A cura di Marco Monaco, Osservatorio sull’unione Europea
Nel corso dell’ultima riunione del Consiglio “Affari Esteri” dell’Unione Europea (UE), presieduto dall’Alto Rappresentante dell'Unione Josep Borrell, i membri del Consiglio hanno adottato una decisione per l’istituzione dell’European Peace Facility (EPF), uno strumento finanziario che sostituirà i preesistenti meccanismi di Athena e dell’African Peace Facility. [1] Concepito come un fondo off-budget per il periodo 2021-2027, il nuovo strumento europeo per la pace dovrebbe rappresentare un mezzo per acquisire una maggiore capacità di preservare la pace internazionale da parte dell’UE, fornendo un fondo unico e di respiro globale per il finanziamento dei costi comuni delle operazioni internazionali dell’UE ed integrando queste ultime con adeguate misure di assistenza. [2] Le spese a carico dello strumento saranno circoscritte alle missioni o agli strumenti con specifiche implicazioni militari e/o di difesa, con l’idea di fondo di donare all’Unione una maggiore flessibilità ed impatto nel supporto dei paesi partner per il mantenimento della propria stabilità, la gestione di potenziali crisi e la prevenzione di eventuali conflitti. [3] Come qualsiasi nuova variabile che vada ad inserirsi nel contesto della politica estera e di sicurezza europea, il neonato strumento dell’EPF solleva diversi temi centrali per l’evoluzione ed il percorso dell’UE come attore di sicurezza. Come già accennato, l’idea sottostante la creazione del nuovo strumento deriva dalla necessità dell’Unione di acquisire maggiori capacità e credibilità nella propria azione esterna di intervento (e soprattutto di supporto) nei teatri che lo richiedono. In questo contesto, uno degli elementi che da sempre ha caratterizzato, e spesso ostacolato, la conduzione di una politica estera e di sicurezza europea efficace è rappresentato dalla natura intergovernativa di quest’ultima. In altre parole, se da una parte molti elementi della politica europea vengono gestiti tramite un metodo comunitario, e dunque in una dimensione sovranazionale, con una forte influenza da parte delle istituzioni europee, quando si entra in ambito militare tale influenza viene meno. Nello specifico, ad essa si sostituisce un controllo pressoché totale degli stati membri, che detengono un potere decisionale e di veto, grazie all’influenza del Consiglio Europeo ed ai meccanismi di voto all’unanimità. [4] Il nuovo Strumento Europeo per la Pace sembra inserirsi proprio in quest’ultimo contesto, senza apportare alcuna modifica (o progresso, a seconda delle prospettive) alla conduzione della politica di sicurezza. Non è un caso che il bilancio e le operazioni dell’EPF verranno controllate, discusse ed approvate da un Comitato appositamente istituito, composto da un rappresentante per ciascuno Stato membro. Il Comitato, com’è prevedibile, deciderà all’unanimità, complicando il raggiungimento di un accordo rispetto al budget annuale dello strumento e allo stanziamento dei fondi per operazioni e misure di assistenza. [5] Sebbene alle riunioni del Comitato potranno partecipare gli altri addetti ai lavori, inclusi i comandanti di ciascuna operazione ed i rappresentanti del servizio europeo per l’azione esterna (SEAE) e dell’Agenzia Europea per la Difesa (AED), questi ultimi non avranno voce in capitolo al momento delle votazioni. Analogamente, il fatto che il fondo sia concepito come off-budget (dunque al di fuori dei costi compresi nel budget dell’UE) rappresenta un ulteriore sintomo di continuità con la dottrina intergovernativa degli affari militari. In ottemperanza all’articolo 41, paragrafo 2 del Trattato sull’Unione Europea, le spese derivanti da operazioni che hanno implicazioni nel settore militare o della difesa non possono essere a carico dell’Unione, a meno che il Consiglio non deliberi altrimenti all’unanimità. [6] Per tale motivo, l’European Peace Facility verrà interamente finanziato attraverso contributi diretti degli Stati membri, sulla base del loro prodotto nazionale lordo, consolidando un forte controllo dei governi nazionali. Ad onor del vero, risulta corretto spezzare una lancia in favore di alcuni