a cura di Giovanni Maggi Nella costruzione di una narrativa, la scelta del linguaggio veicola anche messaggi impliciti, che plasmano direttamente il nostro modo di percepire un evento, una situazione complessa, un momento storico. Come riporta Al Jazeera, nel caso della questione palestinese, le espressioni tradizionalmente utilizzate – soprattutto dai media di lingua inglese – tendono a equalizzare le due parti coinvolte, oscurando così la natura asimmetrica degli scontri. Un esempio delle conseguenze che ciò può avere è la vicenda che ha portato al licenziamento della giornalista Emily Wilder. Riferendosi ai recenti eventi in un tweet pubblicato sul suo account privato, la Wilder avrebbe preso un “posizione chiara in public forum” – una mossa vietata dalla politica aziendale della Associated Press – utilizzando termini come “occupazione” invece che “guerra”. Complice, tra le altre cose, la predominanza di commentatori e giornalisti pro-Israele, la narrativa occidentale – specie quella in lingua inglese – è stata dominata a lungo da un doppio standard giornalistico che ha sfavorito la comunicazione di posizioni pro-Palestina. A ostacolare lo sviluppo di una contro-narrativa degli eventi è stata anche l’applicazione di misure di censura da parte delle più grandi piattaforme social – Facebook, Instagram e Tik Tok in particolare. Secondo l’analisi di BuzzFeed, i ‘problemi’ di censura avrebbero preso di mira i contenuti pro-Palestina in modo sistematico, penalizzando i post pro-Israele soltanto in minor parte. La vicenda più significante è quella della rimozione da Instagram e Facebook dei post contrassegnati con l’hashtag “#AlAqsa” – e il suo equivalente arabo #الأقصى – perché associati a “violenze o pericolose organizzazioni”. La moschea di al-Aqsa è il terzo sito islamico per importanza ed è stato teatro di violenti scontri durante le giornate conclusive del sacro mese del ramadan. Facebook ha spiegato pubblicamente che si è trattato di un semplice errore, ma una comunicazione interna ottenuta da BuzzFeed spiga che la svista sarebbe dovuta alla presenza di organizzazioni terroristiche omonime alla moschea sulla “SDN list” dell’OFAC (Office of Foreign Assets Control) – ad esempio la al-Aqsa Martyrs’ Brigade. Episodi simili sono stati registrati riguardo agli eventi di Sheikh Jarrah. I contenuti sono stati ripristinati in un secondo momento – anche grazie a una petizione firmata da diverse organizzazioni per i diritti digitali – ma come spiega un impiegato “la percezione è che Facebook silenzi momentaneamente i contenuti politici e si scusi in un secondo momento”, andando così ad alienare ulteriormente minoranze come quella palestinese. Alle critiche si aggiunge anche Ashraf Zeitoon, ex-responsabile dell’azienda per la politica verso il Medio Oriente e il Nord Africa. Zeitoon spiega che Facebook dispone di rinomati esperti di terrorismo e traduttori che hanno il compito evitare vicende come quella di al-Aqsa e che sarebbe quindi improbabile la confusione della moschea con un’organizzazione terroristica. Piuttosto, come nota Nadim Nashif, direttore dell’organizzazione per i diritti digitali 7amleh, è presente una cooperazione tra il governo israeliano e le piattaforme social. In seguito allo scoppio delle violenze, il 13 maggio il Ministro della difesa israeliano Gantz e gli esecutivi di Facebook e Tik Tok hanno tenuto una chiamata su Zoom per discutere della gestione – e rimozione – dei contenuti ‘fuorvianti e di incitamento alla violenza’. Il ministro ha enfatizzato la necessità da parte delle piattaforme di agire velocemente in risposta alle segnalazioni della cyber bureau israeliana, basando la legittimità delle misure sulla presenza dello stato di emergenza. Gli esecutivi avrebbero garantito il loro impegno a procedere in questo modo. Secondo un rapporto di 7amleh, Facebook ha accolto le richieste del cyber bureau di rimozione di contenuto nell’81% dei casi. Inoltre, complice la sorveglianza