a cura di Antonio Di Casola Nel primo discorso di Joe Biden al Congresso, mercoledì 28 aprile, c’è stato spazio anche per un accenno all’Iran. “Lavorerò con i nostri alleati per contrastare le minacce dell’Iran”, ha dichiarato il Presidente, con evidente riferimento alla complessa situazione in materia di nucleare che, oramai da settant’anni, ha visto l’alternarsi di successi ed insuccessi. Fin dagli anni '50, infatti, l’Iran ha manifestato verso le tecnologie legate all’energia atomica un interesse particolare che, dopo la Rivoluzione Islamica del 1979, ha cominciato a destare rilevanti preoccupazioni nella parte occidentale del mondo, in special modo in Israele e negli stati della NATO, Stati Uniti in primis. Le lunghe trattative diplomatiche per raggiungere un accordo hanno visto una potenziale soluzione nel 2015 con la stipulazione del Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA). Con l’avvento della presidenza Trump, tuttavia, l’uscita degli USA dal piano e la reintroduzione delle sanzioni economiche verso l’Iran hanno nuovamente incrinato in modo drastico i rapporti con il Paese, che ha ripreso, anche ampliandolo, il programma nucleare iniziale. L’approccio della presidenza Biden sembra mirato, attualmente, a ricucire gli strappi, ma le difficoltà sono notevoli e le relazioni oramai ad un punto estremamente critico. Dopo la crisi internazionale innescata da Teheran tra il 2005 e il 2006, il Consiglio di Sicurezza ONU si era trovato costretto ad emanare una serie di risoluzioni che comminavano sanzioni economiche verso individui e organizzazioni coinvolti nel programma nucleare iraniano. La lunga guerra diplomatica conseguita ha cominciato a vedere qualche risultato solo dopo l’elezione di Hassan Rouhani nel 2013. Nello stesso anno, infatti, grazie al diverso approccio del neoeletto, hanno avuto inizio le negoziazioni per un nuovo accordo e, il 14 luglio 2015, a Vienna, il Piano d’Azione Congiunto Globale ha visto la luce. Con il JCPOA, sottoscritto insieme ai cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza ONU, alla Germania e all’Ue, l’Iran si impegnava, dietro la promessa dell’abolizione delle sanzioni vigenti, a limitare i programmi di arricchimento dell’uranio, a ritornare sotto il controllo dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica – ai funzionari della quale, dopo la sottoscrizione nel 1970 del Trattato di non proliferazione nucleare, era stato garantito il diritto, poi soppresso, di visitare e monitorare i siti nucleari – e a fornire informazioni su tutte le attività nucleari condotte, passate e presenti. Nel maggio 2018, il presidente Trump, con il plauso dell’alleato Netanyahu ma con la disapprovazione della maggioranza delle Nazioni Unite, prendeva la decisione di uscire dal JCPOA e di imporre contro l’Iran nuove sanzioni. Nonostante la volontà degli altri firmatari a rimanere nell’accordo e a rispettarne i termini, il continuo incremento delle sanzioni statunitensi ha spinto Rouhani, in risposta, a ritirarsi gradualmente dall’accordo a sua volta e ad annunciare un ripristino dei programmi di ricerca e di arricchimento dell’uranio, superando i limiti concordati. Le tensioni si sono acuite esponenzialmente tra il 2019 e il 2020. Da un lato, l’Iran ha proceduto nei propri piani in costante violazione del JCPOA, dall’altro, gli USA hanno continuato ad incrementare le sanzioni, mentre gli Stati europei, rimasti nell’accordo, hanno tentato invano di mediare tra le due parti. Ad inizio 2020, l’escalation di reciproche provocazioni, anche di stampo militare, ha trovato il culmine nell’uccisione, rivendicata dall’intelligence statunitense, del generale Soleimani, a cui ha fatto seguito l’annuncio di Teheran di riprendere i propri piani senza più rispettare le limitazioni esterne, in base alle proprie esigenze. Pur continuando a ritenere Teheran una minaccia, le forti prese di posizione dell’amministrazione Trump non sono state condivise e, conseguentemente, mantenute, dall’amministrazione Biden. Al contrario, la strategia di quest’ultimo sembra essere di riavvicinamento con gli alleati europei, i quali, poiché il dialogo fra le due parti al momento è ritenuto impossibile, stanno svolgendo il ruolo di mediatori. I rappresentanti di questi ultimi, insieme a quelli di Cina e Russia, dal 6 aprile si trovano riuniti a Vienna nel tentativo di far rientrare gli USA – i funzionari dei quali, poiché usciti dal Piano, non possono intervenire direttamente nei colloqui – nel JCPOA che, dopo il recente annuncio di Teheran di puntare all’arricchimento dell’uranio al 60%, risulta oggi più urgente che mai. La posizione degli USA è delicata. Da un lato, Biden si trova sottoposto alle pressioni dell’alleato storico Israele e di altri Paesi del Golfo – tra cui Bahrein, EAU e Arabia Saudita –, i quali vedono nell’attività nucleare di Teheran una minaccia alla loro stessa esistenza; dall’altro, il pericolo iraniano è divenuto troppo imminente per poter continuare con le ostilità. La questione cruciale risiede nel fatto che Teheran, ritenendo le proprie azioni conformi al paragrafo 36 dell’accordo, pone l’annullamento di tutte le sanzioni come condizione necessaria al ripristino del dialogo con gli USA e al rientro nei parametri previsti dal Piano. Il presidente americano si è mostrato allo stesso tempo aperto e cauto a questa eventualità. L’ufficiale della Casa Bianca inviato a Vienna a trattare con gli intermediari ha recentemente annunciato che sono stati identificati tre tipi di sanzioni: quelle annullabili nel breve periodo, quelle destinate a rimanere in vigore per più tempo e quelle ancora sotto valutazione. Prima dell’annullamento, tuttavia, Biden ha più volte ribadito che pretende che sia l’Iran a compiere il primo passo, immediatamente cessando ogni attività non autorizzata dall’accordo.
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