A cura di Giulia Vicari, tratto dal CSI Review n.1
1. Il diritto ad avere diritti Gli ultimi anni si sono caratterizzati per una forte attenzione mediatica nei confronti dei migranti. Il tema dell’immigrazione viene spesso strumentalizzato dalla politica che ne ha sempre ampliato la portata. Secondo il Dossier Statistico dell’Immigrazione, nel 2018 sono giunti in Italia 23.370 migranti, l'80% in meno rispetto al 2017. Tuttavia, nonostante la continua ossessione nei confronti degli immigrati, con l’improvviso irrompere del COVID-19, il quadro migratorio nazionale ed internazionale sembra aver perso centralità. La pandemia ha assunto nel dibattito globale un ruolo primario, diventando di indubbia e fondamentale importanza. I migranti però, esistono ancora e le pressioni alle frontiere esterne dell’Unione non sono mai scomparse. È in questo difficile contesto, che stanno emergono tutte le fragilità del sistema comune d’asilo e del sistema integrato di gestione delle frontiere. Le richieste di aiuto di alcuni Stati membri non hanno trovato risposta e i primi Paesi di arrivo in Europa (Spagna, Italia e Grecia) sono stati isolati. Inoltre, diversi Stati membri, col pretesto di dover gestire l’emergenza coronavirus, hanno adottato politiche migratorie restrittive con l’intento di scoraggiare le partenze. Ma gli arrivi sono realmente diminuiti? Prima di affrontare un’analisi delle migrazioni in questo tragico periodo, è opportuno procedere ad alcune doverose precisazioni. La dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 riconosce e garantisce diritti umani universali, propri di ogni individuo. L’essere cittadino di uno Stato piuttosto che di un altro rivela però, discriminanti non indifferenti. In tema di immigrazione, la disposizione di cui al terzo comma dell’art. 10 Cost. dispone che «lo straniero al quale sia impedito l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge». Mentre la Convezione di Ginevra del 1951 sullo status dei rifugiati non impone l’obbligo di ammettere nel proprio territorio i richiedenti asilo, l’art. 10 è stato redatto con l’intento di proteggere chiunque non goda nel proprio Paese delle libertà garantite dalla nostra Costituzione. L’art. 10 comma 3 costituisce - secondo dottrina e giurisprudenza - un diritto soggettivo perfetto all’ingresso e al soggiorno nel territorio italiano, almeno al fine della presentazione della domanda di asilo. Tale diritto è riconosciuto allo straniero e all’apolide, ai quali sia effettivamente impedito nel loro Paese l’esercizio anche di una sola delle libertà garantite dalla Costituzione italiana, e immediatamente azionabile anche in mancanza delle leggi ordinarie che fissino alcune condizioni per il suo esercizio (Cass. civ. Sez. Un. 12 dicembre 1996, n. 4674/97). Sulle norme che regolano il sistema giuridico comunitario, è opportuno specificare che, in Italia - essendo uno Stato membro dell’UE - le fonti del diritto comunitario devono considerarsi applicabili in tutto il territorio e, addirittura, prevalenti sulle fonti di diritto interno. Di conseguenza, qualora una norma italiana contrasti con una norma comunitaria che disciplina la stessa materia, un’eventuale controversia dovrebbe essere decisa disapplicando la norma italiana e applicando quella comunitaria. Il rapporto tra l’ordinamento italiano, quello dell’Unione e quello Internazionale, trova riscontro nella nostra Costituzione all’art. 117, comma 1, introdotto dalla L.cost. 3/2001, secondo cui “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.” Tale disposizione chiarisce il rispetto degli obblighi internazionali ed europei, da parte di Stato e Regioni. Qualora quindi una norma violi il diritto dell’UE o il diritto internazionale, questa costituirebbe una violazione dell’art. 117, comma 1, Cost. Ed ancora, l’adattamento al diritto internazionale consuetudinario è disposto dall’art. 10, comma 1, Cost., secondo