a cura di Angela D'Ambrosio Il mese di marzo del 2021 si apre con un’inchiesta importante e dal peso di centinaia di miliardi di mattoni (e di euro): “The Big Wall”, il Grande Muro. È questo il titolo dell’inchiesta pubblicata da ActionAid che indaga sui soldi investiti, in svariate forme e tempi, dall’Italia e dall’Unione europea nel giro di (almeno) 5 anni, con un solo obiettivo: impedire la migrazione dall’Africa all’Europa. Stabilire un vero punto di partenza di questa inchiesta è difficile, ma è certo che dati più chiari, nella loro enorme complessità, emergono analizzando gli eventi dal 2015 ad oggi, dal momento in cui l’Europa fu investita dalla ben nota crisi migratoria. Partendo dalla Libia, punta dell’iceberg in questo marasma di accordi di partenariato (anche meno recenti) e politiche di cooperazione, l’inchiesta fa luce su diversi aspetti, che un po’ già fanno comprendere la realtà dei fatti. Innanzitutto, è proprio dagli eventi del 2015 che parte il report “Eu Migration Policies in the Mediterranean and Libya (2014-2019)”, con cui il docente di diritto internazionale Omer Shatz, insieme ad otto studenti e al collega Juan Branco, portano per la prima volta, nel 2019, l’Unione europea dinanzi la Corte Penale Internazionale, accusandola di crimini contro l’umanità compiuti nella gestione del processo migratorio libico. Da “Mare Nostrum” fino ad oggi, il report è un tripudio di contestazioni e denunce di azioni e politiche che hanno in comune un aspetto: lo stanziamento di fondi, a volte solo italiani, altre volte anche dell’Unione europea, apparentemente volti ad ampliare la cooperazione e lo sviluppo nel continente africano, ma realisticamente utilizzati per bloccare ed impedire il processo migratorio. Inizia la fase di quella che gli analisti definiscono “migration diplomacy”, di cui fanno parte tutti i suddetti progetti, fondi e programmi in cui l’Italia investe con meticolosità, spostandosi dalla Libia anche ad altri territori. Nell’analisi degli eventi, degli attori e dei processi, “The Big Wall” ricorda come quello che è avvenuto tra Italia e Libia prima e con altri paesi poi, era già accaduto in precedenza tra Spagna e Marocco ad inizio anni 2000. Il modello spagnolo è diventato una guida alle strategie da adottare per bloccare il processo migratorio: strategie come la costituzione di nuove forze di pattugliamento (vedi Guardia Costiera libica), il supporto diretto o indiretto a centri di detenzione locali, la raccolta di dati sulle frontiere. Soprattutto, quella che più rimanda al “modello” spagnolo, è la condizionalità negativa dei finanziamenti, “[…]ovvero il fatto di condizionare l’erogazione di questi finanziamenti – per forze di sicurezza, ministeri, accordi commerciali – al livello di cooperazione dei partner africani nella gestione delle migrazioni, minacciando costantemente di ridurre gli investimenti se calano i rimpatri o se si inceppano i controlli e i respingimenti.” Con il Processo di Khartoum, che riunisce sotto il tema della cooperazione regionale e della gestione del processo migratorio i paesi dell’Ue e nove paesi africani, il focus si sposta su nuovi orizzonti, strategici: Etiopia e Niger, centri di passaggio di migranti verso la Libia, l’Italia e l’Europa. Partono allora progetti di sviluppo dalle fattezze classiche, gestiti dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS, nata nel 2014). Lo scopo di questi progetti è di agire sulle cosiddette cause profonde della migrazione, contribuendo allo sviluppo locale e, soprattutto, riducendo la migrazione illegale. Questi progetti, tuttavia, non segnalano alcun indicatore che aiuti a comprendere come l’implementazione stessa del progetto abbia effettivamente contribuito alla riduzione della migrazione illegale. Si basano sull’idea semplice che più sviluppo locale equivalga a meno migrazione, che sradicare la migrazione piuttosto che gestirla sia la vera soluzione, ma non è sempre così, specie se si agisce con politiche incoerenti e controproducenti, come ci segnala Bram Frouws, direttore del Mixed Migration Center. L’intervento italiano in Niger è esplicativo a riguardo. Fino al 2017, il Niger (sul podio tra i paesi meno sviluppati al mondo) beneficiava di poco più di 10 milioni di euro, contro i 195 milioni totali erogati in progetti a Etiopia e Sudan. Nel 2017 poi, il paese diventa pista di passaggio dei migranti verso la Libia, allertando l’Italia e l’Unione Europea. Tramite il Fondo Africa, l’Italia contribuisce al budget del Niger con 50 milioni di euro, nel quadro di un maxi-programma europeo. Ovviamente, in linea con il modello spagnolo di cui abbiamo letto prima, la prosecuzione del finanziamento è condizionata da vari provvedimenti che il Niger deve prendere. Questo intervento verrà ampiamente contestato e denunciato da associazioni che cercano di monitorare le spese dello stato, poiché nessun meccanismo di trasparenza è stato applicato all’erogazione di tali fondi da parte dell’Ue, favorendo nel paese tendenze autoritarie. Certo, il Niger si mobilita dando il via a programmi rigidi di controllo delle vie della migrazione, ma nessuno può effettivamente valutare l’impatto di tali controlli, né controllare la nascita di nuove rotte. Inoltre, la presenza di controlli rigidi riduce drasticamente anche la circolazione di stranieri all’interno dell’aera del paese controllata, incidendo negativamente sull’economia nigerina. A conti fatti, un progetto che si propone la lotta ai trafficanti rischia di ottenere la proliferazione di questi ultimi, rendendo l’Italia e l’Europa complici di violazioni di diritti umani. Quello del Niger è solo un esempio di uno dei tanti esperimenti italiani ed europei in Africa per contrastare la migrazione illegale attraverso una spesa enorme: secondo l’analisi di ActionAid infatti, dal 2015 al 2020 l’Italia ha stanziato oltre 791 milioni di euro e l’Europa 545 milioni di euro. Questi accordi, queste politiche, sono stati attuati spesso incompatibilmente con la legge e così facendo andando paradossalmente a contribuire a quel disastro umanitario che da anni avviene non solo nelle acque del Mediterraneo, ma anche in Libia, Siria, Turchia, per citare le più note. Con le elezioni in Italia e la migrazione al centro del dibattito politico, la Libia torna protagonista con la firma del nuovo Memorandum, che da vita di fatto ad una nuova tratta dei migranti mascherata da progetti di controllo della migrazione e sviluppo locale: la storia si ripete, il muro continua a crescere e altri paesi europei vi aggiungono mattoni giorno dopo giorno.
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