a cura di Elena Giudice Gli sforzi del partito comunista di “rieducare” la popolazione nell’area dello Xinjiang negli ultimi anni sono stato oggetto di ampia copertura mediatica. Dal 2017 ad oggi abbiamo assistito ad una rapida intensificazione delle attività governative nell’area, più recentemente tornate sotto scrutinio internazionale dopo l’accusa da parte della ex amministrazione americana Trump, che li ha definiti come celati tentativi di genocidio culturale e che vedono come target la minoranza uigura (posizione poi sostenuta anche dal nuovo Segretario di Stato Blinken). Tuttavia questa volontà di uniformazione ed assimilazione etnica, oltre ad essere dettata da ragioni pragmatiche di controllo sociale, affonda le sue radici nei trascorsi storici e politici della Repubblica Popolare ed ha anche strettamente a che fare con la stessa percezione delle minoranze etniche nel paese. Per cui i fenomeni dello Xinjiang rappresentano un esempio certamente estremo ma non esclusivo. Guardando agli eventi storici, si può osservare come le zone dell’ovest e del nord ovest del paese – Alta Asia e Asia Centrale – siano divenute parte della Cina, per come la intendiamo oggi, solo nel più tardo periodo dinastico. Per questa ragione sono sempre state percepite, più o meno consapevolmente, come periferiche rispetto al territorio storicamente culla della civiltà cinese. Solo dal periodo Qing difatti, le gazzette imperiali iniziano a riportare notizie sulla presenza di popolazioni “barbare” nelle regioni di frontiera e a pubblicare documenti ufficiali in 5 lingue. Successivamente in periodo repubblicano viene coniato il termine “五族共和”, che indica la coesistenza armoniosa di cinque etnie sotto la stessa bandiera (han, mancese, mongola, tibetana, hui). La categorizzazione della popolazione in 56 etnie che ne segue dunque non è infondata o generata in toto dal Partito Comunista Cinese, ma è parzialmente frutto di processi di identificazione preesistenti. La classificazione ufficiale viene coronata formalmente da un primo censimento etnico nel 1954, che evidenzia una maggioranza del gruppo han e una pluralità, anche se minoritaria, di altre 55 etnie. In questo processo di rigida categorizzazione, due elementi emergono come fondamentali sul piano politico: da un lato la volontà di riunire sotto un unico gruppo etnico – numericamente dominante – la maggior parte della popolazione cinese, volutamente ignorando le diverse specificità regionali e territoriali, anzi, probabilmente con l’obbiettivo di evitare la frammentazione in un delicato momento di ricostruzione dell’identità nazionale. Si può dunque affermare che la scelta del gruppo han è in realtà arbitraria e non rappresentativa nella sua totalità delle specificità locali; dall’altro, un secondo elemento che emerge è una selezione volutamente limitata anche delle restanti 55 etnie: durante il primo censo ne emersero oltre 200 di cui solo 55 vennero registrate ufficialmente. Queste sarebbero state poi interessate da politiche specifiche di ispirazione sovietica, come l’istituzione di regioni speciali autonome per le minoranze e la garanzia di avere una propria rappresentanza ufficiale e politica nel governo, oltre a ricevere cospicui incentivi atti alla sponsorizzazione di forme di espressione culturali tradizionali dei suddetti gruppi (danze, abbigliamento, arti). La sopracitata classificazione dunque, oggi percepita come naturale da larga parte del paese, è in realtà frutto di una costruzione e differenziazione intenzionale. Tuttavia ciò non dovrebbe portare a pensare che lo scopo della classificazione fosse di divisione; al contrario, essa si pone come obbiettivo la coesione tra gruppi con specificità locali condivise per inquadrarle in un discorso politico di coesistenza armoniosa. Tale coesistenza è realizzabile però solo a patto di mantenere un equilibrio che vede le etnie non han come docili, ospitali e minoritarie (non a caso frequentemente rappresentate in contesti ufficiali da figure femminili in abiti tradizionali) e l’etnia han come maggioritaria e dunque anche di maggior peso – lasciando trapelare una percezione poco bilanciata dei ruoli di genere –. Questa visione etnocentrica, nonostante la retorica ufficiale parli di Cina come un paese dallo spiccato multiculturalismo, attribuisce alla popolazione di etnia han anche una funzione in qualche modo educativa e di civilizzazione rispetto alle minoranze (non dissimile dalla nostra stessa cultura colonialista europea). Peraltro l’etnocentrismo han è riscontrabile tutt’ora nella società cinese moderna con diverse modalità d’espressione e si muove di pari passo con il processo di urbanizzazione e modernizzazione del paese, altro elemento che porta all’accrescersi ed uniformarsi dei tratti comuni e condivisi dalla popolazione. La “coesistenza armoniosa”, chiaramente ha generato e genera tutt’ora criticità e conflitti nel rapporto tra minoranze e gruppo han e le origini di queste tensioni sono da imputare a questioni diverse. Le più discusse sono sicuramente di matrice religiosa, soprattutto nei territori del Tibet e dello Xinjiang, ma non mancano anche ragioni legate alla disuguale distribuzione della ricchezza (in queste aree come altrove), alle scarse possibilità di mobilità sociale per le persone appartenenti ad etnie non han, come anche ai grossi incentivi governativi nelle regioni autonome. Questi incentivi generano poi un ulteriore problematica, cioè determinano una totale dipendenza dello sviluppo economico di queste aree dallo stato centrale e dunque una scarsa capacità di controllo delle proprie risorse e di sviluppo indipendente locale. Politiche mirate ad attrarre migrazioni han nei territori periferici si aggiungono poi a questo quadro, con lo scopo di favorire un processo di assimilazione culturale (anche se esse stesse nel tempo sono diventate ulteriore causa di ineguaglianze in termini di condizioni e retribuzione tra han e non han). A ciò si associa anche un intenso incremento del turismo domestico, che lede gravemente alla cultura autoctona, di cui vengono sfruttate solo le caratteristiche esteriori o che possano risultare più esotiche e “vendibili”, spogliandola delle proprie connotazioni più reali e profonde. Tutti questi elementi nel tempo hanno esacerbato il malessere delle comunità non han e generato anche forme di protesta locali, come nel caso di diverse rivolte nello Xinjiang ad opera della popolazione uigura nei primi anni duemila, o come per le tensioni nelle zone del Tibet. Dunque alla luce di quanto detto, il tentativo di Pechino di attribuire i disordini locali a ragioni esclusivamente di matrice religiosa risulta riduttivo. In futuro la Cina potrebbe prendere in considerazione la possibilità di cambiare modalità di relazione con le proprie etnie, allontanandosi da un approccio esclusivamente “politico” a favore di uno più comprensivo delle proprie peculiarità culturali. Slegare l’etnia da elementi di retorica politica potrebbe difatti apportare un doppio beneficio: sia nel rafforzare l'identità nazionale tra le minoranze etniche e sia nel garantire la tutela e la prosperità delle loro tradizioni culturali. Un modo tangibile per farlo potrebbe essere abbandonare l’attuale modello impiegato – che prevede autonomie regionali e genera ulteriori lacerazioni – ed implementare invece un nuovo modello, basato sul riconoscimento del valore della diversità e di tutti i propri cittadini.
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