a cura di Ludovica Radici Giovedì 11 marzo, il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione per contrastare la violazione dei diritti umani in Bahrein, chiedendo in particolare la fine delle vessazioni del regime nei confronti degli attivisti per i diritti umani e l’introduzione di una moratoria sulla pena di morte, condannando inoltre il continuo ricorso alla tortura nelle carceri, che comprende la negazione delle cure mediche e ad altri trattamenti crudeli e degradanti nei confronti dei detenuti, compresi i manifestanti pacifici e i civili. Questa risoluzione è stata accolta con gioia da parte di molte associazioni che si occupano di diritti umani nel Golfo, esortando però la società civile a non abbassare la guardia e a continuare la battaglia per la difesa dei diritti umani. Ma da dove nasce la loro richiesta? Il 14 febbraio scorso, a Manama, la capitale del Bahrein, si sono accesi alcuni moti di protesta in memoria delle manifestazioni del 2011. Mentre in quell’anno i giornali si focalizzarono principalmente su Tunisi e il Cairo, la primavera araba era arrivata anche nel Golfo, dove i cittadini si riversarono in strada per protestare contro le violazioni dei diritti umani e la mancanza di democrazia. In Bahrein, i manifestanti scesero in piazza denunciando la discriminazione interconfessionale che il regime di Al-Khalifa infliggeva alla comunità sciita del Paese – che costituisce ancora oggi circa i due terzi dell’intera popolazione, guidata da una monarchia sunnita –, e chiedendo libere elezioni governative. La reazione del regime fu però estremamente violenta, in quanto ordinò alla polizia di usare gas lacrimogeni contro i manifestanti, causando molti feriti sia in piazza Lulu (perla in arabo), il principale punto di ritrovo della manifestazione, che nella principale università del paese, dove gli studenti si erano riuniti per manifestare il loro scontento nei confronti del governo. Il regime di Al-Khalifa chiese inoltre aiuto militare all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti per reprimere la protesta, basandosi sulla narrazione di un conflitto di natura settaria che vedeva contrapporsi i sunniti e gli sciiti, accusando questi ultimi di essersi alleati con l’Iran e di aver tradito lo spirito di unità nazionale del Paese. A dieci anni dalle proteste del 2011, la situazione dei diritti umani in Bahrein non ha fatto altro che peggiorare. Qualsiasi tipo di opposizione politica è stata bandita: nel 2011, il leader del movimento d’opposizione Haq, Hasan Mushaima, è stato arrestato e il movimento è stato sciolto. La stessa sorte è toccata a Sheikh Ali Salman, il fondatore di Al-Wefaq, un altro partito di opposizione costretto a sciogliersi nel 2016, anno in cui i dissidenti politici, tra i quali attivisti e avvocati che si occupano di diritti umani, manifestanti e giornalisti, hanno dovuto affrontare una repressione sempre più crescente, che includeva totale censura, divieti di lasciare il paese, arresti arbitrari e torture. Con l’avvento della pandemia da COVID-19, organizzazioni come Amnesty International e Human Rights Watch hanno inoltre espresso la loro preoccupazione per le condizioni sanitarie dei detenuti, chiedendo al governo bahreinita di liberare gli attivisti per i diritti umani, i leader dell’opposizione e i giornalisti che erano stati imprigionati semplicemente per aver esercitato il loro diritto d’espressione e di assemblea. In seguito a queste raccomandazioni, il 17 marzo 2020 il Bahrein ha scarcerato più di 1.400 prigionieri, 901 dei quali hanno ricevuto la grazia reale, escludendo però proprio le categorie di prigionieri menzionate dalle organizzazioni umanitarie. Il rifiuto di scarcerare attivisti umani e giornalisti risulta particolarmente preoccupante, se si considerano le condizioni nelle quali versano la maggior parte delle prigioni del paese, in particolare il carcere di Jau, quello più importante: i centri di detenzione bahreiniti, infatti, sono estremamente affollati, elemento che rende il distanziamento sociale impossibile, e le loro condizioni sanitarie sono molto scadenti. Ai prigionieri politici vengono spesso negate le cure mediche, in contravvenzione alle regole standard minime delle Nazioni Unite per il trattamento dei detenuti, conosciute anche come regole di Mandela. La privazione di cure mediche per prigionieri politici e attivisti dei diritti umani viene utilizzata come pratica punitiva dal regime, attirando le condanne da parte di quattro Relatori Speciali delle Nazioni Unite a settembre 2019, e da parte di altri otto nel novembre dello stesso anno. Nell’ambito della pandemia, questa pratica sta mettendo ulteriormente a rischio la vita dei prigionieri politici più anziani, molti dei quali soffrono di patologie pregresse. In seguito allo scoppio della pandemia, Il governo bahreinita ha inoltre impedito a più di 1.000 pellegrini sciiti di tornare dall’Iran, mentre tutti gli altri cittadini del Bahrein in viaggio verso altri paesi del Medio Oriente, come Giordania, Emirati Arabi Uniti, Oman, e Turchia, hanno avuto modo di rientrare nel paese senza alcun problema. Le misure per il contenimento del COVID-19 hanno fornito un’arma al regime di Al-Khalifa per limitare ulteriormente le libertà dei cittadini sciiti. Il Bahrein rimane quindi un paese estremamente autoritario, dove le oppressioni nei confronti della società civile e della popolazione sciita persistono e le riforme rivendicate dalla popolazione nel corso della primavera araba non sono state attuate. Questa situazione ha spinto anche Lewis Hamilton, tra i più grandi piloti di tutti i tempi e il maggior detentore di vittorie nella storia della competizione automobilistica, a schierarsi contro gli abusi dei diritti umani in Bahrein nel dicembre scorso, in vista del campionato di Formula 1 che ha avuto inizio domenica 28 marzo a Manama. Ora che anche il Parlamento europeo ha preso una posizione istituzionale contro le violenze perpetrate dal regime bahreinita nei confronti dei suoi stessi cittadini, la speranza è che queste pressioni inducano il Paese ad approvare almeno alcune delle riforme richieste ormai più di dieci anni fa.
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