cui “l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute”. Tale disposizione opera un rinvio formale all’ordinamento internazionale con la conseguenza che, ogni variazione normativa che si produce nell’ordinamento internazionale, si produce anche nell’ordinamento interno. Cosa significa “norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”? Si fa riferimento alla consuetudine e cioè, secondo l’art. 38 lett. b dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia, ad una “pratica generalmente accettata quale diritto”. La consuetudine è l’unica fonte del diritto internazionale generale valida erga omnes, cioè nei confronti di tutti gli Stati, indipendentemente dall'aver partecipato alla sua formazione. Per consuetudine deve intendersi un comportamento costante, uniforme e ripetuto nel tempo, gli Stati devono essere convinti dell’obbligatorietà della norma e della sua inderogabilità. Una norma del diritto internazionale consuetudinario è applicabile quindi a tutti gli Stati, a prescindere dal fatto di aver sottoscritto un Trattato. L’obiettivo è far si che il diritto interno si adegui automaticamente all’ordinamento internazionale. Ne consegue che, se un atto legislativo risulti incompatibile con il diritto internazionale consuetudinario, l’atto deve considerarsi viziato da illegittimità costituzionale per violazione dell’art. 10, comma 1, Cost. Occorre tuttavia chiedersi: l’adattamento al diritto internazionale è sempre operante? Secondo la Corte Costituzione, nella sentenza n. 48/1979, cd. Caso Russel, aveva distinto tra norme consuetudinarie anteriori e posteriori all’entrata in vigore della Costituzione: le prime sarebbero recepite nel nostro ordinamento senza alcun limite, le seconde invece, non potrebbero essere recepite qualora contrastino con i principi fondamentali della Costituzione. Ed invero, secondo la Corte Costituzionale, l’art. 10 “non può in alcun modo consentire la violazione dei principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale.” In altre parole, una norma consuetudinaria in contrasto con i principi fondamentali dell’uomo garantiti dalla nostra Costituzione, non dovrebbe essere recepita dal nostro ordinamento. Ne consegue che, grazie all’art. 10 Cost., vi è equilibrio tra ordinamento interno ed internazionale. I trattati internazionali invece, nascono dall’incontro della volontà di due o più soggetti dell’ordinamento internazionale. L’inviolabilità e l’osservanza delle norme pattizie è garantita dalla norma consuetudinaria pacta sunt servanda. Le norme pattizie, a differenza di quelle generali di origine consuetudinaria, non sono valide erga omnes, ma solo per i soggetti che partecipano alla loro formazione. In tema di immigrazione, l’Italia e la maggior parte dei Stati europei, hanno ratificato diversi trattati internazionali a tutela dei diritti dei migranti, solo per citarne alcuni: la Convezione di Montego Bey sul diritto del mare; la Convenzione di Amburgo sulla ricerca e il salvataggio marittimo; la Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare; la Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati. Tali trattati sono vigenti nell’ordinamento italiano ed europeo e pertanto, gli obblighi in essi contenuti sono vincolanti per tutti gli Stati firmatari. 2. Le migrazioni ai tempi del Covid-19: la situazione in Europa Nel contesto attuale il COVID-19 rappresenta a tutti gli effetti una grande sfida per i diritti umani. Sono soprattutto le classi sociali più vulnerabili, quali migranti e precari, a dover fare i conti con questa nuova realtà. Negli Stati in cui ancor prima della pandemia venivano sistematicamente violati i diritti umani fondamentali, il COVID-19 viene adesso strumentalizzato per rafforzare ancor di più tale repressione. L’Unione Europea si basa sul principio di solidarietà tra gli Stati membri (art. 80 TFUE), nonché su una politica comune in materia di