Intervista a cura di Matteo Buccheri, Elections Hub
L’Elections Hub del Centro Studi Internazionali (CSI) ha avuto il piacere e l’onore di intervistare uno dei massimi esperti di Iran, il professore italo-iraniano Pejman Abdolmohammadi. Ha conseguito un Ph.D. in Middle Eastern Studies nel 2007 presso l’Università di Genova dove ha poi insegnato Storia e Istituzioni dei Paesi del Medio Oriente dal 2016 al 2018, prima di trasferirsi all’Università di Trento dove è attualmente Senior Assistant Professor presso la School of International Studies. Il professor Abdolmohammadi è stato anche Lecturer di Political Science e Middle Eastern Studies all’American John Cabot University di Roma dal 2013 al 2016 e Resident Research Fellow alla London School of Economics and Political Science (LSE) dal 2015 al 2018 e ha collaborato a lungo con Limes e con prestigiosi istituti internazionali come l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e l’International Politics of Iranian Studies (IPIS). Professore, partiamo da una precisazione sull’orientamento ideologico di Raisi. La stampa occidentale lo etichetta sovente come ultraconservatore. È corretto oppure è meglio collocarlo tra i conservatori tradizionalisti? È meglio definirlo conservatore tradizionalista. Ci saranno dei cambiamenti sostanziali nei negoziati di Vienna da parte della delegazione iraniana e di quella americana? Non ci saranno cambiamenti sostanziali da parte della delegazione iraniana. La Repubblica Islamica sotto la nuova presidenza cercherà comunque di raggiungere un accordo perché ha bisogno di diminuire le pressioni economiche, quindi Raisi continuerà lo sforzo che ha iniziato Rouhani. La palla ora passa a Biden: bisogna vedere se il Presidente americano porterà avanti la stessa linea di apertura verso Raisi dal momento che sono emerse problematiche relative alla legittimità delle elezioni dal punto di vista del consenso e del boicottaggio. Vedremo se Biden, che sta applicando questa nuova dottrina basata sui diritti umani e civili contro la Cina, farà lo stesso contro l’Iran. Come cambierà l’equilibrio in Medio Oriente? L’equilibrio regionale non cambierà tantissimo, almeno nel breve periodo. Rimane la tensione con Israele e Arabia Saudita. In politica estera, Raisi non sarà né più estremista né più moderato. Penso che ci sarà nei primi mesi una continuità con la politica estera di Rouhani, anche per quanto riguarda i dialoghi con i sauditi in relazione alla guerra in Yemen. Il governo di conservatori può in qualche modo disincentivare gli investimenti esteri occidentali, isolando il Paese e quindi spingendolo verso Russia e Cina? Assolutamente sì, da questo punto di vista c’è uno spostamento, una discontinuità nella questione dei rapporti con gli attori globali. L’arrivo di Raisi sicuramente sposterà il baricentro di Teheran ancora di più verso Cina e Russia e ne diminuirà l’apertura verso Stati Uniti e Unione Europea. Ciò non significa che non ci sarà attenzione verso l’Occidente, ma sicuramente il baricentro si sposterà ancora di più verso Pechino e Mosca. Il nuovo governo come ha intenzione di risollevare l’economia iraniana? Sicuramente questa è la grande sfida perché il problema economico è molto profondo. Il tentativo si focalizzerà sul raggiungimento dell’accordo con Stati Uniti e Unione Europea e dall’altra parte su un’apertura a 180° verso gli investimenti cinesi, cercando di rafforzare l’economia. Il traguardo in questo momento è molto limitato, non ci aspettiamo un risanamento economico almeno nei prossimi due anni. Come si posizionerà il governo Raisi riguardo al problema del cambiamento generazionale dal momento che queste elezioni hanno aumentato la crisi valoriale di buona parte della popolazione, perlopiù giovanile, nei confronti della Repubblica Islamica? È un grande problema di cui Raisi e tutta l’élite islamica sono consapevoli. Ci sono nuovi gruppi di vari livelli d’età che avanzano istanze politico-sociali che si allontanano da ciò che la Repubblica Islamica esprime. Dall’altro lato c’è un problema di disuguaglianza sociale che deve essere risanata e che sta creando problemi sociali ed economici all’interno delle nuove generazioni. Questa è la grande sfida che la presidenza Raisi dovrà affrontare; sarà molto difficile anche perché il boicottaggio delle elezioni ha espresso in modo chiaro una disaffezione di buona parte della società, composta soprattutto dai giovani. La sfida sarà appunto attirare almeno in parte questi giovani che si sono allontanati dai valori istituzionali e costitutivi della Repubblica Islamica. Ci si può aspettare un’ondata di proteste sulla scia del Green Movement del 2009? La situazione è molto diversa dal 2009 quando le proteste hanno avuto origine anche da un conflitto intra-élite, con i riformisti che utilizzarono la popolazione per fare pressione sui conservatori. Adesso invece abbiamo una disaffezione che va anche e soprattutto verso i riformisti. Negli ultimi giorni ci sono stati scioperi nazionali abbastanza preoccupanti che non erano mai avvenuti su questa scala nei settori, per esempio, del petrolio e del gas. Non sono da escludere dei nuovi movimenti di protesta, penso sia quasi fisiologico, ma tutto dipenderà dalle risposte che la presidenza Raisi riuscirà a dare, soprattutto nei primi tre mesi di governo. La Repubblica Islamica è destinata a cambiare il proprio assetto? La domanda è molto interessante. La Repubblica Islamica ha già cambiato il suo sistema istituzionale, nel senso che con queste ultime elezioni non è più un regime ibrido ma si è avvicinata ad un regime più chiuso. Avendo diminuito, quasi azzerato, col Consiglio dei Guardiani una competizione già limitata tra i candidati delle diverse fazioni politiche, ha fatto sì che automaticamente la natura fisiologica flessibile della Repubblica Islamica, che le aveva permesso di vivere in queste quattro decadi, sia venuta meno. Sembra che la Repubblica stia cambiando pelle, che stia diventando più chiusa. C’è già quindi un cambiamento importante. Molto dipenderà dall’economia, bisogna vedere se questa chiusura politica sarà compensata da una ripresa economica. Se questo accade, c’è una prospettiva più stabile e può essere che il sistema riesca a mantenere il suo status. |
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