a cura di Maria Alessandra Citro L’idea del Presidente Biden rispetto alla presenza degli Stati Uniti in Afghanistan si è evoluta nel corso degli anni, tanto quanto la guerra stessa. Nei giorni successivi agli attentati dell'11 settembre 2001, Biden si è professato favorevole all’uso della forza militare per combattere al-Qaeda e i talebani in Afghanistan. Come Vicepresidente, si è opposto all’aumento delle truppe nel paese voluto dall’amministrazione Obama, propendendo per operazioni mirate maggiormente all’antiterrorismo. Più recentemente, da presidente, attraverso le parole “Sono il quarto Presidente a decidere sulla presenza delle truppe americane in Afghanistan. Due repubblicani. Due democratici. Non passerò la responsabilità a un quinto”, si è impegnato a portare a casa le truppe americane in Afghanistan nel corso del primo mandato, mantenendo fede alla promessa fatta durante la campagna elettorale. Il ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan avverrà dunque entro l’11 settembre – 20 anni dopo gli attacchi terroristici a New York e Washington - e segna la conclusione di due lunghi decenni di guerra caratterizzati da innumerevoli vittime e feriti su entrambi i fronti. In Afghanistan, Joe Biden ha ricevuto in eredità un percorso pressoché incontrovertibile, la sua decisione riprende infatti l’accordo siglato a Doha nel 2020 dall’amministrazione Trump che prevedeva il ritiro delle truppe americane dal paese, in cambio della rinuncia dei Talebani ai legami con il terrorismo transnazionale di matrice jihadista. La decisione di Biden, risultato di quasi tre mesi di analisi della Casa Bianca, ha rimandato inoltre la scadenza fissata al 1° maggio, precedentemente negoziata tra l'amministrazione Trump e i Talebani. Egli tuttavia ha scelto di farlo “senza condizioni”, allontanandosi dall’approccio “condition based” della precedente amministrazione. La scelta “senza condizioni” di Biden si configura come una reale volontà di porre fine al coinvolgimento nel conflitto più lungo della storia americana e come una mossa razionale e coerente con l’idea che non esiste più una soluzione militare per l’Afghanistan. L’intelligence americana ritiene che la motivazione principale dello scoppio della guerra in Afghanistan – prevedere eventuali attacchi terroristici dei gruppi come al-Qaeda ai danni degli Stati Uniti – è ormai limitata e non richiede dunque una presenza militare americana nel paese. Col ritiro annunciato delle 2.500 truppe statunitensi e oltre 7.000 forze NATO attualmente presenti sul territorio afgano, il quadro del paese non differisce molto da quello del 2001. Dopo due decenni, la data emblematica dell’11 settembre 2021 segna una svolta memorabile per la storia americana, ma una svolta non esattamente vincente: l’Afghanistan rischia di essere lasciato nelle mani proprio dei Talebani che esattamente venti anni prima venivano cacciati grazie all’operazione “Enduring Freedom”. La differenza sostanziale è la sconfitta di al-Qaeda, sostituita in ogni caso dalle cellule affiliate all’ISIS. In Afghanistan, la presenza americana ha di fatto per due decenni assicurato alle forze governative locali la possibilità di mantenere il controllo e di restare al potere, finanziando e addestrando l’esercito locale, che si troverà a fare i conti con capacità e risorse fortemente limitate. La corruzione dilagante a livello governativo e l’escalation di violenza della preponderante presenza talebana, che attualmente controlla una porzione di territorio maggiore rispetto al 2001, minacciano la flebile stabilità di un paese che appare già fortemente diviso in: un’area, costituita da Kabul e le città centrali, meno controllata dal governo di Ashraf Ghani, ma obiettivo sensibile degli attentati Talebani e dell’ISIS; un’area a sud, comprese le città di Khandhar e Helmand, sotto il controllo talebano; i regni del nord dei tagiki e uzbeki nelle mani dei signori della guerra locali che fanno riferimento ad Abdullah Abdullah ed infine l’area del centro occupata dagli Hazara sciiti. Negli ultimi mesi, l'aumento della violenza dei talebani nei confronti del governo afgano ha inoltre bloccato i colloqui di pace in corso dal 2020 tra le parti. In tal senso, il ritiro delle truppe “senza condizioni” potrebbe rivelarsi disastroso per la popolazione afghana sistematicamente vessata dai talebani. L’Onu stima che una media di otto afgani sono rimasti uccisi quasi quotidianamente negli ultimi due anni, a causa dei combattimenti aumentati nonostante i negoziati. La United Nations Assistance Mission in Afghanistan ha documentato 8.820 vittime civili, identificando così l’Afghanistan come uno dei luoghi più letali del mondo, con gran parte della popolazione che non conosce il paese prima della guerra e la violenza di genere preponderante, in particolare ai danni delle donne, un target sempre più sensibile. A ciò si aggiunge che mentre USA e Kabul sembrano concordare sul fatto che una soluzione politica, piuttosto che una vittoria sul campo di battaglia, sia l'unica via percorribile per la pace, i Talebani restano fermi sulla decisione di non partecipare al summit previsto tra il 24 aprile e il 4 maggio prossimi a Istanbul, indispensabile per il raggiungimento dell’accordo secondo cui gli USA premerebbero per un governo ad interim formato dai Ghani e dai Talebani, proposta respinta finora dai leader talebani. Il punto è che con le truppe statunitensi e quindi anche della NATO fuori dal paese, i Talebani non hanno alcun incentivo a scendere a compromessi con il governo afgano. È infatti altamente improbabile che gli sforzi diplomatici americani senza la leva di una presenza continua di truppe abbiano successo. Ritirare le truppe senza condizioni potrebbe concretizzare l’idea che il paradigma della guerra globale al terrore dopo due decenni si è rivelata una strategia tutt’altro che vincente. Daniel Davis, un senior fellow del Defense Priorities Think Tank sostiene che il "ritiro delle truppe è da intendersi come una presa di coscienza realista da parte dell’amministrazione USA che la guerra perpetua non assicura alcuna protezione né per la sicurezza né per la tutela degli interessi. Per concludere, la decisione di optare per una strategia senza condizioni potrebbe voler dire che la visione strategica degli USA è cambiata ed è ormai orientata verso il quadrante Indo Pacifico, ruotando intorno all’orbita cinese e indiana, tuttavia restano ancora poco chiare le scelte che l’amministrazione americana intende perseguire dopo l’11 settembre 2021. Non si può escludere inoltre che attualmente altre potenze in Afghanistan subentrino agli USA per impedire la totale presa di potere dei Talebani. L’India in passato, ad esempio, ha già fornito aiuti militari ed economici a Kabul, e la sua presenza nel paese potrebbe oltretutto mitigare l’influenza del Pakistan, che propende per un governo talebano. Nel caso specifico cinese, resta da capire se i legami economici e militari tra Cina e Pakistan, nell’ambito dell’ingente progetto infrastrutturale China–Pakistan Economic Corridor, influiranno sulle decisioni del governo di Pechino. La resa statunitense rappresenta infatti una minaccia per la sicurezza nella zona, che potrebbe riflettersi sulla provincia autonoma dello Xinjiang, ma allo stesso tempo potrebbe rivelarsi un’opportunità fondamentale per estendere la sfera di influenza cinese in tutto il paese, alleandosi con quest'ultimo nella lotta all’estremismo islamico.
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