asilo, immigrazione e controllo alle frontiere esterne (art. 67 TFUE). Vengono disciplinati i visti e i titoli di soggiorno, i controlli a cui sono sottoposti i soggetti che attraversano le frontiere esterne, le condizioni alle quali i cittadini dei Paesi terzi possono circolare liberamente nell’Unione per un breve periodo, l’istituzione di un sistema integrato di gestione delle frontiere esterne ecc. (art. 77 TFUE). L’UE può concludere con Paesi terzi, anche accordi di riammissione - nei Paesi di origine o di provenienza - di cittadini extracomunitari che non soddisfano le condizioni per l’ingresso, la presenza o il soggiorno nel territorio di uno degli Stati membri. Tuttavia, sebbene lo spazio comune europeo si basi sulla solidarietà ed equa ripartizione di responsabilità tra gli Stati membri, oggi più che mai sembra essere emersa un’Europa che non è più patria dei diritti umani e che rifiuta il suo ruolo. Chi arriva in Italia, Malta, Grecia, Spagna arriva in Europa, e deve essere l’Europa intera a condividere il peso dell’immigrazione, con una distribuzione equa dei migranti, garantendo libertà e diritti fondamentali. Occorre specificare, che la disciplina per l’esame delle domande dirette ad ottenere la protezione internazionale, sono dettate dall’Unione e sono attualmente contenute nel cosiddetto sistema Dublino, il Regolamento 604/13. Quest’ultimo prevede il “primo ingresso” come criterio per determinare lo Stato competente ad esaminate la domanda di protezione internazionale: il Paese che deve prendere in carico la richiesta di protezione internazionale, deve essere il primo in cui il migrante è arrivato. Il rifugiato può presentare domanda di protezione soltanto in un Paese dell’UE. La ratio è far sì che gli Stati rafforzino il proprio ruolo nel controllo delle frontiere, effettuando verifiche sull’immigrazione irregolare nello spazio europeo. Tale sistema però, si è rivelato fortemente inadeguato. A causa “della regola del primo ingresso”, maggiori obblighi e responsabilità gravano su pochi Paesi europei (Italia, Spagna,Grecia). Orbene, sulla base del principio di solidarietà di cui gode l’Europa, nel 2015, il Consiglio dell’Unione Europea aveva proposto di “aiutare” l’Italia e la Grecia attraverso la ricollocazione in Europa, in due anni, di 120.000 persone in evidente bisogno di protezione internazionale. Tale decisione però, è stata impugnata dalla Slovacchia, dall’Ungheria, con successivo sostegno della Polonia, davanti la Corte di Giustizia. La Corte ha respinto i ricorsi, ma nonostante il rigetto, i Paesi del blocco di Visegrád (Ungheria, Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca) non hanno accettato la redistribuzione dei richiedenti asilo. Ad oggi quindi, la ricollocazione avviene solo su base volontaria e solamente col consenso di uno Stato membro di accogliere una parte di migranti entrata irregolarmente sul territorio di un altro Stato membro. Di fronte a tale palese carenza di solidarietà tra gli Stati europei, si sono sviluppate - anche in questo periodo - politiche dirette a reprimere i flussi migratori, in nome dell’emergenza sanitaria. Gravissima la situazione in Grecia dove, dopo l’apertura delle frontiere da parte del Presidente turco Erdoğan, migliaia di profughi afgani e siriani, hanno attraversato il confine greco-turco. Il campo profughi di Moria, nell’isola greca di Lesbo, è arrivato a contenere più di 20mila persone, progettato per accoglierne 3mila. Le autorità greche hanno fermato i profughi in arrivo con gas lacrimogeni, idranti e manganelli, diverse sono le testimonianze e i video sul web, di profughi respinti con violenza da parte della guarda costiera greca. Inoltre in questa tragica emergenza, il governo greco ha sospeso - per tutto il mese di marzo, la registrazione delle domande di asilo. In Ungheria invece, col pretesto dell’emergenza coronavirus, il Parlamento ungherese ha concesso una