A cura di Vittorio Ruocco, Programma sulla politica estera italiana
“Gli Stati Uniti non rappresentano il mondo, rappresentano solo il Governo degli Stati Uniti”. È con queste parole che il capo della Commissione Affari Esteri del Partito comunista cinese, Yang Jiechi, ha risposto alle parole introduttive del Segretario di Stato Antony Blinken volte a definire il percorso del vertice bilaterale USA-RPC tenutosi ad Anchorage (Alaska) il 18 e il 19 marzo scorso. Sarà stato il richiamo alla repressione uigura e l’aggressività nei confronti di Hong Kong e Taiwan ad aver irritato la delegazione cinese, adirata principalmente dalla mancata organizzazione di un banchetto congiunto, violando un tradizionale protocollo diplomatico, e dall’impossibilità di effettuare preventivamente un test anti-COVID. A parere della delegazione, è l’onore della Repubblica popolare ad essere stato offeso e l’errore ad averla sottovalutata come interlocutore, aizzando la politica dei “lupi guerrieri”[1] propria dei diplomatici dell’era Xi, con ripercussioni temporali su un insolito scambio di dichiarazioni d’apertura. Malgrado lo scoppiettante dibattito, volutamente svoltosi di fronte ai giornalisti, il primo colloquio sino-statunitense della presidenza Biden ha proseguito a porte chiuse senza particolari impedimenti, dimostrando il valore più comunicativo che sostanziale delle “dichiarazioni iniziali”, rivolte alle proprie opinioni pubbliche interne o ai propri partner, piuttosto che alla controparte. Un ricercato nuovo bipolarismo, da parte statunitense, riaffermato dalle parole del Consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan circa la difesa assoluta dei “nostri principi, dei nostri valori e dei nostri amici”, affermazioni che hanno fatto da contraltare alla provocazione cinese sull’ormai tramontata logica da Guerra fredda. L’acceso teatro era piuttosto prevedibile dopo l’annuncio congiunto di Stati Uniti ed Unione Europea delle sanzioni approvate nei confronti di personalità e organizzazioni cinesi, a seguito delle accuse di persecuzione degli Uiguri e per l’irrigidimento del quadro normativo e repressivo di Hong Kong. Nel caso europeo, si tratta del primo caso sanzionatorio dopo l’embargo sulle armi imposto nel 1989 in occasione di Piazza Tienanmen. Il carattere atlantista del nuovo governo Draghi e il “ritorno” degli Stati Uniti di Biden nell’arena internazionale assegnerebbero a Roma il tradizionale ruolo di portaerei del Mediterraneo, sempre più Paese di confine su una cortina di ferro che ormai sembra dividere l’Occidente dal resto del mondo. Anchorage ha consentito non solo alla Cina di riaffermare la propria sovranità nazionale, ma anche alla diplomazia a stelle e a strisce di enfatizzare il suo rinnovato protagonismo euro-atlantico, richiamando alleati come l’Italia e la Germania a rapporto. Nell’ultimo caso, è stato proprio l’aut aut imposto da Washington sull’ampliamento del gasdotto russo-tedesco Nord Stream 2 ad aver segnato un peggioramento dei rapporti bilaterali, un segnale in cui si estrinseca la divergenza di obiettivi dei due Paesi. Mentre la Germania di Angela Merkel è alla ricerca di gas per la realizzazione della transizione ecologica auspicata dall’European Green Deal, gli Stati Uniti di Biden tentano il recupero di un’azione trumpiana che, diversamente dalla cancelliera tedesca, ha significato la nascita di un importante rapporto con l’ex Presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Ma se prima tra i due Paesi correva più che buon sangue[2], il tiepido sostegno offerto da Conte alla nuova presidenza statunitense non ha favorito un prosperoso dialogo tra la superpotenza e il suo storico alleato, come dimostrato sia dalle congratulazioni del Presidente Conte su Twitter all’indomani dell’esito delle urne «al popolo americano e alle istituzioni», piuttosto che al Presidente eletto, sia dalla tardiva tradizionale telefonata augurale. A ciò si aggiunge anche l’ambigua e prontamente circoscritta[3] apertura italiana alle aziende cinesi nello sviluppo dell’infrastruttura digitale nazionale[4], imponendo al nuovo inquilino di Palazzo Chigi una virata tutta neo-atlantista ed europeista. Potrebbe essere proprio il Belpaese a mediare tra Washington e Pechino? Forse. La diplomazia sembra mantenere la sua funzione principale di confronto tra attori dalle diverse, o addirittura uguali, potenzialità. La nuova Interim National Security Strategic Guidance[5] afferma chiaramente la centralità di un’arte rinascimentale tutta italiana: dal «Diplomacy is back» al «we will lead with diplomacy», gli Stati Uniti puntano al ripristino delle democrazie, all’espansione della prosperità economica e alla promozione di una “favorevole distribuzione di potere”, dando risalto e innovando le alleanze concluse nel mondo. Se il vertice di Anchorage dimostrasse la positiva accoglienza cinese di avvalersi