esercito statunitense fino al 1946. Poco dopo l’istituzione della Roberts Commission, venne affidato al capitano Deane Keller, professore di Belle Arti all’Università di Yale, l’importante incarico di coordinare il distaccamento italiano della task force Monuments, Fine Arts and Archives, i cosiddetti Monuments Men. Il gruppo dei Monuments Men operò fino al 1951: composto da circa 345 soldati tra uomini e donne provenienti da quattordici paesi diversi, aveva il compito di proteggere i beni culturali e le opere d’arte nelle zone di guerra. Il 2 settembre 1944, il gruppo dei Monuments Men entrò a Pisa insieme agli Alleati. In una prima perlustrazione dei luoghi più importanti della città, il capitano Keller rinvenne tre mine piazzate dai tedeschi nel Palazzo dell’Archivio di Stato. Se queste fossero esplose avrebbero provocato, oltre alla devastazione dello storico edificio, la distruzione di importanti documenti in esso conservati. Nei giorni successivi al 2 settembre il capitano Keller si dedicò completamente all’organizzazione dei soccorsi e degli interventi di recupero del Camposanto Monumentale e del Palazzo dell’Università, i due monumenti maggiormente danneggiati. Era volontà del comando americano organizzare immediatamente un primo intervento di protezione e recupero di quei monumenti, nonostante poco più avanti imperversasse ancora la battaglia. Keller riunì velocemente una squadra di lavoro di cui primo collaboratore fu il Sovrintendente di Pisa dott. Sanpaolesi che, sebbene accusato di collaborazionismo col regime nazisfascista, fu indicato dallo stesso Keller come una figura necessaria di consulenza nella prima fase degli interventi. A questo primo nucleo di periti tecnici si affiancarono oltre ai genieri americani, un gruppo di cooperatori italiani e volontari civili, grazie ai quali l’obbiettivo di messa in sicurezza del perimetro del Camposanto fu raggiunto nel giro di pochi giorni. I lavori partirono dando priorità alla ricostruzione di una copertura in cartoni catramati necessaria a salvaguardare dall’arrivo della stagione autunnale quanto restava degli affreschi, ma questa soluzione si rivelò ben presto non sufficiente e così si propose di realizzare un nuovo tetto con materiali più consistenti. Il reperimento di questi materiali non fu semplice: in città la domanda per materiali edili si era notevolmente alzata a seguito delle necessità della ricostruzione e Keller dovette ricorrere a un’azione di forza. Venuto a conoscenza della presenza di un carico di legname nel porto di Livorno destinato all’uso bellico, ne ordinò la requisizione e lo fece portare in piazza del duomo, innalzando così una copertura con la collaborazione del capo delle maestranze dell’Opera, Bruno Farnesi. Ma l’impegno di Keller non si concluse qui: chiamando a Pisa i massimi specialisti in restauro da tutta la penisola liberata, permise così di dare il via agli interventi di pulitura della pavimentazione, dei sarcofagi e di salvaguardia degli affreschi. Già nell’ottobre di quell’anno, a poco più di un mese dalla liberazione di Pisa, la prima fase del recupero era stata completata e il Camposanto poteva dirsi sostanzialmente salvo. Deane Keller tornò a Pisa nella primavera del 1965: tornò non soltanto per rivedere quel monumento che tanto si era impegnato a salvare dalla catastrofe e a cui ormai si sentiva indissolubilmente legato, ma fu l’occasione per vedere ufficialmente riconosciuto il proprio lavoro dalle istituzioni cittadine quando l’Opera della Primaziale gli consegnò la medaglia d’onore della città di Pisa con la motivazione “per il contributo essenziale dato alla ricostruzione del Camposanto”. A otto anni dalla sua morte, al termine di un lungo iter burocratico, la salma del professor Deane Keller è stata tumulata il 23 maggio del 2000 in Camposanto, più precisamente in quell’ala nord da dove nel ’44 scaturirono le fiamme. Una testimonianza letteralmente impressa nel marmo di quanto l’impegno profuso per la ricostruzione di un patrimonio storico artistico mondiale sia rimasta indissolubilmente impressa nella memoria collettiva della città di Pisa. Bibliografia di Riferimento:
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