serie di prerogative al primo ministro Orbán, autorizzando l’Esecutivo a governare senza alcuna supervisione. Il primo marzo 2020, Orbán ha sospeso l’ammissione di migranti illegali a tempo indeterminato. Interessante, in questo difficile contesto, è stata una recente sentenza della Corte di Giustizia UE in riferimento al caso di quattro cittadini afghani e iraniani giunti in Ungheria attraverso la Serbia, che si sono visti respingere la loro richiesta di protezione internazionale. I quattro cittadini, non ottenendo protezione in Ungheria, chiedevano un ritorno in Serbia, ma anche quest’ultima si rifiutava di accogliere i migranti. I richiedenti asilo quindi, venivano trattenuti presso il confine serbo-ungherese. La Corte di Giustizia europea ha pertanto dichiarato che «la collocazione di richiedenti asilo o cittadini di paesi terzi per cui è stato disposto il rimpatrio nella zona di transito di Röszke al confine serbo-ungherese, deve essere classificata come “detenzione”». In particolare, secondo quanto stabilito dalle leggi europee, i cittadini di Paesi terzi non possono essere trattenuti senza un valido motivo e vanno liberati. In Italia, sono stata adottate diverse misure per limitare il diffondersi del contagio: oltre alla quarantena obbligatoria per chi arriva in Italia, la validità di tutti i permessi di soggiorno e dei documenti di riconoscimento è stata prorogata fino al 31 agosto 2020. Inoltre, con un decreto dei ministeri Infrastrutture e Affari Esteri, di concerto con i dicasteri Sanità e Interno, è stato stabilito che i porti italiani non hanno più il requisito di place of safety (“luogo sicuro”) rifacendosi a quanto previsto dalla Convenzione di Amburgo, per i casi di soccorso effettuati da unità navali battenti bandiera straniera al di fuori dell'area SAR italiana. In altre parole, i porti italiani rimangono chiusi per le navi straniere che hanno soccorso i migranti vicino le coste libiche o maltesi, mentre rimangono aperti per le navi italiane che soccorrono i migranti in acque italiane. Il decreto, composto da due articoli, stabilisce che per l'intero periodo di durata dell'emergenza sanitaria nazionale derivante dalla diffusione del virus, (la cui scadenza ad oggi è fissata per il 31 luglio) i porti italiani non assicurano i requisiti necessari per la classificazione e definizione di Place of Safety. In assenza di tale condizione il Ministero dell'Interno non può consentire gli sbarchi. Inoltre, sono stati sospesi, i salvataggi in mare tramite le navi umanitarie delle ONG. Gli sbarchi sono quindi diminuiti? Secondo il cruscotto statistico del Dipartimento Libertà Civili e Immigrazione del Ministero dell’Interno, i migranti giunti via mare dal 1° gennaio 2020 al 15 maggio 2020 sono 4.337, contro i 1.129 del 2019 nello stesso periodo. Tali importanti stime smentiscono il cd. teorema del “pull factor”, secondo cui le ONG in mare, sarebbero “fattori di spinta” per le partenze dei migranti. In particolare, secondo la tesi del pull factor, la presenza di navi nel Mediterraneo costituirebbero una “garanzia” per i migranti circa la possibilità di essere soccorsi durante le traversate, e dunque maggiormente indotti a partire. Tutto ciò premesso, il decreto interministeriale sulla chiusura dei porti italiani può considerarsi legittimo? Come già specificato, le Convenzioni internazionali e i Regolamenti europei, costituiscono un limite alla potestà legislativa di uno Stato. Di conseguenza se uno Stato ratifica un trattato internazionale, questo non può essere derogato da scelte discrezionali dell’autorità politica. Più nello specifico, intorno allo stato di emergenza sanitaria cui ci troviamo, il diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost., deve essere garantito ad ogni individuo, anche al naufrago, che deve avere diritto ad un porto sicuro. L’obbligo di salvare vite umane in mare rappresenta un principio cardine