a cura di Isabel Bianca A seguito dell’elezione del democratico Joe Biden a gennaio 2021, il neo Presidente aveva promesso una drastica inversione di rotta dalle politiche migratorie imposte da Donald Trump durante la sua permanenza alla Casa Bianca. Biden ha fin subito chiarito l’assoluta priorità dell’immigrazione nella sua agenda politica, e se da un lato ha concretizzato autonomamente una parte delle sue promesse elettorali, emettendo ordini esecutivi per invertire le politiche migratorie più controverse del presidente Trump il primo giorno stesso della sua presidenza, dall’altro, l’amministrazione Biden si è trovata a dover cedere all’ondata di critiche ricevute nelle ultime settimane e annunciare il 4 maggio l’innalzamento del tetto massimo di rifugiati ammessi negli Stati Uniti a 62.500, dopo che la decisione comunicata a metà aprile di mantenere il limite imposto nell’era Trump di 15.000 aveva provocato lo sdegno di progressisti e gruppi di advocacy. Stando alle affermazioni del Presidente, la precedente intenzione di confermare il tetto massimo dell’amministrazione Trump (storicamente il più basso mai fissato negli Stati Uniti) scaturiva dalle preoccupazioni dello stesso Biden per la situazione di tensione creatasi al confine con il Messico, dove nelle recenti settimane l’aumento del flusso di migranti al confine, soprattutto di minorenni non accompagnati che l’amministrazione Biden non respinge ma accoglie come rifugiati, a differenza della precedente linea Trump, ha aumentato la pressione sul sistema di gestione dell’arrivo di migranti e rifugiati degli Stati Uniti. Questa giustificazione merita tuttavia un ulteriore approfondimento. La pressione al confine meridionale è effettivamente alle stelle, avendo raggiunto il totale mensile più alto in 15 anni con oltre 170.000 migranti fermati al confine nel mese di marzo. Anche le organizzazioni non governative che aiutano a reinsediare i rifugiati negli Stati Uniti sono ancora in fase di ricostruzione, avendo visto i loro finanziamenti federali diminuire drasticamente durante l’amministrazione Trump a causa dell’abbassamento del tetto massimo di rifugiati, il che le aveva costrette a ridimensionare sostanzialmente infrastrutture e personale nel corso degli ultimi anni per tenere a galla i loro programmi di reinsediamento. Più di 100 uffici si sono trovati costretti a chiudere, e numerosi funzionari governativi incaricati di elaborare i casi di rifugiati all'estero sono stati licenziati o riassegnati ad altri dipartimenti. La pandemia Covid-19 ha ulteriormente aggravato il quadro, in particolare a seguito del blocco totale del programma per i rifugiati statunitense per diversi mesi l’anno scorso. Conseguentemente, gli Stati Uniti hanno reinsediato solo un totale di 11.814 rifugiati nell'ultimo anno fiscale, rimanendo ben al di sotto del tetto massimo previsto di 15.000 persone. A metà aprile, la portavoce della Casa Bianca Jen Psaki aveva suggerito che l'Ufficio per il Reinsediamento dei Rifugiati (parte del Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani statunitense) avesse una capacità di azione limitata, dovuta al pesante carico di lavoro che si trovavano a fronteggiare i funzionari dell’Ufficio per occuparsi del numero record di minorenni non accompagnati arrivati al confine con il Messico nelle ultime settimane. Questa argomentazione è tuttavia stata respinta dai gruppi di advocacy, ribattendo come il programma di ammissione dei rifugiati sia distinto dal sistema di asilo per i migranti. A differenza dei migranti che arrivano al confine per poi richiedere asilo, i rifugiati sono sottoposti a un lungo processo di controllo mentre si trovano all’estero per poi essere autorizzati ad entrare negli Stati Uniti, e centinaia di persone che erano già state approvate hanno visto annullati i loro voli a causa del ritardo nell'innalzamento del tetto massimo imposto dall’amministrazione statunitense. Mantenere il limite imposto nell’era Trump avrebbe dunque significato lasciare oltre 35.000 rifugiati bloccati all’estero. Di fronte alle forti critiche degli attivisti per i diritti umani e dei membri dello stesso partito di Biden, tra cui il capogruppo di maggioranza al Senato Dick Durbin che aveva definito la decisione di bloccare il tetto massimo “inaccettabile”, e l’influente progressista Alexandria Ocasio-Cortez che lo aveva descritto come "xenofobo e razzista", la Casa Bianca ha bruscamente invertito la rotta, dichiarando che il limite imposto nell’era Trump “non rifletteva i valori dell'America come nazione che accoglie e sostiene i rifugiati”, e aumentando il numero massimo a 62.500, come precedentemente promesso a febbraio. Ciononostante, il tentennamento di Biden nel proseguire con l’innalzamento del tetto massimo di rifugiati riflette il timore della Casa Bianca delle conseguenti ricadute politiche di una tale decisione, in un momento in cui l’amministrazione si trova ad affrontare le critiche di repubblicani e democratici per la gestione dell’afflusso di migranti al confine USA-Messico nel mezzo di una pandemia, e lascia intravedere la preoccupazione del Presidente che gli elettori americani confondano le due questioni, nonostante siano determinate da circostanze nettamente separate.
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