Fine dell’Operation Barkhane: ridimensionamento o fallimento della strategia francese nel Sahel?4/8/2021
a cura di Davide Paolicchi Il 10 giugno, durante una conferenza stampa, il Presidente francese Emmanuel Macron ha decretato la fine dell’Operazione Barkhane, iniziata nell’agosto 2014 e succeduta all’Operation Serval, stabilita dal predecessore Françoise Hollande. Il coinvolgimento delle forze armate francesi nella regione africana del Sahel deve essere fatto necessariamente risalire al 2012, anno in cui le tribù Tuareg del Azawad (regione desertica del Mali) si ribellarono al governo locale, per poi chiedere ufficialmente l’indipendenza. Le rimostranze secessioniste si legavano alle mancate riforme dei precedenti governi maliani riguardo l’integrazione economico-sociale dei Tuareg all’interno dello Stato. Inoltre, negli ultimi 10 anni, intere aree inospitali del Sahel erano diventate “terre di nessuno”, al di fuori del controllo delle forze di sicurezza locali di Mali, Niger, Mauritania, Chad, Burkina Faso e Algeria meridionale. La lotta al terrorismo fondamentalista, legata inizialmente ad al Qaeda, poi a Daesh poneva le sue radici in questa sperduta area già all’indomani delle operazioni statunitensi in Afghanistan, benché gli elementi che hanno scatenato e poi alimentato l’instabilità siano fondamentalmente due: la repressione del Fronte Nazionale Islamico in Algeria e la Guerra Civile Libica. Infatti, i conflitti interni ad entrambi gli stati nordafricani hanno prodotto degli effetti e conseguenze proprio sulle nazioni più povere con cui confinano nella parte meridionale, producendo rispettivamente “personale” e “strumenti” per nuovi e sanguinosi conflitti impostati sulla logica della guerriglia. Proprio la dura repressione “laica” a cavallo del nuovo millennio da parte del futuro Presidente algerino Abdelaziz Bouteflika, recentemente deposto dalle proteste del 2019, contribuì a generare i nuovi leader delle milizie fondamentaliste della regione del Sahel più o meno successivamente legatesi ad Al Qaeda nel Maghreb (Groupe Islamique Armé algerino). In secondo luogo, dopo la deposizione del dittatore libico Mu’ammar Gheddafi, l’instabilità dello strategico paese nordafricano e l’enorme deposito di armamenti di esportazione sovietica hanno contribuito a creare le basi per ciò che attualmente sta accadendo in questa zona strategica dell’Africa centrale. La regione del Sahel, costituita per la maggior parte della propria estensione da un ambiente desertico, povero di risorse naturali ed inospitale, costituisce il “bordo meridionale” del Deserto del Sahara, attraversando ben cinque stati dall’estremo occidentale a quello orientale del continente africano. Quattro di queste nazioni appartenevano all’ex Impero Coloniale francese e tutt’ora mantengono un forte legame con la Francia, non solo di tipo linguistico ma anche (e soprattutto) politico-economico. Infatti, pur perdendo il controllo diretto di queste vastissime aree durante il periodo di decolonizzazione, Parigi ha sempre mantenuto un esplicito interesse verso i governi avvicendatisi in Mali, Burkina Faso, Niger e Chad. Molto spesso, dando il proprio appoggio all’insediamento di regimi totalitari e protagonisti di genocidi documentati dalla comunità internazionale. Benché possegga rilevanti risorse nel sottosuolo (uranio nel Niger per esempio), la fascia del Sahel viene unanimemente ritenuta una zona notevolmente sottosviluppata e povera di sufficienti infrastrutture e risorse amministrative per sostenere una popolazione quasi interamente dedita al settore primario. Nei decenni, lo sfruttamento dei vari giacimenti di materie prime ha pressoché arricchito una classe dirigente locale inefficiente, corrotta e compiacente verso aziende estere notevolmente spregiudicate e poco inclini al rispetto dei diritti umani più elementari. La conseguenza più evidente è la notevole propensione verso una perdurante instabilità praticamente di tutti i governi e le rispettive nazioni, con l’aggiunta dell’elemento ricorrente del “colpo di stato” come strumento di annientamento di qualsiasi opposizione democratica e repressione del dissenso, soprattutto verso le minoranze etniche. Proprio una di queste, i Tuareg, costituisce una minoranza etnica semi-autonoma stanziata dalla Mauritania al Sudan che, nel tempo, ha sempre rivendicato un maggiore rispetto dei propri diritti sociali ed economici da parte dei regimi locali. I risultati di questi contrasti, fondamentalmente politici, si sono rapidamente trasformati in scontro armato, all’interno del quale il malcontento delle popolazioni oppresse ha “naturalmente” alimentato e facilitato l’installazione di basi e milizie fondamentaliste nell’area. Negli