10 anni dopo l'inizio della Primavera Araba: come la democrazia non si è “affermata” nell'area MENA11/1/2021
a cura di Davide Paolicchi Il 17 dicembre 2010, Mohamed Bouazizi, un giovane ambulante tunisino si dava fuoco in segno di protesta contro il ventennale regime di Ben Ali. Da parte dei numerosi osservatori geopolitici che hanno analizzato quest’ultimo decennio, questo evento viene considerato come la “scintilla” di un incendio che avrebbe lambito quasi ogni Stato del Nord Africa e Medio Oriente; il primo anno della cosiddetta Primavera Araba. Mohamed aveva iniziato la sua protesta come segno di protesta contro la brutalità della polizia, ma sicuramente nessuno poteva prevedere ciò che ne scaturì in seguito. Ogni regime dell’area MENA (Middle East-North Africa) ha ravvisato il rischio di essere deposto dall’enorme massa di folla che quotidianamente ne chiedeva l’uscita di scena immediata e quasi senza compromessi. Ancora dieci anni dopo, non tutti gli Stati hanno raggiunto uno stabile, reale e definitivo equilibrio politico-sociale al proprio interno. Infatti, attraverso la repressione violenta o l’accettazione di nuove riforme, ogni governo nazionale della Regione ha compreso il proprio status di sostanziale precarietà di fronte al malcontento, la sfiducia e la rabbia dei propri governati. Tre sono state le evoluzioni delle proteste o “rivoluzioni” in quest’area fortemente collegata al continente europeo e al centro delle maggiori contese geopolitiche degli ultimi quarant’anni: 1) stati in cui c'è stato un cambio di leadership, attraverso un passaggio di potere generalmente molto violento: Tunisia (Ben Ali), Libia (Gheddafi), Egitto (Mubarak) e Yemen (Saleh); 2) paesi in cui si sono riscontrate numerose proteste, spesso represse nella violenza da parte delle forze di sicurezza, ma che non hanno prodotto un cambio nella leadership: Marocco, Libano, Palestina, Siria (con una guerra civile ancora in corso), Iraq, Giordania, Kuwait, Bahrein, Arabia Saudita e Oman; 3) nazioni dove le proteste, pur se represse nel sangue, hanno prodotto un cambio di potere: Algeria e Sudan. Alcune rivolte e proteste hanno avuto una durata molto breve (penisola araba e Tunisia), diverse si sono protratte nel tempo e tutt’ora potrebbero produrre effetti e stravolgimenti nell’architettura politico-istituzionale interna (Libia, Algeria, Egitto e Iraq). Molti regimi autoritari, per poter placare le folle e salvaguardare sé stessi, hanno progressivamente introdotto alcune riforme costituzionali che, almeno sulla carta, dovrebbero consentire una maggiore liberalizzazione delle attività economiche e sociali (Marocco e Giordania). In ogni caso, nonostante alcuni relativi e circoscritti cambiamenti, la società araba continua a rimanere saldamente dipendente dal potere militare e religioso che caratterizza ogni governo della regione mediorientale e nordafricana. Quasi tutte le Primavere Arabe, accomunate dalla richiesta popolare di una maggiore libertà e affermazione dello stato di diritto, hanno generato una serie di movimenti politici più o meno radicali, i quali più o meno indirettamente hanno finito con l’indebolire la “forza” delle legittime rivendicazioni sociali. La longa manus di Al Qaeda e dei movimenti salafiti, spesso generosamente sostenuti dagli Stati del Golfo, ha provocato un crescente timore ed ansietà nei partner economico-strategici riguardo la stabilità ed i nuovi possibili assetti di quegli Stati attraversati da tensioni sociali, attentati e rivolte armate. I casi specifici di Siria, Libia, Egitto e Iraq possono testimoniare plasticamente come la maggioranza dei paesi occidentali ed i grandi attori globali (Russia e Cina), durante questi dieci anni, abbiano sostenuto più o meno apertamente quelle personalità laiche o “moderate” che garantissero una stabilità interna al proprio paese, la dura repressione delle frange politiche più estremiste e la riapertura degli scambi commerciali. Infatti, terrorismo fondamentalista e problema