a cura di Erika Frontini Recentemente, si è ripreso a parlare di limitazioni alla libertà di espressione in Ungheria. A scatenare il dibattito è stata la notizia, lo scorso 15 febbraio, della fine delle trasmissioni radio di Klubrádió, secondo molti l’ultima emittente indipendente nel Paese governato da Viktor Orbán. Nel settembre 2020, l’Autorità ungherese per i media ha deciso di non rinnovare la licenza di Klubrádió per via di alcune violazioni amministrative. L’emittente - che già in passato aveva subito simili attacchi ed era stata confinata alla sola capitale - si è appellata al tribunale di Budapest lamentando di essere vittima di discriminazioni sulla base di motivazioni politiche, ma la corte ha dato ragione all’Autorità. La questione non è di certo passata inosservata in Europa, incluso a Bruxelles, da dove la Commissione europea ha inviato una lettera al Governo ungherese chiedendo che la radio possa continuare ad usufruire della frequenza fin quando la decisione finale non diventerà vincolante. A pochi giorni di distanza da tali avvenimenti, la Commissione ha avviato una nuova procedura d'infrazione contro l'Ungheria per la mancata implementazione della sentenza con cui, nel giugno 2020, la Corte di giustizia europea aveva bocciato una legge adottata dal Parlamento ungherese nel 2017, la quale richiede alle ONG che ricevono fondi dall’estero di farne esplicita dichiarazione. Secondo la Corte, tale legge viola le norme Ue sulla libera circolazione dei capitali, il diritto alla protezione dei dati, nonché la libertà di associazione. Tuttavia, forse non tutto è perduto: Klubrádió potrebbe ottenere di nuovo la frequenza, essendo attualmente l’unica partecipante alla gara per la ri-assegnazione della stessa, mentre il Governo ungherese ha dichiarato che la legge sulle ONG sarà modificata. D’altra parte, se tali crisi circoscritte sembrano risolvibili, la situazione generale in Ungheria per quanto riguarda democrazia e stato di diritto appare molto più complessa. Da anni il Paese - un tempo capofila nel processo di adesione all’Ue - è frequentemente citato come caso esemplare di regressione democratica in uno Stato membro. Tale inversione di tendenza si è manifestata a partire dall’ascesa al governo di Fidesz, il partito guidato da Orbán, nel 2010. Forti della maggioranza assoluta nell’Assemblea nazionale, i tre successivi governi Orbán hanno intrapreso una progressiva trasformazione dell’assetto costituzionale ed istituzionale del Paese, concentrando il potere nell’esecutivo ed indebolendo significativamente il sistema di checks and balances. Ciò si concretizza in continue pressioni sul potere giudiziario, un forte controllo sui media e vari tentativi di depoliticizzare la già fragile società civile (tra i quali rientra la già citata legge anti-ONG). Nel 2017, le autorità ungheresi si sono spinte fino a minacciare la libertà accademica costringendo, di fatto, la Central European University (CEU) a spostare le proprie attività a Vienna. Proprio in seguito a tale avvenimento, il Parlamento europeo ha attivato la procedura all’art. 7 del Trattato sull’Unione Europea, che prevede la possibilità di sanzionare uno Stato membro in cui si verifichi una violazione grave e persistente dei valori fondamentali dell’Ue, tra i quali figurano democrazia e stato di diritto. Fino a quel momento, la risposta delle istituzioni europee ai fatti ungheresi era stata debole e parziale: la Commissione ha aperto diverse procedure d’infrazione, concentrandosi su singole questioni problematiche e solo indirettamente legate a trasgressioni dei principi democratici su cui l’Ue si fonda, in quanto formalmente non ha la competenza di sanzionare direttamente violazioni sistematiche dei valori fondamentali. Per esempio, nel 2011 la Commissione ha portato una legge ungherese che stabiliva il pre-pensionamento coatto dei giudici (vista come un tentativo del Governo di liberarsi di magistrati sgraditi) all’esame della Corte di giustizia, sulla base della presunta violazione delle norme Ue anti-discriminazione. Come in altri casi simili, la Corte ha dato ragione alla Commissione, ma si è trattato di una vittoria apparente: l’Ungheria ha implementato la sentenza cancellando la legislazione incriminata, ma - complice la lunghezza della procedura Ue - molti giudici non hanno potuto assumere nuovamente le cariche precedenti perché queste erano già state occupate. D’altronde, l’attivazione dell’art. 7 non ha alterato di molto la situazione: è infatti necessario un voto all’unanimità degli Stati membri (escluso il Paese interessato dalla procedura) per adottare sanzioni. Prospettiva pressoché improbabile, dato che, oltre all’Ungheria, anche la Polonia è attualmente oggetto dello stesso procedimento per ragioni molto simili. E’ l’esemplificazione di un dilemma esistenziale dell’Ue: secondo i requisiti di adesione, solo i Paesi dotati di stabili istituzioni democratiche possono entrare a far parte dell’Unione. Tuttavia, le istituzioni non dispongono di strumenti adeguati ad assicurare il rispetto degli stessi principi democratici una volta che uno Stato è membro a pieno titolo. Tale criticità è nota all’interno dell’Ue, tanto che negli ultimi anni sono state avanzate numerose proposte per rafforzare la capacità dell’Unione di preservare la propria democrazia. Alcune di queste hanno avuto un seguito, come l’introduzione di un report annuale sullo stato di diritto in ciascuno Stato membro, redatto dalla Commissione a partire dal 2020. Si tratta di un prezioso strumento di monitoraggio e prevenzione, che potrebbe fungere da deterrente rispetto a potenziali trasgressioni future. Ciononostante, esso risulta poco utile in situazioni avanzate come quelle ungherese e polacca - se non per il fatto di continuare a mantenere vivo il dibattito sui problemi relativi a tali Stati, stessa funzione ormai assunta dall’art. 7. Diverso è il discorso per il meccanismo volto a legare i fondi europei al rispetto dello stato di diritto, la cui adozione è stata fortemente ostacolata proprio da Ungheria e Polonia. Il veto posto dai due Paesi ha fatto sì che la versione finale dello strumento - che non verrà applicato fin quando la Corte di giustizia europea non avrà dato un parere positivo sulla sua legittimità - sia molto più diluita rispetto all’idea originale. Malgrado ciò, si tratta comunque di un segnale della volontà dell’Unione di proteggere i propri valori fondanti, nonché di un punto di partenza verso possibili azioni future. Tuttavia, se si vogliono ottenere risultati davvero significativi, saranno necessarie una maggiore reattività da parte delle istituzioni Ue e una forte volontà politica degli Stati membri.
|
|