anni, queste sono state vanamente contrastate da forze armate e di polizia inefficienti, impreparate, ma addestrate e sovvenzionate da fondi dei paesi occidentali o comunque esteri. L’errore di base che qui si evince chiaramente, risiede fondamentalmente nell’errato calcolo di riuscire a trasformare uno strumento tradizionalmente di repressione in forza antiterrorismo capace di arginare una guerriglia fondata sulle esperienze di Afghanistan, Iraq e Siria. Come per i paesi sopracitati, gli ultimi dieci anni hanno chiaramente decretato come le forze di sicurezza addestrate e sovvenzionate interamente dai paesi esteri non siano autonomamente capaci di svolgere i propri compiti operativi, soprattutto quando la popolazione locale fornisce supporto diretto o indiretto a milizie che cavalcano il malcontento derivato da anni di privazioni e da corruzioni. In quest’ottica, la Francia ha sempre esercitato un forte interesse nel mantenimento di una propria presenza (anche militare) nei singoli paesi del Sahel, cooperando anche nel settore della sicurezza locale, spesso a discapito delle violazioni dei diritti umani operate sistematicamente in quasi tutta la Françafrique. In questo senso, la rivolta delle tribù tuareg del Mali settentrionale (regione di Azawad) ha consentito a Parigi un dispiegamento notevole delle proprie forze armate per stabilizzare il paese in una fase iniziale, per contrastare la minaccia terroristica in un secondo tempo. A quasi sette anni dall’inizio dell’Operazione Barkhane, con un contingente francese che ha raggiunto un picco di dispiegamento di oltre 5mila unità nel 2020 (oltre ad un enorme sforzo dal punto di vista logistico), la minaccia fondamentalista nell’area rimane presente nell’instabile Mali, Niger, Chad e Burkina Faso, pur se apparentemente ridimensionata dalle azioni dirette. L’addestramento “parallelo” delle forze armate locali, tassello fondamentale per ogni dispiegamento al fine di operare un prossimo ripiegamento, non ha portato ad un livello sufficiente di autonomia e capacità operativo per stabilizzare il paese. Anzi, nell’ultimo anno, proprio i vertici militari si sono resi protagonisti di due golpe ravvicinati per poter mantenere il potere e non cederlo ad istituzioni civili in una situazione di emergenza. La prospettiva di un progressivo ridimensionamento del contingente francese nel Sahel, stabilito dal Presidente francese Macron, può quindi essere analizzato sotto diversi elementi e chiavi di lettura. In primo luogo, segue di circa un paio di mesi la decisione del collega Biden riferita al teatro afghano e, per certi aspetti, contiene numerosi punti in comune: instabilità persistente degli Stati in cui si opera, povertà economica del tessuto sociale, impatto del problema migratorio sul continente europeo, inefficienza e corruzione delle forze di sicurezza addestrate e la continua richiesta di sostegno alle spese per le operazioni in supporto delle forze armate locali. Un considerevole dispiegamento di truppe ed una strategia di impiego legata alle specificità del teatro sahariano non hanno consentito di eliminare completamente la minaccia delle milizie fondamentaliste ed un controllo totale del territorio riconquistato. I costi ed i tempi del dispiegamento non sono lungamente sostenibili per le finanze francesi, soprattutto nel momento in cui si deve sostenere una Pandemia globale. Infine, se ciclicamente si verifica che i vertici militari locali contribuiscano ad alimentare l’instabilità (si veda il caso maliano) anziché risolverla, occorre necessariamente rivedere alcune strategie evidentemente errate nel tempo. In ultima analisi, la Francia si sta preparando per le elezioni presidenziali del 2022. Un’amministrazione che promette “il progressivo ritiro” delle truppe potrebbe ottenere un maggiore consenso rispetto alla promozione di nuove operazioni belliche in un’area geograficamente da sempre insidiosa. D’altro canto, un troppo affrettato ripiegamento potrebbe nuovamente dare spazio ai movimenti secessionisti o alle stesse milizie fondamentaliste, costantemente alimentati in fatto di armamenti e nuove unità attraverso i permeabilissimi confini dell’Africa settentrionale. Una strategia francese più adeguata ed aggiornata dovrebbe prevedere un più corretto rapporto con le sue ex colonie, sostenendo in primo luogo delle istituzioni pienamente efficienti e democratiche, un’economia solida e capace di sostenere la popolazione locale, l’eliminazione del mezzo repressivo e della violenza come unica espressione dell’uso della forza. La Francia sarà in grado di riprogettare completamente la propria politica estera in Africa o continuerà a sostenere una strategia che produrrà nuovi Afghanistan nel continente?
|
|