a cura di Riccardo Allegri Nel corso delle scorse settimane, sono ripresi i negoziati tra i Talebani ed i rappresentanti delle forze armate statunitensi in Afghanistan. Tali trattative vanno ad inserirsi nel lento processo di pace che, nelle intenzioni dei protagonisti, dovrà porre fine ad un conflitto che perdura ormai da quasi 20 anni. Il Generale Mark Milley si è incontrato con una delegazione talebana a Doha, in Qatar, ove questi ultimi hanno un ufficio di rappresentanza. L’obiettivo del Capo dello Stato Maggiore Congiunto statunitense era quello di persuadere la controparte a porre fine agli attacchi indiscriminati in modo tale da consentire una ripresa del parallelo negoziato in corso tra i Talebani ed il governo di Kabul. Tale negoziato non sta procedendo con la rapidità sperata a causa di disaccordi su questioni procedurali. Le parti hanno però confermato l’intenzione di riprendere i colloqui nel mese di gennaio, dopo aver raggiunto un compromesso. Milley, dal canto suo, è stato costretto ad intervenire a causa di una recrudescenza delle ostilità tra i belligeranti e, subito dopo essersi incontrato con i rappresentanti dei Talebani, ha avuto un colloquio con gli emissari del governo afgano. L’ondata di violenza che ha investito il paese, già vessato da quarant’anni di conflitti, ha portato morte e distruzione in numerose province. Oltre ad infrastrutture rilevanti come ponti o vie di comunicazione, i Talebani hanno preso di mira anche alcune figure di spicco all’interno delle amministrazioni locali. Ciò riflette un cambio di strategia da parte degli insorti, i quali hanno momentaneamente cessato di prendere di mira centri abitati e basi militari, concentrandosi sugli esponenti del governo e sulle forze di sicurezza afgane. Suddetto cambiamento parrebbe essere il frutto di un accordo tra le forze armate americane ed i Talebani volto a produrre una significativa riduzione della violenza. Non è un caso che, nonostante gli insorti abbiano fatto registrare il più alto numero di attacchi dall’inizio del conflitto, nel 2020 il numero di vittime civili sia stato insolitamente basso. Anche tra i soldati americani non si sono registrate perdite elevate. Ma come si è giunti a questi risultati, seppur controversi? A tal proposito, sembra che il 2020 sia stato un anno piuttosto proficuo. A febbraio è stata resa nota la firma di un accordo tra Baradar, il leader dei Talebani, e Zalmay Khalizad, in rappresentanza del governo degli Stati Uniti. Durante la cerimonia per il raggiungimento dell’accordo era presente anche il Segretario di Stato Mike Pompeo, il quale ha avuto modo di incontrare gli insorti. Si tratta del primo colloquio tra una delegazione di Talebani ed un membro del gabinetto americano. L’accordo di febbraio prevedeva il graduale ritiro del contingente statunitense entro 14 mesi. In cambio gli insorti avevano accettato di tagliare qualunque contatto con Al-Qaeda ed altre organizzazioni terroristiche attive nella regione. Inoltre, in base ai termini concordati, i Talebani avrebbero dovuto sedersi al tavolo delle trattative con gli altri gruppi della frammentata società afgana, compreso il governo di Kabul, mai riconosciuto come legittimo dai ribelli. Washington avrebbe comunque mantenuto un contingente armato numericamente limitato con lo scopo di combattere ciò che rimaneva dell’ISIS e di Al-Qaeda. Inoltre, l’accordo prevedeva uno scambio di prigionieri. Il governo di Kabul avrebbe liberato 5.000 combattenti Talebani mentre questi ultimi avrebbero rilasciato 1.000 soldati afgani catturati nel corso delle azioni di guerriglia. Rimaneva da chiarire se il governo afgano avrebbe accettato tale scambio, considerando che Kabul non aveva preso parte ai negoziati. In effetti la questione si era rivelata piuttosto spinosa, ma alla fine le autorità afgane avevano acconsentito alla graduale liberazione dei prigionieri. Gli insorti avevano celebrato la firma dell’accordo descrivendolo sui social network come una vittoria. In alcuni casi si erano spinti al punto di affermare di non sentirsi vincolati dalle condizioni del trattato sottolineando come esso servisse soltanto per consentire il ritiro del contingente americano prima della ripresa delle ostilità nei confronti del governo afgano. Dal canto loro, anche gli Stati Uniti non erano esenti da sospetti. Alcune personalità vicine al governo di Kabul avevano espresso le proprie preoccupazioni rispetto all’accordo, considerato una copertura diplomatica che potesse giustificare il ritiro delle truppe senza tener conto della reale situazione bellica nel paese. Inoltre, al momento della firma, era in corso un’aspra disputa interna al governo afgano su chi avesse effettivamente vinto le elezioni. Se da un lato Ashraf Ghani era stato proclamato presidente del paese, dall’altro il suo oppositore, Abdullah Abdullah, ed i suoi sostenitori avevano rifiutato di riconoscere il risultato della consultazione elettorale. Proprio pochi giorni prima dell’inizio dei colloqui tra le parti, dunque, i negoziati erano già in pericolo. Gli insorti, infatti, si erano rifiutati di sedere al tavolo delle trattative con i rappresentanti di Kabul poiché, stando alle loro stesse parole, la delegazione del governo afgano non era rappresentativa di tutti gli interessi della società. Il portavoce del presidente Ghani aveva respinto tali insinuazioni ma non era chiaro se Abdullah ed i suoi seguaci sostenessero il processo di pace. La disputa tra i due rivali era stata risolta con un accordo sulla condivisione del potere. Inoltre, Abdullah era stato nominato responsabile dei negoziati con i Talebani. Parallelamente, erano cominciati i colloqui per il rilascio dei prigionieri, con una delegazione di insorti che si era recata a Kabul. Era la prima visita ufficiale di un gruppo talebano nella capitale sin dal 2001, quando la guerra era cominciata. Il governo afgano non era per niente propenso a liberare alcuni Talebani, in quanto essi erano considerati molto pericolosi per la stabilità del paese. Soltanto dopo il parere positivo di una loya jirga, ovvero una riunione tra i capi dei diversi clan presenti in Afghanistan, Ghani aveva acconsentito a procedere con lo scambio di detenuti. Nello stesso momento, gli Stati Uniti avevano ridotto sensibilmente il proprio contingente militare, nel rispetto dei termini dell’accordo di febbraio. Infatti, entro gennaio saranno 2.500 i soldati statunitensi in Afghanistan, contro i 13.000 dell’anno passato. L’ingresso di Abdullah nell’esecutivo afgano, la liberazione dei prigionieri ed il contestuale progressivo ritiro delle forze d’occupazione avevano dato nuovo slancio al processo di pace ed il 12 settembre, le trattative tra Kabul ed i Talebani erano cominciate, arrestandosi però quasi immediatamente. Dopo l’interruzione forzata a cui si è fatto riferimento in precedenza, il 3 dicembre le parti hanno trovato un accordo sulle regole per portare avanti il negoziato. In questo contesto si inserisce l’intervento del Generale Milley per salvaguardare il processo di pace alla luce di una recrudescenza degli scontri. I belligeranti, dunque, rimangono su posizioni divergenti e gli USA sono ansiosi di abbandonare l’Afghanistan. Al momento, tutto è ancora possibile.
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