a cura di Elena Giudice Belt and Road Initiative (BRI o B&R) è generalmente definita come un massiccio progetto di investimenti e di sviluppo infrastrutturale, con data di ultimazione fissata per il 2049 (simbolicamente corrispondente ai 100 anni della Repubblica Popolare Cinese). Il progetto conta ad oggi come firmatari oltre 138 paesi e 29 organizzazioni internazionali. Lanciata dal presidente Xi Jinping nel 2013, l’iniziativa continua ad essere insistentemente promossa all’estero come uno sforzo di “joint prosperity”, “mutual cooperation” o “win-win strategy”, con l’obbiettivo di veicolare un’immagine positiva del gigante asiatico e (in linea con il proprio programma di politica interna, riassunto nel termine “Zhongguo meng”) di fargli riacquistare la propria centralità ed il proprio ruolo di snodo negli scambi internazionali. Questo obbiettivo si traduce concretamente in un’intensificazione del commercio e nella creazione di una rete di connessioni tra paesi (ad oggi principalmente realizzata tramite accordi bilaterali), coprendo prevalentemente l’ambito infrastrutturale, con ingenti investimenti sui progetti di mobilità locale, ma anche marginalmente quello culturale, con programmi di training, borse di studio e altri tipi di finanziamento per la formazione erogati dal governo della Repubblica Popolare. È inoltre interessante osservare come nel tempo sia emersa (dalla parte cinese) una tendenza a “brandizzare” il proprio approccio di politica estera, raggruppando sotto l’unico ombrello della Silk Road tutti i progetti con target straniero, da qui nomi come Maritime Silk Road, Digital Silk Road, Space Silk Road, Polar Silk Road e Green Silk Road. In particolare, il termine Green BRI o Green Silk Road figura formalmente per la prima volta nel 2017, nella pubblicazione delle linee di "Guidance on Promoting a Green Belt and Road" del Ministero dell’Ecologia e dell’Ambiente della Repubblica Popolare Cinese. Ciò si accompagna ad una serie di azioni (adesione ai Sustainable Development Goals definiti dalle Nazioni Unite, ratifica dell’accordo di Parigi) mirate a rassicurare i paesi esteri sulle intenzioni e sull’operato cinese, garanzie che si rendono sempre più necessarie da quando, in anni recenti, i primi effetti negativi legati all’implementazione dei progetti d’investimento ed infrastrutturali cinesi hanno iniziato ad essere palesi. Difatti, diversi sono gli studi emersi sulle possibili implicazioni che una vasta adesione alla Belt and Road comporterebbe. Tra i principali problemi e dubbi sollevati vi è certamente la paura che, nonostante il progetto sia stato presentato come promotore di cooperazione, questo possa in realtà causare una crescente dipendenza economica dal gigante asiatico, una minaccia alla sicurezza nazionale dei paesi coinvolti (anche se in questo senso, il principale interesse geopolitico cinese sembra attualmente essere l’area del Mar Cinese Meridionale), il rischio di cadere nella trappola del debito così come è già avvenuto per molti paesi africani, il sospetto che si generi una competizione scorretta sul lungo termine e soprattutto l’insostenibilità ambientale e sociale che deriverebbe dall’implementazione dei progetti. Tali timori peraltro sono anche stati supportati da diversi esempi concreti di impatto negativo di alcuni investimenti B&R, come nei casi di Sri Lanka, Malaysia, Myanmar, Nepal e Montenegro. Studi più specifici hanno anche evidenziato l’effetto dei suddetti investimenti in determinati contesti geografici e sono di particolare interesse perché fungono da proiezione per identificare i possibili esiti futuri degli stessi in altre aree. Tra gli effetti emergono ad esempio: la trasformazione dell'ambiente locale (intesa anche come rilocazione pianificata di animali ed habitat); la distruzione del contesto urbano e sociale locale (che porta ad esacerbare fenomeni già esistenti in loco di attivismo); la realizzazione di progetti troppo lussuosi ed esclusivi per la popolazione esistente; i rischi per la salute pubblica, intesi come scarico di rifiuti pericolosi in aree vicine ad abitazioni, scuole, parchi giochi (con particolare riferimento al caso del porto del Pireo), e progetti che quindi complessivamente avvantaggiano solo gli investitori o, usando le parole dell'autore dello studio qui citato, portano a “dare priorità ai profitti di privati, agli interessi di aziende e multinazionali anziché alle infrastrutture di riproduzione sociale”. Tuttavia, a sedare l’evidente sfiducia sempre più diffusa e a rispondere agli episodi di scarsa responsabilità sociale d’impresa associati a progetti B&R, nel 2017 è arrivato l’annuncio della “Green Belt Road” o “Green Silk Road”. Modellatosi sulla politica domestica di raggiungere una “civilizzazione ecologica”, questo emerge come tentativo di adattarsi “al trend internazionale di ricercare uno sviluppo green, low-carbon e circolare” e più ampiamente di regolamentare le attività cinesi all’estero con lo scopo di renderle più sostenibili. Le argomentazioni avanzate dai ricercatori in merito alla possibilità di una Green BRI sono principalmente due: da un lato la si ritiene un progetto chiave nel supporto dei SDG ed un’opportunità di finanziamento per molte nazioni per raggiungere gli obbiettivi dell’accordo di Parigi; dall’altro, non si può negare che si tratti comunque di una colossale iniziativa per la realizzazione di infrastrutture, e si fa notare come la maggior parte dei suoi progetti in campo energetico sia ancora saldamente legata all’impiego dei combustibili fossili. Inoltre, da un punto di vista di governance, nel corso del tempo si è assistito ad un fiorire di politiche e di linee guida specificamente redatte per la BRI da parte di autorità governative, associazioni industriali, network di aziende, tutte caratterizzate da una narrativa fortemente ambientalista della Silk Road. A queste si sono poi anche aggiunte delle linee guida più generiche prodotte da agenzie governative cinesi che mirano a supervisionare le attività d’investimento cinesi all’estero promuovendo la protezione ambientale. Linee guida simili sono anche state prodotte nell’ambito finanziario con lo scopo di promuovere delle pratiche bancarie più sostenibili e dunque segnalare l’impegno del paese a favore della “green finance”. Tuttavia, resta evidente come tutti i documenti prodotti condividano la stessa natura di pubblicazioni non giuridicamente vincolanti, elemento non trascurabile, che li porta ad essere più assimilabili a “vision statements” o a strumenti volontari, d’incoraggiamento, piuttosto che ad effettivi strumenti di regolamentazione. Dunque, secondo quanto detto, allo stato attuale la Belt and Road Initiative non può essere definita sostenibile o promotrice di una transizione green: i passi mossi fino ad ora in questo senso sembrano prevalentemente di natura programmatica, mentre dal punto di vista di implementazione pratica i risultati tardano ad arrivare. Ciononostante, nel caso in cui venissero prodotti dei regolamenti giuridicamente vincolanti a controllo e supervisione dell’impatto dei progetti B&R, questi avrebbero un grande potenziale per diventare motore di una transizione verde globale efficace. Sorge poi una seconda questione: la stessa percezione del concetto di sostenibilità, così come inteso dalla parte cinese, potrebbe non essere interamente assimilabile al modo occidentale di concepirla, dunque anche questo potrebbe portare all’emergere di problematiche nell’implementazione di progetti “green” condivisibili in futuro.
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