abitualmente di consessi bilaterali e multilaterali, l’Italia potrebbe trovare, in questo frangente, il successo della propria politica estera, grazie alla sua tradizionalmente riconosciuta abilità diplomatica e al convinto attivismo nelle organizzazioni internazionali e regionali. D’altra parte, anche gli Stati Uniti sono alla ricerca di un consolidamento delle istituzioni multilaterali, attraverso cui mantiene ancora un saldo legame con gli alleati. È una chiara dimostrazione di ciò la dichiarazione fatta dai Ministri degli esteri dei Paesi NATO in occasione della due giorni tenutasi a Bruxelles il 23-24 marzo scorso, con la quale i 30 partners si sono espressi in favore di un rafforzamento della dimensione politica dell’organizzazione, l’apertura di «un nuovo capitolo nelle relazioni transatlantiche». Malgrado l’abilità nostrana di mediazione, i terreni di scontro tra Washington e Pechino rimangono numerosi. L’emergenza pandemica sembra aver imposto una battuta d’arresto o di rallentamento alla Belt and Road Initiative cinese, ma lo scioglimento dei ghiacciai artici e le situazioni debitorie dei Paesi africani nei confronti del Dragone rappresenterebbero i contesti adatti per la diplomazia cinese per porsi da protagonista sulla scena internazionale. Il punto d’intransigenza occidentale sono le violazioni dei diritti umani nella regione dello Xinjiang e ad Hong Kong, rispetto alle quali USA e UE hanno dimostrato di volersi esporre inequivocabilmente. Dal 14° piano quinquennale cinese, approvato nella c.d. “Two Sessions” (lianghui) dello scorso marzo, risultano particolarmente interessanti l’esigenza dell’economia cinese di attrarre investimenti stranieri e la maggiore durevolezza degli effetti pandemici sugli indicatori economici piuttosto che su quelli sanitari. In questo quadro, la chiave di volta per l’azione italiana sembra essere la diplomazia economica multilaterale e bilaterale, anche attraverso i canali di un’Unione Europea apertamente schierata con Washington. Inaspettatamente, anche l’ASEAN potrebbe costituire un importante canale di dialogo per questo “triangolo diplomatico”, essendo l’Italia, la Cina e gli Stati Uniti impegnati nello sviluppo della regione Indo-Pacifica, area di forti e future tensioni geopolitiche. [1] Dal celebre film Wolf Warriors 2, la «wolf warriors diplomacy» consiste nell’utilizzare la retorica conflittuale nei dibattiti, discorsi e interviste in cui si critica l’operato della Repubblica popolare cinese, sia sul piano interno che sul piano internazionale. Sebbene molti ritengano sia stata forgiata durante l’emergenza pandemica, la pratica diplomatica ha iniziata ad emergere nel 2017 ed è stata enfatizzata nel corso dell’ultimo anno, in aperto contrasto con la precedente politica estera volta ad evitare conflitti ed a porre l’accento sulla cooperazione. [2] Nei giorni direttamente precedenti alla nascita del governo Conte II, ha destato stupore e perplessità l’inaspettata visita del Procuratore generale degli Stati Uniti William Barr a Roma. Una visita, preparata all’ombra dei protocolli diplomatici, il cui motivo potrebbe essere l’azione dei servizi di intelligence nell’ambito del Russiagate a danno del Presidente Trump. Tuttavia, l’intervento di Barr pare aver influenzato anche le mosse di Palazzo Chigi e degli 007 italiani. [3] Il decreto-legge n. 22/2019 ha introdotto la disciplina relativa all’esercizio del “Golden Power” nel campo della telecomunicazione elettronica a banda larga con tecnologia 5G, mentre il decreto-legge n. 105/2019 ha istituito il «Perimetro di sicurezza nazionale cibernetica». [4] Al 2019, Huawei vantava accordi con importanti aziende a partecipazione statale come Terna, Enel, Fastweb, Ferrovie dello Stato, Telecom e Poste Italiane. Inoltre, gli investimenti della società cinese si concentravano a Milano-Segrate, a Bari-Matera e a Pula (CA), aree nelle quali l’attività militare NATO è particolarmente attiva. V. Gabbanelli M. e Marinelli A., 5G: in Italia la rete strategica è in mano alla Cina, mentre l’Europa si defila, «Corriere della Sera» in Dataroom, 10 febbraio 2019. URL: 5G: in Italia la rete strategica è in mano alla Cina, mentre l’Europa si defila | Milena Gabanelli - Corriere.it [5] La Interim National Security Strategic Guidance è un documento, elaborato dal neo-Presidente Biden nel marzo di quest’anno, che sembra annunciare la pubblicazione della tradizionale National Security Strategy (NSS), stilata periodicamente da ogni governo degli Stati Uniti. La NSS contiene una discussione sugli interessi internazionali, gli impegni, gli obiettivi e le politiche degli Stati Uniti nel mondo, insieme alle capacità di difesa necessarie per scoraggiare le minacce e implementare i propri piani di sicurezza. Per consultare le precedenti versioni: National Security Strategy (defense.gov) |
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