a cura di Luca Tonelli Il progetto della Bar-Boljare è storia tutt’altro che nuova. Con le prime proposte avanzate ancor prima che il Montenegro nascesse nazione sovrana, Milo Đukanović – controverso protagonista della politica montenegrina dal 1991 all'agosto 2020 – già nel 2005 si stagliava come uno dei maggiori sostenitori del progetto, sottolineandone le potenzialità per il rilancio economico del nord dell’allora provincia serba. Rapportati alle dimensioni di uno Stato con poco più di 600.000 anime, i 169,2km autostradali che connetterebbero la Serbia con l’Adriatico rendono la Bar-Boljare una grandiosa opera infrastrutturale. Resa gravosa dall’orografia regionale e dai dubbi sui reali benefici economici, nel 2006 e 2012 due analisi europee ne hanno bocciato la fattibilità finanziaria. Proprio in quegli anni, tuttavia, Pechino iniziava ad affacciarsi sul panorama infrastrutturale internazionale sia attraverso la Belt and Road Initiative (BRI), che la “16+1 cooperation” – di cui Podgorica è tuttora membro. In una regione dove i legami sino-balcanici sono eredità della guerra fredda, il 2014 ha così visto l’inizio dei lavori per la sezione Smokovac-Matesevo, la prima del tratto autostradale. Lungo circa 41km, dei quali 20km di gallerie e 4,5 km di ponti (36 fra viadotti e sopraelevati), questo segmento è realizzato dalla China Road and Bridge Corporation (CRBC) ed è figlio di un maxifinanziamento da quasi €1 miliardo elargito dalla Export-Import Bank of China. Denominato in dollari americani con un tasso d’interessi del 2%, un orizzonte di 20 anni per il rimborso e 6 anni di grace-period, il prestito copre l’85% dei costi (lievitati a circa €1,3 miliardi dopo la doppia estensione della scadenza nel 2020), l’equivalente di circa un quarto del PIL nazionale montenegrino. Se fonti governative sostengono che l'autostrada possa già essere percorribile dalla fine di questo anno, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) stima un'ulteriore spesa di €1,2 miliardi per il completamento dell’opera. Una somma gigantesca considerando il crollo del 15% del PIL montenegrino causato dalla crisi pandemica, la quale ha trascinato il rapporto debito-PIL oltre quota 90%. Se il Montenegro dovesse trovarsi inadempiente, i termini del contratto darebbero accesso a Pechino a porzioni di terra come collaterale, con il porto di Bar principale indiziato. A oggi, il Montenegro è la prima nazione europea a trovarsi in quella che viene definita “trappola del debito” vis à vis Pechino. L’Ambasciata cinese a Podgorica, dal canto suo, sottolinea come il governo montenegrino abbia beneficiato di tassi concorrenziali, che i costi elevati siano dettati dalla geografia regionale e che l’hype riguardante la “debt-trap diplomacy” deficita di fondamento. Un interessante studio condotto dalla Johns Hopkins University pare avallare quest’ultimo aspetto, criticandone la mistificazione mediatica. La realtà, pertanto, risulta molto più sfumata di quanto la retorica non dipinga. Il modus operandi dei lavori ricalca però la struttura dei progetti infrastrutturali della BRI: ogni disputa legale avrà infatti luogo dinnanzi a una corte di arbitrato cinese; i materiali importati per la costruzione sono esentati da tariffe; tre quarti dei lavorati impiegati nei cantieri vengono dalla Regno di Mezzo. Insomma, un progetto a marchio cinese, finanziato da istituti cinesi e realizzato da aziende cinesi. Data le costrizioni economiche attuali e l’avvicinarsi del termine del primo pagamento, a luglio 2021, il ministro delle finanze nel nuovo governo di coalizione montenegrino Milojko Spajic ha cercato il supporto dell’UE, definendo la situazione del proprio paese “drammatica da un punto di vista geopolitico”. Spajic ha altresì definito la partecipazione