A cura di Lorenzo Giordano, Programma sulla politica estera italiana
Il 25 marzo i Ministri degli Esteri dei tre Paesi europei maggiormente impegnati sul fronte libico – Italia, Francia e Germania – e rispettivamente, dunque, Luigi Di Maio, Jean-Yves Le Drian e Heiko Maas hanno incontrato a Tripoli gli esponenti del nuovo governo di unità nazionale, tra cui il Primo Ministro ad interim Abdulhamid Dbeibeh e il loro omologo Najlaa al-Manqoush, membri dell’esecutivo recentemente insediatosi, appoggiato dal voto di fiducia del Parlamento riunificato, che avrebbe il compito di condurre il Paese verso le elezioni parlamentari e presidenziali fissate per il prossimo 24 dicembre. Un governo nominato lo scorso febbraio a Ginevra da un gruppo di rappresentanti libici nell’ambito del Forum di Dialogo politico libico (LPDF), uno strumento negoziale, sotto egida ONU, istituito durante la conferenza di Berlino del gennaio 2020. Nel corso della missione congiunta, i capi dei dicasteri degli esteri di Roma, Parigi e Berlino hanno espresso con un’unica voce, quella europea, il pieno supporto al nuovo governo di unità nazionale e ribadito la volontà da parte dell’Unione di ritornare in Libia e sostenere Tripoli in un complesso processo di stabilizzazione i cui presupposti dovranno poggiare sul rispetto dei diritti umani e sul ritiro dei mercenari e delle forze straniere ancora presenti all’interno del Paese. Gli obiettivi, nell’immediato, vertono sul rilancio delle attività economiche, in particolare produzione ed esportazione di gas e petrolio, e sul dossier immigrazione, ancora in mano ad organizzazioni criminali. Si tratta di un passo cruciale per Tripoli, sconquassata da quasi dieci anni di conflitto, a seguito della caduta dell’ex regime di Muammar Gheddafi e dell’intervento esterno a guida NATO del marzo 2011. La transizione post-Gheddafi mise in luce la polarizzazione delle forze politiche tra un fronte “laico” e un fronte “rivoluzionario-islamista”, favorita da una crescente tensione nel contesto internazionale tra i sostenitori dell’islam politico – Turchia e Qatar – e le forze conservatrici – Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Egitto. Il conflitto è stato altresì esacerbato dalla divisione interna tra il Governo di Accordo Nazionale (GNA), guidato da Fayez al-Sarraj, e il Parlamento e l’esecutivo di Tobruk, che facevano capo alle milizie del generale dell’Esercito Nazionale Libico (LNA), Khalifa Haftar, in controllo della Cirenaica (regione libica orientale), in opposizione alle milizie associate di Misurata e Tripoli nell’Ovest del Paese. Inoltre, la Libia veniva a riprodurre il terreno di scontro in cui si riverberavano, e si riverberano ancora, le proiezioni mediorientale e mediterranea di Russia, a sostegno di Haftar, e Turchia, principale alleato del GNA – come testimonia l’Accordo di Tripoli, firmato il 17 agosto 2020, per la cooperazione trilaterale in campo militare tra Libia, Turchia e Qatar. Un accordo che prevedeva la concessione da parte di Tripoli ad Ankara del porto di Misurata come base militare per le navi militari operanti nel Mediterraneo Orientale e l’uso, da parte dell’aviazione militare turca, della base aerea di al-Watya, nella Tripolitania Occidentale. Era stato proprio l’appoggio militare della Turchia ad impedire ad Haftar di conquistare Tripoli, a seguito della sua offensiva lanciata nell’aprile 2019. Fino ad arrivare all’accordo per il cessate il fuoco firmato a Ginevra lo scorso ottobre tra le delegazioni libiche rivali, nel quadro del Comitato militare congiunto 5+5. La riunione collegiale del 25 marzo ha rimarcato la necessità per la Libia di riottenere piena sovranità: uno scenario su cui pesano la fragilità dell’attuale governo di unità nazionale, l’incertezza circa le future iniziative sul piano operativo da parte di Haftar, che controlla l’est del Paese, e la poco realistica marginalizzazione del ruolo del generale in ottica riunificazione delle forze armate. Malgrado ciò, Haftar avrebbe fornito segnali di apertura al nuovo