migratorio sono oggi le principali fonti di preoccupazione globale riguardo l’area MENA. Di fronte alle numerose escalations, l’Occidente non ha quasi mai fatto mancare il proprio sostegno politico ai vari processi di democratizzazione nell’area. Un costante richiamo al rispetto dei diritti umani, all’ascolto verso quella parte di società emarginata dal processo decisionale, nel tempo non ha mai prodotto un considerevole ammorbidimento del “pugno di ferro” dei regimi. Infatti, durante questi dieci anni, una costante è stata la linea di realpolitik assunta da quegli Stati caratterizzati da una democrazia matura, il cui obbiettivo si potrebbe sintetizzare con queste parole d’ordine: “stabilizzare ad ogni costo il partner arabo, tamponare ogni deriva estremistica impegnando lo sforzo militare minimamente indispensabile e riattivare i trattati commerciali”. La naturale conseguenza di questo intendimento non ha fatto altro che “tradire” le prospettive di cambiamento della società politica araba. Il mancato sostegno al possibile passaggio di potere da un regime autoritario ad una giovane democrazia non ha fatto che aumentare il valore delle azioni e promesse di quelle frange più intransigenti, così come di coloro che detenevano ininterrottamente il potere da decenni. Questi ultimi circoli politico-militari, assunta l’egemonia durante la fase post-coloniale (la primigenia “Primavera Araba”), si sono assunti il gravoso compito di stabilizzare e sorvegliare un ipotetico passaggio democratico di potere di fronte alla comunità internazionale preoccupata delle violazioni dei diritti fondamentali. L’affermazione di poteri “contro-rivoluzionari” in Egitto e Libia sono due chiari esempi di come la sola deposizione della precedente leadership non sia sufficiente per alimentare una nuova fase democratica. La posizione strategica geografica e la ricchezza di materie prime fondamentali per il mercato estero, non consentono lo sviluppo di una lunga fase transitoria del cambio di potere. Si aggiunga anche il fatto che un lungo periodo di autoritarismo possa improvvisamente tramutarsi nel suo contrappunto, dopo solo una relativamente breve fase di proteste e repressioni (Iraq e Sudan). L’elemento democratico, insito in ogni cultura e società, deve essere studiato, compreso e applicato attraverso un processo complesso insostituibile che, se interrotto, fatica a riprendere dal punto interrotto. In futuro, un passaggio fondamentale (oltre che una profonda riflessione) dovrà essere fatto dalle democrazie occidentali simpatizzanti verso il rovesciamento dei regimi più oppressivi in Nord Africa e Medio Oriente. Anziché supportare teorie politicamente infondate, quali “l’esportazione della Democrazia nel mondo” (Iraqi Freedom Operation) o giuridicamente discutibili come “l’intervento umanitario armato” (Prima Guerra Civile libica), l’Occidente dovrebbe rivedere la propria politica estera e commerciale con quegli stati totalitari dell’area MENA. Un maggiore supporto diplomatico alla transizione non-violenta del potere, che di fatto risponderebbe alle più basilari “richieste” della Primavera Araba (libertà sociale e diritti politici), potrebbe contribuire ad una stabilizzazione sociale ed economica dei paesi dell’area Mediorientale e Nordafricana. Essi sono partner commerciali imprescindibili, ma anche luoghi da cui partire per una dottrina di politica estera europea “più eticamente sostenibile”, che al tempo stesso sostenga uno sviluppo della realtà politica locale. In questo senso, la possibilità di accogliere e formare la nuova generazione/classe dirigente araba costituirebbe un punto vitale per “concretizzare” la prossima stagione di rivendicazioni politiche. Tale strategia, in ambito geopolitico, potrebbe risultare vincente anche in un’ottica di “dialogo fra le culture” (dichiarazione di Seyyed Mohammad Khātami presso le Nazioni Unite) e non più di “scontro tra le civiltà” (teoria di Samuel Huntington).
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