a cura di Davide Paolicchi Il 24 dicembre 2021 si sarebbero dovute svolgere le prime elezioni “libere e democratiche” della nuova Libia post-Gheddafi. Ma questo non è successo, nonostante le grandi aspettative della vigilia. Tutte le premesse di un fallimento annunciato, però, erano già nell’aria e pienamente comprese da chi si occupa della materia, nonostante si sia poi “accodato” all’unanime auspicio di una soluzione della crisi che dura da circa 10 anni. Eppure, esattamente un anno fa, con le annunciate (poi “congelate” fino a marzo 2021) dimissioni di Fayez al-Sarraj dal Governo di Accordo Nazionale (GNC) – riconosciuto dalle Nazioni Unite - ed il parziale ridimensionamento mediatico della figura di Khalifa Haftar, leader militare della Cirenaica, la situazione sembrava propendere quanto meno verso una dimensione di dialogo. Attraverso la mediazione della Rappresentante Speciale ONU, Stephanie Williams, e l’opera di mediazione del nuovo Primo Ministro ad interim Abdul Hamid Dbeibeh, capo del nuovo Governo di Unità Nazionale (GNU), il processo di pacificazione nazionale (Libyan Political Dialogue Forum) sembrava avere qualche minima probabilità di successo fino all’autunno di quest’anno. Poi però, si sono realizzati i peggiori timori delle cancellerie europee e degli analisti geopolitici, poiché al dialogo è subentrata la confusione su chi avesse la prerogativa di ammettere i diversi candidati, gestire effettivamente le elezioni nei seggi a livello organizzativo, senza dimenticare la garanzia dell’assenza di brogli o ingerenze da parte delle varie fazioni. E un altro problema, di non poco conto, sono i candidati ufficiali; allo stato attuale sono 13, tra cui Dbeibeh, Haftar, e Saif al-Islam Gaddafi, figlio secondogenito dell’ex dittatore libico. L’alto numero di candidati qui sopra esposto evidenzia come ci sia un’evidente frammentazione dello scenario politico libico attuale, oltre che evidenti appoggi esterni da parte di potenze straniere “interessate”. Ed è proprio quest’ultimo punto che ha e sta tutt’ora giocando a sfavore dello svolgimento delle elezioni presidenziali. Infatti, rimangono ancora troppi gli interessi legati alle materie prime della Libia e alla sua posizione geografica, e ogni nazione che ha svolto un proprio ruolo durante gli oltre 10 anni di crisi statuale, ora vuole provare a posizionare le proprie “pedine” all’interno delle istituzioni di vertice di uno Stato che non esiste, né a livello burocratico-organizzativo, né a livello di riconoscimento di affidabilità dall’estero. Proprio la presenza di milizie irregolari, più o meno politicizzate oppure religiosamente ortodosse, sta continuando a minacciare costantemente la sicurezza nazionale, anziché salvaguardare la svolta libica verso un futuro libero. Si aggiunga la questione migratoria, rimasta irrisolta benché coinvolga più o meno direttamente tutte le bande armate libiche che traggono vantaggio dall’enorme massa di migranti che si riversano e vengono quindi resi “schiavi” e sfruttati per ottenere maggiore guadagno e visibilità nei negoziati di questi mesi. E sono quelle stesse milizie che vengono poi “addestrate”, supportate e finanziate ad esempio dall’Italia o da quei paesi con forti interessi in Libia. La stessa richiesta di ritiro (mai effettuata) di tutte le forze militari straniere presenti in Libia ha suscitato i principali contrasti all’interno del processo di pacificazione. Ricordiamo come, oltre all’Italia, nel paese sono ancora presenti consiglieri militari e milizie siriane filo-turche in appoggio a quelle di Tripoli, senza dimenticare i mercenari russi della compagnia militare privata russa Wagner. Proprio l’appoggio esterno e la presenza di una quantità di armamenti forniti alle milizie locali, formatesi ed ingrossatesi per via dell’alto livello di disoccupazione post-rivoluzione, hanno generato la creazione di bande armate fedeli ai propri capi militari o leader politici, i quali stanno tentando in ogni modo di integrarli nelle nascenti forze armate regolari. In questo senso, l’assenza di addestramento omogeneo dato da una missione coordinata e la mancanza di una forza militare di peacekeeping (osteggiata a livello incrociato da tutti gli attori coinvolti) sotto il mandato ONU, negli anni ha portato ad una situazione di stallo che si è sempre cullata nella falsa idea che bastassero dei proclami retorici nazionali per riunire le varie fazioni armate. Proprio l’assenza di una presenza militare di interposizione tra le parti, a “garanzia” del completamento della pacifica transizione politico-elettorale, ha messo in luce la reale mancanza di volontà delle organizzazioni internazionali (ONU), o regionali interessate (NATO, Unione Europea, Unione Africana e Lega Araba), di un impiego a fondo di parte delle proprie risorse per stabilizzare non solo lo Stato libico, ma l’intera area nordafricana. La stessa mancanza sul terreno di forze militari neutrali genera inevitabilmente la “collisione” tra bande armate ed opposte fazioni politich.. E la realtà dei fatti si è notata a poca distanza dal 24 dicembre. Infatti, una milizia riconducibile alla fazione tripolina ha tentato di influire sulle prossime elezioni palesando un’azione di forza verso il hoverno e lo stesso Primo Ministro Dbeibeh. Quindi, come dimostra questo semplice evento, nuovi tentativi di “colpi di Stato” sono dietro l’angolo ed esercitabili da qualunque delle fazioni in lotta. Sullo sfondo, ma sempre presenti all’interno delle pianificazioni diplomatiche delle cancellerie europee, sono le risorse energetiche di cui la Libia è ricca. Nonostante l’inizio “timido” verso la transizione ecologica (quindi energetica) del Vecchio Continente, l’approvvigionamento delle materie prime rimane fortemente collegato alle tensioni mediorientali (Iraq, Siria e Iran su tutti) e nell’Europa Orientale, che rischiano di perdere i loro principali clienti, esclusa ovviamente la Cina. Le recenti tensioni tra Mosca e Bruxelles su Ucraina e Bielorussia stanno facendo ulteriormente comprendere come la “partita energetica” dovrà essere ancora giocata su più fronti, per evitare di rimanere a corto di fonti che nell’immediato sostengono ancora i sistemi industriali dei paesi più sviluppati. Infine, un altro punto che molti analisti avevano compreso da tempo e che ora molti uffici di affari esteri stanno comprendendo, a loro spese, è che vi è una sostanziale incompetenza della classe dirigente libica ed una chiara immaturità politica dell’elettorato dopo circa 42 anni di dittatura. Nonostante l’appoggio pluriennale a bande armate irregolari ed indisciplinate, definite genericamente “forze armate libiche”, l’unico proposito raggiunto dalle varie forze esterne è stato quello di continuare a perseguire i propri interessi: siano essi legati al problema migratorio, di sfruttamento delle materie prime o contrasto al terrorismo. Ma il continuo rischio di rinvii infiniti delle elezioni non può fare altro che generare un ritorno all’instabilità nazionale e permanente stato di conflitto civile, poiché non è la volontà popolare democratica a prevalere, quanto l’avidità e l’istinto di sopravvivenza degli “elementi peggiori” di questo Stato nordafricano così vicino e strategico per l’Italia.
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