economica dell’Unione come una win-win cooperation, essendo la prima volta che una nazione dei Balcani occidentali si spinge, così apertamente, verso Bruxelles per controbilanciare la presenza cinese sul suo territorio. Allo stesso tempo, è da sottolineare come solo lo scorso dicembre fosse stato il ministro degli esteri montenegrino Radulovic a dichiararsi favorevole ad un maggior coinvolgimento di Pechino nell’economia. Sulla stessa lunghezza d’onda, il 13 Aprile il Ministro degli Esteri cinese Zhao Lijian ha sottolineato come esista una consolidata amicizia fra le due nazioni e che Pechino spera di poterne allargare ulteriormente la cooperazione “a beneficio di entrambi i popoli”. Se da una parte è indubbio l’opaco lascito del progetto, dall’altra vi è un apparente tentativo di dare una svolta europeista a un paese che dopo 30 anni ha scelto di cambiare marcia politica. Per tutta risposta, la Commissione europea ha rimbalzato le richieste di Podgorica, argomentando che l’Unione è il maggiore partner commerciale, investitore e provider di fondi assistenziali del paese e si rifiuta di ripagare prestiti fatti da nazioni con terze parti. Palazzo Berlaymont ha poi corretto il tiro confermando l’apprensione per gli scompensi macroeconomici che i prestiti cinesi rischiano di causare, aggiungendo che l’Unione potrebbe partecipare nel completamento dell’autostrada attraverso il Western Balkans Investment Framework. Un tentativo, sebbene tardivo, di bilanciare la BRI nella regione. La Bar–Boljare esemplifica infatti la dicotomia fra i ritorni finanziari richiesti dalle istituzioni occidentali e le necessità infrastrutturali della regione. Evidenzia come Pechino abbia riempito i vuoti lasciati dall’Europa in materia di politiche di sviluppo, mantenendo il proprio approccio strategico. Nell’intera regione Balcanica, 64 delle 102 attività cinesi sono nei settori dell’energia e dei trasporti. Il 14 Aprile il Parlamento ruropeo si è schierato a supporto di Podgorica e del processo di riforme. L’eurodeputata Von Cramon ha criticato la decisione non “strategicamente brillante” della Commissione, mentre il Segretario di Stato francese per gli Affari Europei Baune ha sottolineato la volontà di Parigi di lavorare a un “caso da manuale” alle porte dell’Unione. Le modalità con cui procedere sono tuttavia indefinite. Alcuni analisti hanno proposto il dirottamento dei €113 milioni previsti dal “EU package for the Western Balkans" destinati al Montenegro nelle sezioni “socio-economic recovery e macro-financial assistance” verso le tasche cinesi, così da dar parziale respiro all’economia montenegrina nell’ottica di una strategia di più ampio respiro. Altri evidenziano la spinosità di una lose-lose situation per Bruxelles, che da un lato si trova a dover prevenire l’allargamento a macchia d’olio della Cina nei Balcani – e la nascita di stati falliti alle porte dell’Unione – ma che allo stesso tempo è costretto a gettare salvagenti finanziari a chi ha ripetutamente ignorato gli avvertimenti, creando un complicato precedente. Bruxelles è chiaramente chiamata a dimostrare maturità geostrategica rispetto agli errori commessi in passato, vedi la presa cinese del porto del Pireo. Deve decidere se i Balcani occidentali saranno una perpetua buffer zone, oppure se sia il caso di alzare l’asticella delle proprie iniziative in quello che di fatto è, insieme alla Libia, il più fragile dei near abroad europei. Podgorica, dal canto suo, deve realizzare che “there is no such thing as a free lunch”. Definirsi ufficialmente “pronti a intensificare le proprie relazioni con la Cina”, oggi come non mai, ha un peso specifico maggiore. Soprattutto se si è candidati alla membership UE. E membri NATO.
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