a cura di Gianluca Maglione Il 9-10 dicembre è andato in scena il “Summit for Democracy”, pensato da Joe Biden nel corso della campagna presidenziale allo scopo di rilanciare la leadership statunitense in tema di diritti e porre un argine all’avanzata dei regimi autoritari nel mondo. L’iniziativa - che ha riunito intorno ad un tavolo virtuale ben 110 paesi, protagonisti della società civile, media e dissidenti – ha rappresentato l’occasione per compattare il fronte democratico, chiamando a raccolta i paesi pro-USA, e riabilitare l’immagine statunitense a seguito degli eventi del 6 gennaio 2021. Al termine delle due giornate di incontri, il vertice ha fatto parlare di sé non tanto in relazione agli impegni assunti, quanto alla lista dei partecipanti stilata dalla Casa Bianca. L’elenco, infatti, ha generato non poche perplessità alla luce degli standard democratici di alcuni invitati, sollevando critiche tra gli esclusi e imbarazzi tra i presenti. Il criterio adottato da Washington è parso piuttosto ambiguo, segnalando la volontà di coniugare ragioni ideologiche, come la lotta all’autoritarismo, ad interessi più strettamente geopolitici. Tra le grandi escluse, neanche a dirlo, hanno figurato Cina e Russia, principali antagoniste di Washington per la supremazia globale, che si sono affrettate a criticare l’iniziativa statunitense. Il Summit lanciato da Biden ha avvicinato Pechino e Mosca che, attraverso un editoriale apparso sul The National Interest, firmato dai rispettivi ambasciatori a Washington, hanno definito il vertice un prodotto della mentalità statunitense da Guerra Fredda, in riferimento all’appello lanciato da Biden nei mesi precedenti allo scopo di chiamare a raccolta il “mondo libero”. Dal canto suo, Pechino, in un documento intitolato "Cina: la democrazia che funziona", ha ribadito che non esiste un modello predeterminato di democrazia, criticando la definizione imposta dall’Occidente ed esaltando la democrazia cinese attenta agli interessi del popolo. Nel frattempo, la propaganda di Stato si è data da fare nel tentativo di minare l’iniziativa diplomatica della Casa Bianca, irritata dall’invito di Taiwan, considerata una provincia ribelle da riunificare al continente. Tra i membri della NATO escluse eccellenti sono state l’Ungheria, unico paese dell’Unione Europea al quale non è stato esteso l’invito - suscitando l’evidente imbarazzo di Bruxelles e la reazione dell'ambasciata ungherese a Washington - e la Turchia di Erdoğan, protagonista da tempo di una svolta in senso autocratico. Di contro, nella lunga lista di invitati hanno figurato paesi quali Angola, Filippine, Iraq, Pakistan, per citarne alcuni, che mostrano indici di democrazia decisamente scarsi. Circa il 30% di questi, infatti, occupano saldamente gli ultimi posti della classifica compilata annualmente da Freedom House, etichettati come “parzialmente liberi” o, persino, “non liberi”. È forse per tale ragione che Biden - consapevole dei discutibili indici democratici di alcuni paesi invitati - abbia parlato di un incontro “per la democrazia” e non di un summit “di democrazie”, avendo cura di evitare qualsiasi riferimento a motivazioni di carattere strategico. Alla luce degli eventi di Capitol Hill, peraltro, viene da chiedersi se gli stessi Stati Uniti siano attualmente nella posizione di guidare la leadership democratica globale, dal momento che uno dei due maggiori partiti si rifiuta di accettare i risultati delle ultime elezioni presidenziali, ritenendole illegittime. Nel proprio intervento, Biden non ha dimenticato di rimarcare come alcune libertà, in particolare quelle di voto, vengono minacciate anche nel suo paese, denunciando le difficoltà del sistema americano. Il riferimento è alle pratiche di alcuni Stati a guida repubblicana che hanno approvato leggi per ostacolare i diritti di voto dei più poveri e delle minoranze. A vertice concluso (passato piuttosto in sordina) resta da domandarsi, dunque, quali e che tipi di risultati abbia prodotto. Dal punto di vista degli impegni assunti, il Governo statunitense ha rivendicato il proprio ruolo guida varando un piano di 424,4 milioni di dollari in aiuti esteri, ribattezzato Presidential Initiative for Democratic Renewal. I fondi, che passeranno dall’approvazione del Congresso, saranno destinati a supportare media liberi e indipendenti, contrasto alla corruzione, sostegno alle riforme in senso democratico e installazione di sistemi tecnologici avanzati per la democrazia. Dal punto di vista dei rapporti globali, invece, l’iniziativa statunitense ha indubbiamente esacerbato lo scontro con le cosiddette “autocrazie”, che hanno visto il vertice un chiaro tentativo della Casa Bianca di perseguire interessi più ampi, facendo leva sulla retorica democratica. Infatti, se la difesa della democrazia è al vertice dell’agenda statunitense, la partecipazione al Summit di alcuni paesi è apparsa piuttosto singolare, segnalando obiettivi che trascendono il rafforzamento della stessa. Nei mesi a venire, quindi, la credibilità dell’amministrazione Biden dipenderà dalla capacità di coniugare la promozione dei principi del “mondo libero” con il perseguimento di interessi strategici, che legano inevitabilmente gli Stati Uniti, e più in generale l’Occidente, a paesi lontani dall’essere società aperte, pluraliste e rispettose dei diritti umani. Inoltre, alla luce delle sfide globali come la pandemia, l’inquinamento, la transizione ecologica - che richiedono l’impegno dell’intera comunità internazionale, e specialmente di due attori importanti come Russia e Cina - sarà necessario evitare il ricorso a logiche che distinguono paesi “buoni” e “cattivi”, determinando effetti controproducenti.
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