a cura di Luca Tonelli Aragoste rosse, carne bovina, vino rosso, zucchero, grano, orzo, legname, rame, carbone termico. Un elenco che parrebbe uscito dalla più rocambolesca spesa last minute – chi sarebbe tanto sbadato da accoppiare pregiati crostacei e materiale combustibile? – rivela invece l’eterogeneità di prodotti Made in Australia colpiti da sanzioni, o interdizioni, a marchio mandarino. La guerra commerciale in corso fra Pechino e Canberra sfida il dogma di un rapporto Occidente-Cina a compartimenti stagni. Conferma la massima di Adam Smith per cui “la difesa è molto più importante della ricchezza”, come se economia statale, concezione di sé e sicurezza nazionale potessero giocare le proprie carte su tavoli separati. A fronte di una scacchiera economica su cui la Regina Cinese fa la voce grossa rispetto a un Re Australiano che batte in scomposta ritirata, l’Asia-Pacifico inscena una piece oramai non più sorprendente: impegno politico e militare con Washington, da un lato, e dipendenza commerciale con Pechino, dall’altro, prendono rumorosamente il centro del palco. Cina ed Australia beneficiano di un trattato di libero scambio entrato in vigore nel 2015, il ChAFTA che, a cinque anni di distanza, ha reso il fu Regno di Mezzo il singolo partner commerciale più importante per il mercato australiano. Tale dipendenza dalla domanda cinese, specialmente in commodities, lascia perciò ben poco spazio di manovra. L’Aussie export vede 100% del nichel estratto approdare sulle coste cinesi, come il 95% del legname ricavato, l’83% del ferro strappato alle rosse terre aborigene, il 76% delle aragoste pescate, il 54% dell’orzo raccolto. E l’elenco potrebbe proseguire, impietosamente. La centralità di tali percentuali non è data solo dalla rigidità con cui è possibile soppiantare, sempre che sia possibile, una domanda di mercato come quella cinese. O dal fatto che il mantra “noi abbiamo bisogno della Cina come la Cina ha bisogno di noi” è progressivamente andato scemando (si veda per esempio la virata di 90° sul carbone Indonesiano da parte di Pechino in seguito al ban di quello australiano). È anche suggerita dalla sensibilità che il primario occupa nella politica interna australiana, dove le lobby del settore hanno peso specifico comparabile alle controparti a stelle e strisce per la Casa Bianca (con le dovute proporzioni, si intenda). Divampata in seguito alla richiesta da parte del Premier Scott Morrison di un’indagine internazionale sull’operato cinese nel contesto Covid, ma in gran parte da ricondurre già al 2017 con le accuse di presunte influenze cinesi nel processo legislativo australiano e al 2018 con le restrizioni applicate all’azienda Huawei (senza prove concrete, secondo Pechino), la war of words imperversante sul Pacifico rischia di colpire alla giugulare vari settori australiani. Fra questi, ve ne è uno spesso tenuto fuori dai riflettori, ma che ha rappresentato per anni un punto di contatto importante fra i due paesi: quello accademico. Il comparto universitario australiano, infatti, dipende strutturalmente dai flussi di studenti internazionali, più di un terzo cinesi. La mancanza di supporto economico da parte del governo australiano durante la crisi da Covid-19, unita ad un documentato incremento di atti razzisti nei confronti di individui aventi tratti asiatici, e ad una comunicazione politica strumentalizzata da ambo le parti, ha spinto molti cinesi a rivalutare le proprie priorità accademiche. Anche sotto caldo suggerimento del Partito, ça va sans dire. Questo ha già lasciato tangibili tracce sui budget e sulle offerte formative di alcune dei migliori istituti del Paese. Diffidenza, pertanto, è la parola chiave da ricercarsi. Pechino filtra il proprio rapporto commerciale con Canberra in termini securitari, accusando la propria miniera a cielo aperto di utilizzare un linguaggio politico provocatorio, spalleggiare gli Stati Uniti e l’India nel Mar Cinese Meridionale sotto il vessillo del QUAD, stringere accordi militari con Tokyo e sussidiare vasti settori della propria economia domestica. Rincarando la dose, il Partito ha recentemente operato analisi sulla condotta dei soldati australiani in Afghanistan (anche attraverso fonti poi riportate essere fake), nel tentativo di contraccambiare la generosa attenzione che il pubblico Aussie riserva alla gestione delle minoranze cinesi interne e al rispetto dei diritti umani. Premura che, a detta di Pechino, non viene riservata alla situazione debilitata delle comunità aborigene australiane. Dal canto suo, Canberra non manca di sottolineare l’opacità dell’operato del Partito nelle fasi iniziali dell’attuale pandemia. Non perde occasione di condannare la situazione nello Xinjiang. Estende visti a migliaia di Hongkongers ancora in Oceania. Le attuali dispute economiche, pertanto, non sono che parte di un puzzle regionale più ampio e complesso. Se gran parte delle nazioni della regione, per storia ed interesse, si producono in dinamiche di hedging, ossia parlano mandarino in contesto economico ma fluido texano quando la difesa della propria sovranità è in discussione, questo rimane difficilmente riproducibile per un popolo come quello australiano che guarda alla sponda opposta del Pacifico nella constante ricerca di presenza politica. Di segni vitali dei membri Five Eyes. Addolcire i toni verso la Cina sarebbe congeniale da un punto di vista economico e politico: allenterebbe le tensioni con un partner economico che non ha eguali sul panorama internazionale. Soprattutto, darebbe fondamenta alle previsioni di Canberra per il recupero economico post-pandemico, aggrappato a un +8% di crescita cinese nel 2021 per trascinare i canguri fuori dalla crisi, in un replay delle dinamiche post crollo finanziario del 2008. Dal canto suo, Pechino pianifica lo scacco al Re lavorando ai fianchi un’economia australiana impossibilitata a rispondere per le rime. L’offerta globale in settori chiave per Canberra è fluida e ricettiva. L’America Latina, in tal senso, è già in pole position. I canguri, pertanto, dovranno stringere i denti, continuando a solcare con lo sguardo le acque (poco) pacifiche dell’oceano. Nella spasmodica attesa di una chiamata da Washington, confideranno che l’inquilino entrante abbia un ricordo più vivido dei cugini alleati. Che il Pivot to Asia di stampo Obamiano e il FOIP di matrice Trumpiana siano seguiti da un più ampio abbraccio non solo securitario, quale è il QUAD, ma anche economico. L’accordo da 36 miliardi di dollari in prodotti agricoli americani strappato recentemente da Donald Trump a Xi Jinping non rema esattamente in questa direzione.
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