a cura di Mario Ghioldi La parola Nagorno, seguendo l’etimologia russa, significa “montagna”, viceversa Karabakh è un termine di origine turco/persiana che richiama l’idea di un “giardino nero”. Il nome Nagorno-Karabakh può essere il più eclatante simbolo di come una zona montuosa, crocevia degli oleodotti che riforniscono i principali mercati mondiali, sia l’incontro e soprattutto lo scontro di culture e di modi di vivere differenti, in particolare quello azero e quello armeno. L’ escalation di fine settembre all’interno dell’enclave armena situata nel territorio azero non è solamente l’ennesimo episodio di una moderna “guerra dei trent’anni”, apparentemente dimenticata dalle potenze regionali e globali, ma potrebbe anche significare il cambiamento degli equilibri geopolitici nella regione caucasica. Le ragioni del conflitto temporalmente più lungo all’interno della zona post sovietica dalla fine della Guerra Fredda, devono essere ricercate proprio agli albori della storia dell’URSS. Nel 1921, Stalin incluse la regione del Nagorno- Karabakh, abitata in prevalenza dagli armeni, all’interno della Repubblica Sovietica dell’Azerbaigian, senza tener conto delle differenze culturali delle popolazioni coinvolte. In un mondo completamente differente, agli inizi degli anni novanta, la dissoluzione dell’Unione Sovietica ha causato un aumento esponenziale delle tensioni tra le parti. Di fatti, gli armeni dell’area, attraverso un referendum boicottato dalla stessa Baku, dichiararono l’indipendenza nei confronti dello stato centrale. In breve tempo, i contrasti sono sfociati in un vero e proprio conflitto, nel quale Yerevan ha sostenuto apertamente i separatisti con l’obiettivo di controllare la regione. Lo scontro iniziato nel 1991, oltre a causare 30.000 morti, ha generato un pericoloso stallo, nel quale differenti potenze globali hanno cercato di mediare tra le parti in causa. Anzitutto, dallo scoppio del conflitto, il Nagorno-Karabakh si definisce uno stato indipendente denominato Repubblica dell'Artsakh, la cui capitale è Stepanakert, maggiore centro abitato della regione. Tuttavia, tale stato non è riconosciuto a livello internazionale, nemmeno dallo stessa Yerevan. In secondo luogo, al cessate il fuoco del 1994, raggiunto attraverso la mediazione di francesi, statunitensi e russi (riuniti appositamente nel c.d. Gruppo di Minsk), non è seguito nessun significativo progresso nonostante gli sforzi dell’OSCE. Le frizioni nell’aprile 2016 (la “Guerra dei quattro giorni”) in cui morirono circa 200 persone sono state un chiaro segnale dell’instabilità nell’area. Gli scontri iniziati nell’ultima settimana di settembre sono legati alle schermaglie avvenute nel luglio dello stesso anno e mostrano diversi aspetti preoccupanti. Di fatti, oltre ad essere la peggior escalation dal 2016, come confermato dalla mobilitazione dei riservisti e dalla proclamazione della legge marziale sia da parte di Baku che di Yerevan, il conflitto potrebbe non essere più circoscritto come in precedenza. In particolar modo, il governo turco starebbe assumendo un ruolo più attivo all’interno dei contrasti tra i due attori. Ciò non sarebbe solamente confermato dalle dichiarazioni armene che denunciano l’arrivo di mercenari turchi in aiuto dell’Azerbaigian, ma anche dalle stesse affermazioni di Erdogan nei confronti di Yerevan. Ankara infatti ha espresso il proprio appoggio a Baku, sottolineando come l’Armenia sia “una seria minaccia per la pace nella regione caucasica”. In tale contesto, gli azeri, forti sia dell’appoggio turco che della loro supremazia economico/militare nei confronti degli armeni, potrebbero essere stimolati a cambiare l’attuale status quo. Inoltre, l’odierno disimpegno statunitense potrebbe ulteriormente spronare gli azeri ad agire nei confronti dei propri rivali. Di fronte a ciò, un ruolo chiave sarebbe assunto dall’altro grande attore coinvolto nella regione caucasica, la Russia. Se da una parte Putin è uno storico alleato militare dell’Armenia, come dimostra l’alleanza della Collective Security Treaty Organization (CSTO), raggruppante tutte le repubbliche ex sovietiche ancora vicine al Cremlino, dall’altra il presidente russo è legato economicamente all’Azerbaigian. Per tale motivo, Mosca non solo vorrebbe mitigare il conflitto tra i due paesi, ma preferirebbe non avere ulteriori frizioni con Ankara considerando il fragile equilibrio raggiunto con Erdogan in altre aree globali. In tale situazione, di fronte ad una Washington maggiormente occupata alle elezioni presidenziali, Putin potrebbe avere come alleato l’Unione Europea, che tramite il proprio Presidente del Consiglio Michel ha espresso viva preoccupazione per l’attuale escalation. L’attuale posizione di Mosca, costretta a destreggiarsi tra due alleati per evitare il conflitto, è l’arma diplomatica più efficace che Yerevan ha a disposizione. L’Armenia, molto più debole militarmente del rivale azero, è consapevole di come il Cremlino avrebbe tutto da perdere in un eventuale scontro fra i due parner. Il simbolo della protezione russa nei confronti degli armeni è dato dal citato Collective Security Treaty Organization, considerata come una NATO Sovietica in quanto contenente un meccanismo di difesa collettiva (e quindi con un alto grado di deterrenza) simile a quello del Patto Atlantico. In uno scenario che appare molto piu instabile rispetto gli anni scorsi, è quindi Mosca a ricoprire il ruolo di maggior rilevanza. Putin di fatti dovrà essere abile sia a mantenere il fragile equilibrio raggiunto con Ankara, che scongiurare un conflitto tra i suoi partner nel proprio “giardino (nero)”.
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