israeliana sui social – dovuta anche alla collaborazione delle piattaforme – due terzi dei giovani palestinesi si auto-censurano e non esprimono opinioni politiche per timore delle conseguenze. Il pericolo è che, almeno per quanto riguarda la questione palestinese, i social si trasformino da strumenti per la libertà di parola a congedi per la persecuzione e la repressione, silenziando parte della narrativa palestinese. Generalmente, in situazioni di rapida evoluzione degli eventi, monitorare l’infosfera per evitare eccessiva disinformazione risulta particolarmente complesso. Come già accaduto con le proteste di Black Lives Matter, l’utilizzo di contenuti multimediali come strumenti di comunicazione è stato fondamentale per portare sui social il conflitto israelo-palestinese. La percezione di un’immagine dipende come è contestualizzata, solitamente tramite una descrizione tanto breve tanto semplicistica che spesso si rivela essere fuorviante o completamente errata. Viene dipinta una figura parziale della realtà, un contenuto politico che, nei social media feed degli utenti, viene preceduto e seguito da contenuti di tutt’altra tipologia. Ciò impedisce all’utente di andare nel dettaglio, perdendo così gran parte della capacità critica di analizzare ciò che viene mostrato. La reazione è basata sull’emozione, sull’empatia, su una risposta impulsiva più che razionale, non solo a ciò che viene mostrato ma soprattutto al modo in cui viene presentato. Questo permette di strumentalizzare delle cornici vuote per promuovere una certa narrativa, portando inevitabilmente alla polarizzazione dell’opinione pubblica e alla repulsione del dialogo. Nel contesto del conflitto, sui social sono circolate immagini vecchie o prese da altri conflitti, insieme a video e foto reali presentati come fasulli o decontestualizzati e presi come prove di teorie false. Al riguardo, una narrativa particolarmente influente è quella di “Pallywood” – crasi di ‘Palestina’ e Hollywood. Il termine, coniato durante in seguito al conflitto del 2000 e al cosiddetto “affare al-Durrah”, propone una visione secondo cui i palestinesi inscenerebbero per fini propagandistici anti-israeliani la maggior parte delle scene drammatiche che circolano sui media. Ciò porta a dubitare a priori le immagini presentate, oltre che le accuse di violenza verso le forze israeliane. Il fatto che la violenza sia documentata non è più vista come prova dell’accaduto ma come incentivo a dubitarne. Tutte queste narrative sono poi amplificate dalle interazioni con i contenuti. Per fare ciò, Israele impiega una troll army – un esercito di utenti pagati per commentare, postare e condividere post e promuovere una certa narrativa. Il governo ha infatti promosso la creazione di quest’organo con Act.IL nel 2017, un progetto da 1.1 milioni lanciato in partnership con il ministero degli affari strategici e definito come una ‘Iron dome della verità’. Le principali narrative promosse enfatizzano il diritto alla difesa, vittimizzano lo stato di Israele e incolpano la Palestina. Dal lato palestinese le interazioni con i post sono state principalmente in risposta alle testimonianze di violenza che la narrativa Israeliana screditava. Complice anche la vicinanza con le proteste BLM e la lotta contro le violenze della polizia, figure social di spicco come Gigi e Bella Hadid hanno preso a cuore la causa palestinese dando risonanza a testimonianze e opinioni. La mobilitazione sui social ha generato un cambiamento del dibattito sulla questione Palestinese, specialmente dal punto di vista lessicale. Politici e giornalisti sono ora più propensi ad utilizzare termini come apartheid, a lungo evitati a causa della dominante narrativa Israeliana. BLM ne era stato il primo esempio lampante, gli scontri a Gaza ne sono stati la riprova: i social hanno il potere di cambiare radicalmente – nel bene e nel male – l’opinione pubblica.
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