Assalto a Capitol Hill: come la Cina ha visto (e raccontato) gli eventi di Washington D.C.24/1/2021
a cura di Giulia Salsone Il 6 gennaio 2021 noi tutti abbiamo assistito a delle immagini sconcertanti, quelle dell’ormai noto “assalto a Capitol Hill”; manifestanti pro-Trump ed estremisti, alcuni con bandiere confederate, maglie che inneggiavano ad Auschwitz o con il capo ornato da “sciamano”, hanno violato quel luogo sacro che ospita il Congresso degli Stati Uniti d’America. L’impressione che ne è conseguita è stata inevitabilmente quella di un attacco sferrato alla democrazia, non solo quella statunitense, ma all’ideale stesso della Democrazia. Gli scontri, le violenze e le morti che ne sono conseguite rappresentano una ferita che rimarrà aperta a lungo nel cuore degli Stati Uniti. Quelle immagini che sono rimbalzate in tutto il mondo per la loro violenza e potenza, hanno inevitabilmente avuto un effetto di condanna unanime, da parte dei leader e delle principali testate giornalistiche internazionali. Tuttavia, in alcuni casi, non ci si è limitati a condannare le violenze in quanto tali. Il primo commento arrivato dall’altra sponda del Pacifico è stato un immediato parallelo tra le rivolte del 6 gennaio e le rivolte di Hong Kong del 2019. La portavoce del Ministero degli Affari Esteri di Pechino Hua Chunying, infatti, ha twittato il giorno immediatamente seguente ai disordini di Washington un video ritraente le proteste del porto profumato di un anno e mezzo fa. Le spiegazioni non si sono fatte attendere e, durate la conferenza stampa della stessa giornata, la Hua ha sottolineato come la comunicazione usata da Washington volta a commentare questi due eventi sia stata di “due pesi e due misure”. Difatti, secondo la portavoce del Ministero degli Esteri cinese, la rivolta di Hong Kong e l’assalto a Capitol Hill non sarebbero in alcun modo diversi tra loro. La differenza, sempre secondo la Hua, sarebbe da ricercare esclusivamente nel differente approccio usato dai politici americani quali Nancy Pelosi e Mike Pompeo, i quali avrebbero aspramente condannato gli avvenimenti di Washington, ma non altrettanto avrebbero fatto con i manifestanti di Hong Kong, definendo anzi le immagini delle proteste come frutto dello “straordinario coraggio del popolo di Hong Kong”. Se, tuttavia, nell’immaginario degli osservatori occidentali questi due episodi hanno poco in comune - da un lato, la richiesta di poter eleggere i propri leader ed il tentativo di fermare la legge sull’estradizione considerata lesiva per i diritti degli abitanti di Hong Kong, dall’altro il tentativo di impedire il trasferimento dei poteri al Presidente legittimamente eletto - così non è per Pechino. La narrazione cinese degli avvenimenti del 6 gennaio, coadiuvata da media e testate nazionali quali Global Times e Xinhua, si è dunque sviluppata al fine di dimostrare un’intrinseca ipocrisia da parte americana. Questa presunta ipocrisia americana sarebbe stata ulteriormente accentuata agli occhi della Repubblica Popolare Cinese dalla chiusura definitiva degli account social del Presidente Trump, a seguito delle rivolte e delle morti avvenute a Washington. Difatti, il Presidente degli Stati Uniti si è visto precluso dapprima l’accesso a Facebook, poi a Twitter, per infine vedere staccata la spina alla piattaforma Parler – social network principalmente utilizzato da esponenti e simpatizzanti di destra. È così che Pechino ritiene la sua opera di censura e scelta dei contenuti da ritenersi “appropriati” legittimata da queste stesse decisioni, creando un precedente ingombrante nella diffusione e garanzia della libertà di stampa e di parola da sempre operata da Washington. Viene inoltre suggerito come l’intento primario del Partito Comunista Cinese sia sempre stato quello di garantire un “ambiente sano” ai suoi cittadini; al contrario, la subitanea chiusura degli account social del Presidente americano avrebbe, secondo le dichiarazioni del Professore Shen Yi della Fudan University, uno scopo esplicitamente politico, quello di ostacolare la crescita di una specifica frangia politica. La più grande democrazia al mondo rischia così di essere relegata ad una ex-potenza, il cui sentimento di superiorità non sarebbe giustificabile dal punto di vista economico né, tantomeno, morale; questa è l’immagine degli Stati Uniti ritratta dai media e dai rappresentanti politici cinesi. Dunque, una potenza in declino, una nazione che ha perso quel suo caratteristico eccezionalismo che le aveva conferito la storia. I tumulti del 6 gennaio avrebbero così creato un danno all’immagine degli USA che va al di là delle previsioni, un’emorragia di soft power e influenza sulla comunità internazionale, minando le basi stesse del ruolo degli Stati Uniti. Percepito come un modello sempre più debole, non rappresentando più un esempio infallibile a cui mirare, gli USA “non dovrebbero sentirsi speciali e perfetti, differenziandosi da ogni paese del mondo. È diventato uno zimbello per il mondo intero” è il commento al vetriolo che il Global Times fa sugli Stati Uniti alla luce di questi avvenimenti. Il timore che questa immagine possa essere condivisa da più e più attori nello scenario internazionale è stato sostenuto da studiosi, analisti e persino esponenti della diplomazia americana. Durante un’intervista all’emittente statunitense CNBC, difatti, il precedente Ambasciatore americano in Cina, Gary Locke, ha sottolineato come l’assalto a Capitol Hill abbia avuto, e continuerà ad avere, enormi ripercussioni sull’immagine stessa degli USA. “La Cina ride di noi” afferma il diplomatico “dicendo che non siamo il modello di democrazia civiltà e stabilità che abbiamo sempre richiesto agli altri paesi di abbracciare”. Secondo Locke, inoltre, il ruolo che gli Stati Uniti si sono arrogati sinora, sarebbe già stato ribaltato a causa di questi avvenimenti: all’indomani delle scene svoltesi a Washington D.C., difatti, gli USA sono stati incitati a rispettare lo stato di diritto e un trasferimento pacifico del potere in pieno rispetto delle elezioni. Un repentino cambio di rotta e dei ruoli che potrebbe avere effetti disastrosi per la politica statunitense, il cui prestigio è oggi più a repentaglio che mai.
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