a cura di Angela D’Ambrosio Il 24 febbraio 2022, la Russia ha invaso l’Ucraina dando vita ad un conflitto dalle caratteristiche apparentemente tutte europee; un conflitto che prosegue ormai da oltre un mese, arrecando danni devastanti alla popolazione e, nel breve e lungo periodo, all’economia non solo europea, ma internazionale. Con l’avvento di tale inatteso conflitto, l’Europa si trova ad affrontare, nuovamente, una crisi migratoria di proporzioni enormi, ma stavolta qualcosa sembra sia cambiato. Nel 2015 l’Europa faceva fronte ad un arrivo massiccio di profughi siriani, anche questi ultimi in fuga da un tremendo conflitto che lacerava il loro paese. Il Vecchio Continente aveva allora mostrato, sino ad oggi, di essere impreparato di fronte a simili crisi, di avere ancora bisogno di lavorare duramente su una politica migratoria comunitaria, che regolarizzi la migrazione a livello europeo, che garantisca protezione a chi la merita e che faciliti un processo di integrazione ad oggi quasi inesistente. Ma cosa cambia, allora, nella risposta che l’Europa fornisce oggi ai profughi ucraini? La prima risposta a questa domanda, la più semplice ed anche la più chiara, è che l’Europa sembra oggi pronta ad accogliere i profughi provenienti da un paese in guerra. I paesi europei, non solo quelli parte dell’Unione Europea, hanno mostrato sin dal principio del conflitto una solidarietà encomiabile, pronti ad accogliere, a diminuire i controlli sui documenti, ad abolire gli obblighi di visto, a fornire alloggi e pasti ai profughi ucraini. Il 2 marzo 2022, la Commissione europea ha proposto di attivare la direttiva sulla protezione temporanea, direttiva che garantisce ai cittadini ucraini rifugiatisi nei diversi paesi europei uno status di protezione temporanea nei territori dell’Unione Europea, il permesso di soggiorno, l’accesso all’educazione e al lavoro; la direttiva è applicabile anche ai cittadini stranieri e agli apolidi residenti in Ucraina che riscontrano difficoltà nel processo di ritorno verso il loro paese d’origine, così come ai richiedenti asilo o ai beneficiari di protezione internazionale. Persino paesi come la Polonia o l’Ungheria, generalmente contrari all’accoglienza di migranti, hanno temporaneamente “abbattuto” le proprie mura per accogliere i profughi ucraini. In questa macchina di solidarietà, per ora abbastanza efficiente, messasi in moto dall’inizio dell’invasione russa nel territorio ucraino, c’è però una falla. Una falla che fa luce sul tema tra i più discussi in Europa: la migrazione, in particolare quella di cittadini non europei. Con il via al grande esodo dall’Ucraina verso i paesi europei limitrofi, una “nuova narrazione” si è fatta spazio tra i racconti di fuga dalla guerra: quella dei cosiddetti “profughi di serie b”, ovvero quei profughi, per lo più africani, ma anche indiani e mediorientali, che sono stati respinti al confine ucraino, e che sono riusciti (a volte) ad attraversare quel confine con estrema difficoltà e lentezza. Alla luce di questi accadimenti, verrebbe allora da riflettere su quel cambiamento di cui sopra. Forse è lecito pensare che non sia vero che l’Europa è pronta ad accogliere tutti i migranti, non ancora almeno. La guerra in Ucraina è senza ombra di dubbio un conflitto più “sentito” dalle popolazioni europee: molti giornalisti e politici, europei e non, hanno presto sottolineato, con frasi più o meno corrette e piacevoli, la differenza tra i profughi provenienti da questo conflitto, combattuto “in casa”, e gli altri conflitti, combattuti in terre lontane, i cui abitanti hanno una pelle dal colore diverso, una storia diversa, una cultura diversa. In un articolo di Macromega, Ingrid Colanicchia parla di un processo di “costruzione selettiva” (e di conseguenza anche di “commozione selettiva”), che è quel processo secondo il quale tutto ciò che accade lontano da noi, da ciò che normalmente riconosciamo come simile o vicino alla nostra realtà, cultura, religione, è “altro”. E quando qualcosa accade all' altro allora, non ci riguarda più, magari ci interessa, ma è lontano, non possiamo farci molto. É quello che avviene con i conflitti mediorientali, africani e asiatici. É quello che accade con i migranti in mare, alle porte dei nostri paesi, spesso respinti. Il sociologo e ricercatore delle migrazioni austriaco Gerald Knaus dice “La volontà di accogliere dipende sempre dalle storie di chi arriva”, e il conflitto a cui stiamo assistendo in questi giorni ne è un esempio lampante. Perché due persone, una ucraina, l’altra nigeriana, che fuggono dallo stesso paese in guerra, ricevono un trattamento diverso quando devono attraversare il confine ucraino? Perché i migranti che scappano da una guerra lontana non hanno diritto ad una protezione temporanea? Questi, come tanti altri quesiti che scaturiscono da tali eventi, sono spesso senza una risposta univoca o semplice. Certamente, la cultura in cui siamo immersi ci ha abituato a determinate dinamiche che spesso non ci fanno nemmeno più chiedere che cosa abbia vissuto o da cosa stia scappando il migrante che rischia la vita nel Mediterraneo. Allo stesso modo l’informazione, componente fondamentale della nostra cultura, gioca il suo ruolo chiave nel descrivere più o meno nei dettagli certi eventi piuttosto che altri, dandogli così un’importanza maggiore o minore. Cosa ci dice allora questo processo di “costruzione selettiva” di cui siamo i protagonisti? Il conflitto russo-ucraino ha il potere, inconscio, di presentarci due facce della stessa Europa: ci presenta da un lato un’Europa compatta, pronta a rispondere alle emergenze di un popolo vicino, amico. Ci mostra l’agenzia Frontex pronta a collaborare con i governi per sostenere i migranti ucraini, non per respingerli. Dall’altro, ci apre gli occhi, nuovamente, sull’ineguaglianza esistente in tema di migrazioni e diritti, e su narrazioni come quella dei “migranti di serie b”; su un’Europa che ancora non è cambiata, paradossalmente statica. La speranza, allora, è che dalle atrocità di un conflitto europeo, così stravolgente e tragico, si riesca a trarre una lezione fondamentale, e che l’Europa arrivi finalmente a definire un meccanismo di gestione dei flussi migratori equo e giusto. La speranza, è che non si guardi più al diverso che scappa da una guerra lontana come “l’altro”, ma come quello che è: una persona che merita solidarietà ed aiuto a prescindere dalla sua provenienza e, soprattutto, dal colore della sua pelle.
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