del diritto internazionale. L’art. 98, par. 1, UNCLOS impone ad ogni Stato di esigere che i comandanti delle navi che battono la loro bandiera osservino una pluralità di prescrizioni, tra cui - ad esempio - prestare assistenza a chiunque si trovi in pericolo in mare o di recarsi il più velocemente possibile in soccorso delle persone che gli siano state segnalate in stato di difficoltà. Il dovere di salvare vite umane in mare è oggi espressione non solo del diritto internazionale pattizio, ma anche norma del diritto internazionale consuetudinario che, come già specificato, si applica a tutti gli Stati, indipendentemente dal fatto che abbiano sottoscritto un Trattato. Anche l’UNHCR con un comunicato del 13 maggio, ha invitato tutti gli Stati a sospendere i rimpatri forzati al fine di proteggere la salute dei migranti. Nel testo si fa riferimento al cd. principio di non-refoulement:“keeping everyone safe means ensuring that no-one faces the risk of refoulement by being returned to places where their life, safety or human rights are threatened. It means that collective expulsions, such as arbitrary pushbacks of migrants and asylum-seekers at borders, must be halted; that protection needs must be individually assessed; and that the rule of law and due process must be observed. It also means prioritizing protection, including every child’s best interests. These are obligations in international law that can never be put on hold and are vital to any successful approach to combatting COVID-19 for the benefit of all. Forced returns can intensify serious public health risks for everyone – migrants, public officials, health workers, social workers and both host and origin communities.” Il principio di non-refoulement è disposto dall’art. 33 della Convezione di Ginevra e stabilisce che “nessuno Stato contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche”. In altre parole, nessun migrante può essere riportato in territori in cui la la propria vita o incolumità possano essere minacciate. Dovremmo a questo punto chiederci: in questa tragica pandemia dove l’Italia è stata uno dei Paesi più colpiti da coronavirus, avrebbe dovuto occuparsi di nuovo, da sola, dei migranti? Sicuramente l’attuale pandemia ha rappresentato e rappresenta un fattore di rischio per la salute dei migranti che arrivano in Europa. Non solo, mantenere il distanziamento sociale o le giuste condizioni igieniche in ambienti sovraffollati dove spesso vengono ospitati i migranti, potrebbe condurre ad esiti negativi, ripercuotendosi sulla salute di tutti. È necessario dunque, che tutti gli Stati membri dell’UE, aderiscano ai principi fondamentali dell’Unione ed assumendo doveri ed obblighi sanciti dai principali trattati. 3. Prospettive future Come gestire dunque le migrazioni? La chiusura dei porti è davvero la soluzione al fenomeno? In questi anni l’Europa e gli Stati europei hanno finanziato i paesi dell'Africa settentrionale, come la Libia, o i paesi al confine orientale, come la Turchia per ostacolare l’arrivo dei migranti irregolari. Tuttavia, cercare di impedire il fenomeno arricchisce solamente i trafficanti e i Paesi di transito, i quali utilizzeranno i flussi migratori come merce di scambio per estrarre finanziamenti all’UE. Quest’ultima, ha siglato negli ultimi anni diversi accordi con i Paesi dell’Africa e del Medio Oriente. Solo per citarne alcuni, il 18 marzo 2016 l’UE ha firmato con la Turchia un accordo per la gestione dei rifugiati che tentano di raggiungere l’Europa, l’obiettivo è tenere chiusi i confini con la Grecia evitando che i rifugiati della rotta balcanica possano raggiungere l’Europa. La Turchia ottiene in cambio periodici ed ingenti finanziamenti. Il Presidente Erdoğan sa, però, di poter ricattare l’Europa in qualunque momento, aprendo i propri confini. Ed è esattamente ciò che è successo in questi mesi: il Presidente turco ha aperto i confini con la