accorgimenti inseriti nella decisione che istituisce l’EPF, i quali potrebbero fungere da attenuanti verso i poteri di veto. A quanto viene riportato, uno stato membro che si rifiuti di contribuire economicamente ad una specifica operazione o misura di assistenza non parteciperà alla votazione del Comitato, rendendo dunque più complessa l’opposizione da parte di un singolo governo contrario, il cui rappresentante potrà comunque partecipare alle riunioni. Inoltre, nel momento in cui il budget annuale è stato fissato, uno stato membro che non contribuisce ad un’operazione o misura di assistenza approvata dal resto del Comitato, dovrà contribuire con finanziamenti supplementari ad altre operazioni (già attive o future), compensando la mancata partecipazione e garantendo il rispetto del contributo inizialmente previsto. Infine, per le questioni procedurali il Comitato delibererà a maggioranza, invece che all’unanimità. [7] Elementi di questo tipo, seppur utili a limitare lo stallo in potenziali casi di attrito tra gli stati membri, non eliminano tuttavia l’ostacolo potenzialmente più gravoso, ovvero la necessità di raggiungere un voto unanime. Se la discrepanza di vedute tra gli stati membri emergesse successivamente all’approvazione di una misura di assistenza o operazione, è probabile il processo decisionale ne risulterebbe bloccato, o quanto meno fortemente rallentato. Un secondo tema sollevato dal nuovo strumento finanziario concerne il livello di rischio che si accompagna alla fornitura militare in favore di paesi terzi. Le misure di assistenza previste all’interno del meccanismo dell’EPF avrebbero lo scopo di rafforzare le capacità di risposta militare degli stati terzi e di organizzazioni internazionali che presentano richiesta in situazioni di crisi. Già alla fine dello scorso anno, una dichiarazione firmata da quaranta organizzazioni della società civile avvertiva riguardo ai rischi legati alla fornitura di assistenza militare nei confronti di Paesi terzi, i quali potrebbero utilizzare i fondi, strutture o materiali provvisti per reprimere con violenza le proteste civili, in violazione dei diritti umani e del diritto internazionale. [8] Non è complesso immaginare uno scenario simile in relazione all’attuale dibattito in sede del Consiglio Affari Esteri in merito alla necessità di “un partenariato più forte, più stretto e più efficace” [9] con gli stati del vicinato meridionale. La priorità europea di risolvere problemi legati a conflitti, migrazioni e terrorismo internazionale porta con sé un reale rischio di abuso nei confronti dei civili da parte dei governi coinvolti. Se ciò si verificasse successivamente allo stanziamento di fondi tramite l’EPF è probabile che l’Unione si troverebbe in grave difficoltà, sia al livello gestionale che diplomatico. Anche in relazione a ciò, il documento ufficiale approvato a fine marzo prevede la sospensione, da parte del Comitato Politico e di Sicurezza (CPS) dell’UE, di qualsiasi misura di assistenza concessa tramite l’EPF in casi di violazione degli obblighi contrattuali o del diritto internazionale, con particolare riguardo per il diritto internazionale umanitario ed il diritto internazionale dei diritti umani. In aggiunta a ciò, l’European Peace Facility è stato dotato di un duplice meccanismo di revisione, interna ed esterna, per garantire la qualità dei sistemi di gestione e controllo dei finanziamenti. [9] Se queste misure siano sufficienti ad impedire l’abuso dei fondi o del supporto materiale stanziato dall’Unione a beneficio di stati terzi in potenziali casi di crisi è certamente complesso da definire allo stato attuale. Ciò che si può sostenere con relativa sicurezza, tuttavia, è che il neonato strumento europeo per la pace, lungi dal rappresentare un’innovazione decisa nell’approccio dell’UE alle crisi internazionali, costituisce un ulteriore tassello nella serie di misure europee ben strutturate in prospettiva di tempi di armonia ed azione coordinata, ma potenzialmente molto fragili all’emergere di disaccordi interni o casi limite che mettano alla prova la credibilità dell’intera Unione Europea.
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