esecutivo, autorizzando ad esempio l’attracco di navi mercantili battenti bandiera turca, le quali potranno approdare nei porti libici orientali, tra cui Bengasi, posti sotto il controllo dell’LNA. La visita si è svolta due giorni dopo la proroga fino al marzo 2023 da parte del Consiglio europeo, nell’ambito della Politica di sicurezza e difesa comune, del mandato dell’operazione militare aeronavale EuNavFor-Med “Irini”, che sarà guidata dal contrammiraglio Stefano Frumento e dispiegata nel Mediterraneo per assicurare il rispetto dell’embargo sulle armi imposto nel 2011 dalle risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’ONU nei confronti della Libia. Tuttavia, concepire puramente tale visita come un segnale di unità dell’UE a Tripoli e, parallelamente, non guardare ai singoli attori potrebbe essere fuorviante. Infatti, i ministri degli Esteri di Italia, Francia e Germania si fanno portatori, in prima istanza, degli interessi di tre Stati sovrani dotati di un peso geopolitico specifico che trascende la matrice sovranazionale europea. L’Italia, per via della sua posizione naturale, ha notevoli interessi nel quadro della cooperazione mediterranea legati all’approvvigionamento energetico, alla gestione dei flussi migratori, alle crisi interne e internazionali e ai rapporti economici in primis con la Libia, uno dei primi fornitori di petrolio e gas italiani che, nel 2018, ha rappresentato il 16% della produzione di idrocarburi complessiva di ENI. Sul piano geopolitico, la perdita di influenza di Roma sulla sua ex “quarta sponda” ha favorito forti penetrazioni estere, configurazioni di posture nazionali assertive, tra cui quella di Ankara, la cui cooperazione con Tripoli si realizza non soltanto sul fronte interno libico ma si proietta nel più ampio teatro geostrategico del Mediterraneo Orientale. L’Italia vuole tornare ad essere il primo interlocutore libico, come dimostra la visita a sorpresa di Di Maio – primo tra i ministri Ue a essere ricevuto dal nuovo governo – in un vertice con il premier Abdulhamid Dbeibeh il 21 marzo. In secondo luogo, la strategia italiana in Libia si è scontrata con quella francese. Una politica francese improntata all’interventismo, evidente nel 2011, anno in cui Parigi favorì la caduta del regime di Gheddafi. Dato il suo passato coloniale nella regione del Maghreb, l’area è considerata dalla Francia un hotspot di primario interesse nazionale. Parigi ha approfittato della mancanza di una linea esecutiva e politica coerente dell’Italia per affermarsi come leader della pacificazione libica, puntando sul generale Haftar. A ciò si aggiungono gli interessi energetici: dalla primavera del 2018 Total, la principale azienda energetica francese, è tornata a muoversi nel Paese, con acquisizioni e partecipazioni societarie che hanno portato la produzione francese in territorio libico a 4,1 milioni di tonnellate di greggio nel 2019. Dal punto di vista strategico, invece, qualora l’accordo per il cessate il fuoco dovesse perdurare e la fase di transizione portare ad un’effettiva stabilità, i francesi potrebbero rivolgere la loro attenzione nei confronti della Tripolitania, dal momento che la Cirenaica sembrerebbe soggetta prevalentemente agli interessi russi ed emiratini. Infine, la Germania, che occupa una posizione secondaria nel Nordafrica rispetto ai suoi partner europei, intende conquistare una rilevante fetta di mercato attraverso la creazione di fondi per promuovere gli investimenti delle piccole e medie imprese tedesche nei progetti di ricostruzione libici. Inoltre, questione di primo piano, Berlino vuole a tutti i costi scongiurare una crisi migratoria, simile a quella del biennio 2015-16, che possa ripercuotersi sulla stabilità del territorio tedesco. La Libia, infatti, costituisce un Paese di transito per gli immigrati provenienti dall’Africa subsahariana e diretti in Europa, e una sorta di Paese “cuscinetto” a cui delegare competenze in materia di pattugliamento delle coste. |
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