Matteo Buccheri e Anna Rita Parisi, Elections Hub
La propensione a giocare il ruolo di superpotenza regionale è una caratteristica intrinseca dell’Iran che prescinde dalle singole personalità che occupano le più alte cariche del Paese, islamiche o repubblicane che siano. L’attitudine geopolitica dell’Iran si muove idealmente all’interno dell’impronta lasciata dal grande Impero Persiano, di cui la Repubblica Islamica è erede. Una necessità che si è fatta più intensa dopo la rivoluzione del 1979 che ha ribaltato gli equilibri del Medio Oriente: dopo decenni di intima alleanza con gli Stati Uniti che hanno reso il Paese il gendarme occidentale in un’area di forte competizione durante la Guerra Fredda, l’Iran post-rivoluzione sconvolse il sistema di alleanze. Gli Stati Uniti divennero il nemico numero uno della Repubblica Islamica; all’antiamericanismo, uno dei driver che infiammarono la rivoluzione, non poteva non seguire l’equivalente ostilità verso i Paesi che più di tutti erano, e sono tuttora, funzionali agli interessi americani, ovvero Israele e Arabia Saudita. L’Iran nel contesto regionale La longa manus di Teheran su molteplici scenari in Medio Oriente riflette quindi esigenze ideologiche interne e di competizione con attori esterni, i due fattori che storicamente determinano la geopolitica iraniana. L’Iran è il baluardo dell’Islam sciita, il ramo nettamente minoritario nella dicotomia tra sunniti e sciiti che ha assunto nel corso della storia un valore prettamente politico. Nelle intenzioni di Khomeini, il leader della rivoluzione del 1979 e la prima Guida Suprema della Repubblica Islamica, l’ideologia rivoluzionaria andava esportata verso l’esterno. L’Islam sciita è quel potere simbolico con il quale Teheran si è garantita un notevole influsso in quei Paesi mediorientali dove la componente sciita è considerevole. L’Iran è riuscito a penetrare in Iraq e a stabilire una fortissima influenza, soprattutto dopo la caduta di Saddam Hussein (dittatore sunnita iracheno) nel 2003. La presenza iraniana è molto forte anche in Libano attraverso Hezbollah (“Il Partito di Dio”), una sorta di “Stato nello Stato” d'ispirazione sciita dotato di un potente apparato militare nato nel 1982 dopo l’occupazione israeliana del Libano meridionale. Hezbollah è massicciamente finanziato dall’Iran e svolge una funzione di deterrenza proprio verso Israele, minacciato anche a sud da Hamas con cui l’Iran intrattiene rapporti in chiave anti-israeliana. Il corridoio strategico che collega Teheran alle coste libanesi del Mediterraneo passa inevitabilmente dalla Siria, alleato di lunga data della Repubblica Islamica nonostante la maggioranza della popolazione sia sunnita. Nel conflitto scoppiato nel 2011 l’Iran sostiene il regime di Bashar al-Assad, la cui famiglia è di fede alawita, un gruppo religioso vicino allo sciismo. Seppure il conflitto vede il coinvolgimento di diversi attori statali e non, la Siria è anche il teatro di una proxy war in cui l’Iran è contrapposto, tra gli altri, al rivale saudita. Lo stesso scenario si ripete in Yemen: Teheran sostiene i ribelli sciiti Houthi contro la coalizione guidata da Riad. Nonostante l’Iran sia percepito come una pericolosa minaccia dalla quasi totalità dei Paesi arabi mediorientali, con alcuni di essi intrattiene relazioni positive. Tra questi emergono Oman, dall’altra sponda dello Stretto di Hormuz, e Qatar. Non sorprende, dunque, che le elezioni del 18 giugno siano particolarmente seguite dalla comunità internazionale. L’esito non cambierà il peso dell’Iran nella regione né la predisposizione a determinarne gli equilibri, ma potrebbe radicalizzare l’approccio iraniano su alcuni dossier aperti. In quest’ottica, i riflettori internazionali puntano su Vienna dove sta attualmente avendo luogo il sesto round di negoziati per il nuovo accordo sul nucleare tra le delegazioni dei paesi firmatari dell’accordo del 2015 (Iran, Russia, Cina, Regno Unito, Francia e Germania, con supervisione dell’Unione Europea) e, parallelamente, degli Stati Uniti. L’accordo sul nucleare iraniano L’accordo sul nucleare iraniano è sempre stato una delle principali priorità per la sicurezza internazionale dal 2002, quando sono state rivelate attività nucleari fino a quel momento non divulgate, fonte di preoccupazioni inerenti alla natura del programma nucleare della Repubblica Islamica. Il Joint Comprehensive Plan of Action (noto come JCPOA o Iran Deal) del luglio 2015 ha attenuato queste preoccupazioni. Esso prevedeva una significativa riduzione della capacità iraniana di arricchire l’uranio in cambio della rimozione di alcune delle sanzioni economiche imposte internazionalmente sull’Iran. Tre anni dopo, con la decisione dell’allora Presidente americano Donald Trump di ritirare gli Stati Uniti dall’accordo, si è progressivamente arrivati all’erosione del JCPOA e di conseguenza ciò ha suscitato nuove preoccupazioni. Con l’ascesa al potere del nuovo inquilino della Casa Bianca, Joe Biden, si potrebbe invertire questa tendenza. A tal proposito, l’amministrazione Biden sostiene che la politica di Trump abbia portato l’Iran molto più vicino ad avere una bomba nucleare, col rischio di una pericolosa escalation nella regione. In più, la stessa amministrazione ha ribadito l’impegno a far aderire nuovamente gli Stati Uniti al JCPOA, a condizione che anche l’Iran torni a rispettare pienamente i suoi obblighi. In merito alle sanzioni, si sa che gli Stati Uniti non hanno alcuna intenzione di abrogarle tutte, specialmente quelle legate alle violazioni dei diritti umani o al terrorismo. L’Iran, dal canto suo, si è detto disposto a intraprendere un dialogo con gli Stati Uniti. Dunque, il percorso appare molto lineare, ma in primo luogo è necessario ripristinare la fiducia reciproca in modo da far sì che ogni progresso sia concreto e di lunga durata. Nel periodo dei negoziati, tutte le parti riponevano fiducia nella capacità e impegno dell’altra nell’ottemperare ai propri obblighi, ma dopo quattro anni di tensioni e scontri, ci vorrà tempo per ricostruire la fiducia persa. Emblematico, in tal senso, è il caso del generale Qassem Soleimani, ucciso il 3 gennaio 2020 da un raid americano all'aeroporto di Baghdad; Soleimani era il comandante delle Quds Force, figura di assoluto rilievo per la politica estera iraniana. Tuttavia, è necessario affrontare immediatamente tutti i punti dell’accordo percepiti come deboli, che vanno dall’inclusione nei negoziati di un maggior numero di questioni, al coinvolgimento di altri attori tra quelli presenti nella regione. Il terzo motivo che complica un ritorno al totale rispetto dell’accordo sono le prossime elezioni presidenziali del 18 giugno. Se dovesse vincere il candidato ultraconservatore Ebrahim Raisi, l’approccio in merito alla questione del nucleare potrebbe cambiare. Intanto, i negoziati di Vienna per il ripristino del JCPOA procedono col sesto round. Il capo negoziatore russo, l’ambasciatore Mikhail Ulyanov, ha dichiarato con un tweet che quasi certamente non si giungerà ad un accordo definitivo prima delle elezioni presidenziali. Tuttavia, le parti sarebbero comunque vicine al raggiungimento dell’intesa. |
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