Grecia a seguito del mancato sostegno dell’Ue e della Nato nelle operazioni militari turche ad Idlib, l’unica parte della Siria ancora sotto il controllo dei ribelli, generando dinamiche disastrose in Grecia e al confine greco-turco. L’Italia invece, il 2 febbraio 2020 ha prorogato l’accordo con la Libia, siglato nel 2017 dall’ex Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e dal Primo Ministro del governo di riconciliazione nazionale libico Fayez al-Serraj. L’accorso prevede il blocco delle partenze dalle coste libiche da parte della Guardia costiera libica, in cambio l’Italia finanzia le infrastrutture dell’immigrazione irregolare, forma e addestra il personale libico, fornisce assistenza tecnica alla guardia costiera e alla guardia di frontiera libica. Inoltre, ai sensi degli artt. 1 e 2 del memorandum, la Libia otterrebbe ulteriori finanziamenti per rafforzare la cooperazione allo sviluppo nel proprio territorio. Tuttavia, sebbene le partenze si siano in parte ridotte, la guardia costiera libica è stata più volte accusata di essere complice dei trafficanti libici e dei gestori dei centri di detenzione: secondo alcune testimonianze, gli immigrati - dopo essere “scortati” dai trafficanti per un pezzo di traversata - vengono (casualmente?) intercettanti dalla Guardia costiera libica, la quale riporta i migranti nei centri di detenzione e dove si consumano violenze, torture, stupri, lavori forzati. Il fine è quello di ottenere dai familiari dei prigionieri ulteriori somme per tentare nuove traversate. Finanziare con i soldi pubblici le operazioni di salvataggio della Guardia costiera libica, non fa altro che alimentare il business del traffico di esseri umani. Tali forti contraddizioni, durante la pandemia da COVID-19, sono emerse in tutta la loro tragicità. È evidente che la scarsa solidarietà di gestione del fenomeno, nonché il criterio del Paese di “primo ingresso”, ha generato un evidente corto circuito nel sistema comune di asilo europeo. L’esistenza di barriere alla mobilità internazionale impedisce ai migranti di spostarsi regolarmente e l’Europa dovrebbe trovare il prima possibile una solida soluzione per trasformare i flussi irregolari in flussi regolari e sicuri. Fondamentale sarà, pertanto, adottare un approccio equo, analizzando il fenomeno nel rispetto del diritto internazionale e mettendo da parte facili stereotipi o luoghi comuni sull’immigrazione. L’utilizzo sempre più frequente dei canali umanitari potrebbe consentire un sicuro ingresso dei migranti nell’Unione Europea. Un preciso sistema di cooperazione, potrebbe considerarsi efficace se si finanziassero i Paesi d’origine per consentire un ordinato e legale ingresso dei migranti, sulla base di specifici requisiti che possano fungere da titolo preferenziale per l’ingresso in Europa. L’art. 23 del Testo Unico Immigrazione ad esempio, consente di attivare programmi di lingua italiana nei Paesi di provenienza. Tale piccolo ma indispensabile requisito, potrebbe costituire un titolo di prelazione ai fini dell’ingresso in Italia. Necessari quindi i dialoghi strategici, non solo in Europa ma anche in Africa, o l’Italia e i Paesi di primo ingresso, si ritroveranno vittime dei trafficanti e delle milizie che gestiranno i flussi migratori secondo i loro interessi. Inoltre, con il cambiamento climatico e l’aumento delle temperature, il fenomeno dell’immigrazione non sembra destinato ad arrestarsi. La crisi climatica e il collasso degli ecosistemi spingerà gli immigrati alla ricerca di condizioni meteorologiche più favorevoli nel nord del pianeta. Occorre dunque chiedersi: le risposte basate sulla sovranità statale sono sufficienti a fronteggiare il fenomeno? O è indispensabile una politica europea nonostante la mancanza di solidarietà degli Stati? Un cambiamento concreto non è più soltanto auspicabile ma necessario. |
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