a cura di Cristiana Oliva Il 13 aprile 1975 ad ʿAyn al-Rummāna (عين ﺍﻟﺮمّاﻧـة) – un quartiere di Beirut – un piccolo gruppo di persone, tra cui Pierre Gemayel, assisteva alla consacrazione di una chiesa. Da un'automobile partirono verso di loro raffiche di mitra da parte di miliziani palestinesi. Al termine dell'attacco armato si contarono quattro morti e sette feriti. Alcune ore dopo, 27 palestinesi armati, stipati su un autobus che transitava nella stessa zona con analoghe intenzioni, vennero uccisi da elementi cristiani di ʿAyn al-Rummāna, dopo uno scontro violentissimo. Questo incidente avrebbe cambiato la vita dei libanesi per i successivi 15 anni. Infatti, fu l'inizio effettivo della guerra civile del Libano, che cessa di essere un modello di convivenza e sviluppo economico. Sebbene il conflitto sia ufficialmente terminato nel 1990, il Libano è rimasto afflitto da instabilità, corruzione ed aspre divisioni politiche. Trascorsi 46 anni dall'episodio, lo Stato libanese si dimostra incapace di affermarsi come autorità centrale e continua a subire le ricadute del sistema socio-economico messo in piedi dalle milizie dal 1975 al 1990. Il sociologo Salim Nasr (1948-2008), uno dei primi a studiare la guerra civile libanese e il suo effetto sulla popolazione, parla di un “sistema di guerra” instaurato dagli attori del conflitto. Un sistema che ha generato la propria sfera economica, i propri strati sociali, un'ideologia di divisione che giustifica la continuazione delle ostilità e delle infrastrutture economiche, politiche e militari, che hanno contribuito a mantenere il Paese in uno stato di guerra. Dalla fine del 2019 il Libano ha dovuto affrontare diverse crisi di trasformazione. In queste crisi, il tentativo delle élite libanesi di mantenere in vita il sistema settario, diventato sempre più uno strumento di dominio e controllo che regola la vita politica, economica e sociale del Paese, è stato sfidato dalle turbolenze regionali e da una serie di eventi interni. In primo luogo, il 17 ottobre 2019, sono scoppiate proteste che alla fine hanno portato alle dimissioni del primo ministro Saad Hariri a novembre. Per anni i libanesi denunciavano il deterioramento economico, l'aumento della povertà e la diffusa corruzione nel paese. La proposta di introdurre la cosiddetta “tassa WhatsApp” è stata l'ultima goccia e ha innescato un'ondata di rivolte che si è rapidamente propagata in tutto il Libano. All’inizio di marzo 2020, il nuovo governo del primo ministro Hasan Diab ha dichiarato banca rotta con gravi conseguenze sul potere d'acquisto dei libanesi a causa dell'impossibilità di mantenere un tasso di cambio fisso tra la lira libanese e il dollaro. Nel frattempo, tra febbraio e marzo 2020, la pandemia COVID-19 aveva raggiunto anche il Paese dei Cedri, portando infine ad un lockdown il 26 marzo. Le proteste però non si sono fermate, tanto meno nella città di Tripoli, dove la disastrosa situazione socio-economica ha spinto gli abitanti a scendere in piazza nonostante il rischio di contagio. L'esplosione nel porto di Beirut il 4 agosto, in questo contesto precario, ha provocato morte, distruzione e danni per milioni di dollari. In un momento così critico, l'irresponsabilità della classe politica libanese ha portato alle dimissioni di Diab, che ha concluso il suo mandato con un laconico "Che Dio salvi il Libano". Nell’ultimo anno il Libano ha subito un crollo economico enorme, ritenuto la peggiore crisi dalla guerra civile del 1975-1990. Oltre il 55% della popolazione è attualmente in povertà; la fame, la disoccupazione e la frustrazione dilagano. Il mosaico politico libanese ha sempre più istituzionalizzato le condizioni in cui le risorse pubbliche sono privatizzate dai leader settari e scambiate a livello locale per il sostegno politico. Tali condizioni hanno portato a uno stato che è stato indebolito dalla corruzione endemica e paralizzato dall'infinita competizione comunitaria per il controllo del potere. In aggiunta, attori esterni come l'Arabia Saudita, la Russia e l'Iran interferiscono nelle dinamiche locali, traslando conflitti di natura geopolitica internazionale a livello locale. Il risultato è uno stato lacerato dal conflitto, dall'inerzia e del tutto incapace di affrontare le crisi attuali. L'esplosione di Beirut precedentemente menzionata e le sue conseguenze sono viste come l'incarnazione di tali carenze. In mezzo al persistente deterioramento economico e al collasso del governo, il Libano assiste ad una tendenza sempre più preoccupante verso disordini e violenza politica. Allo stesso tempo, si può assistere a un aumento delle tensioni sia all'interno che all'esterno delle sette, sollevando la questione se il paese vedrà una ripetizione degli eventi catastrofici di quaranta anni fa. Lungi da una nuova rivoluzione dei cedri, gli sforzi per spingere nuove riforme potrebbero portare a un conflitto molto simile alla guerra civile del 1975-90, in cui potenze straniere e milizie locali rivali uniscono le forze allontanando sempre di più l’idea di una “Svizzera” del Medio Oriente.
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