a cura di Massimo Spinelli Da alcuni mesi a questa parte, in cima alla lista delle priorità degli stati europei non può che esserci la gestione e il contenimento della pandemia di Covid-19 che sta disgregando il tessuto socio-economico dei principali stati membri dell’Unione. Tutti gli altri dossier, inclusi quelli fino a poco tempo fa considerati tra i più rilevanti, vengono messi in lista d’attesa. Tra questi, si trova anche la questione migratoria e una riforma delle politiche comunitarie che, anche se momentaneamente considerata secondaria da molti, non può essere accantonata. Ne è un chiaro esempio il veto posto da Ungheria e Polonia sulla recente proposta del bilancio europeo per il periodo 2021-2027. In questo caso, l’oggetto del contendere è il meccanismo relativo all’interruzione dell’erogazione dei fondi europei, inclusi quelli del Recovery Fund, in caso di violazione dello stato di diritto e dei principi democratici fondamentali all’interno del paese destinatario dei fondi sopra citati. Nonostante appaia chiaro che il richiamo del Consiglio Europeo presieduto da Jean Michel faccia riferimento principalmente alle contestate riforme del sistema giudiziario approvate da Orban e Morawiecki, rispettivamente nel 2012 e nel 2018, è innegabile che parte del nuovo meccanismo punti proprio a mitigare le dure politiche anti-migratorie sostenute da Budapest e Varsavia. In tal senso, si può osservare una sovrapposizione tra i diritti fondamentali che Bruxelles esige vengano rispettati, e le sanzioni penali, applicabili, ad esempio, in territorio ungherese, a chiunque assista migranti arrivati in territorio ungherese in maniera irregolare, inclusi gli operatori delle ONG. Nonostante di questi tempi non compaiano sulle prime pagine dei giornali nazionali, le improbabili traversate intraprese da migranti provenienti dal continente africano, e le conseguenti tragedie consumatesi a largo delle coste nordafricane ed europee, non si sono arrestate. Nella notte tra il 27 e il 28 ottobre, 19 migranti iraniani hanno perso la vita nel tentativo di attraversare la manica per approdare sulle coste britanniche. La fatiscente imbarcazione sulla quale navigavano era stata avvistata intorno alle 21:30 del 27 ottobre da dei pescherecci francesi transitanti a poche miglia di distanza da Calais. Nonostante le segnalazioni che si sono susseguite da lì a poco, i soccorsi non sono riusciti ad arrivare in tempo per evitare l’annegamento di 4 persone, una famiglia composta dai genitori e 2 figli, di 5 e 8 anni, mentre i restanti 15 naufraghi sono stati riportati a Calais per essere ricoverati. Di certo non si può parlare di un caso isolato, specialmente osservando il numero di migranti irregolari sbarcati in Gran Bretagna nel corso del 2020, salito oltre quota 7400 unità. Appena una settimana più tardi, 66 rifugiati provenienti da diversi stati del centro-nord Africa sono stati avvistati mentre intenti a raggiungere l’Andalusia, nel mare di Alboran. 14 di questi, tra cui 3 bambini e 4 donne, non sono sopravvissuti al naufragio avvenuto a circa 30 miglia dall’isola di Alboran, punto critico a metà strada tra le coste del Marocco e quelle spagnole. In seguito ad un malfunzionamento del motore dell’imbarcazione, e del conseguente panico generatosi a bordo, il gommone partito dalla cittadina di Bouyafar si è capovolto, rovesciando i 66 a bordo, in mare. Considerando le circostanze disperate in cui verteva la situazione, il conto delle vittime, per quanto tragico, rimane limitato, come sostiene la ONG spagnola Caminando Fronteras, arrivata sul posto. L’efficiente e tempestivo intervento dei soccorritori si deve alla consolidata cooperazione tra la Guardia Costiera Spagnola e quella marocchina, all’interno della quale la prima ha giocato un ruolo fondamentale per il salvataggio dei superstiti, successivamente trasportati di nuovo in Marocco. Poco più di una settimana fa, altri due naufragi, susseguitisi nell’arco di 24 ore, hanno provocato la morte di altre 100 persone, come confermato da Medici Senza Frontiere. Entrambi avvenuti a largo delle coste libiche, il primo si è registrato a poche miglia da Khums, il secondo non lontano dalla città di Sorman. Quest’anno, l’OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) è arrivata a contare fino a 900 vittime complessive causate dai tragici naufragi che hanno avuto luogo nel Mediterraneo. È proprio il capo della missione dell’OIM in Libia, Federico Soda, a esprimere il giudizio più duro sul mancato operato dei governi coinvolti, descritti come «incapaci di intraprendere un’azione decisiva per dispiegare un sistema di ricerca e soccorso quanto mai necessario in quella che è la rotta più mortale al mondo» . Inevitabile che, nel momento in cui si venga a conoscenza di tragedie di questa portata, la memoria non torni indietro alla terribile conta dei decessi registrati nel Mediterraneo tra il 2015 e il 2016, in quella che viene oggi definita come ‘crisi migratoria europea’. Analizzando i numeri menzionati in questo articolo, appare lecito, se non necessario, domandarsi quali miglioramenti siano stati apportati da allora, e se questi ultimi abbiano prodotto un effetto consistente e tangibile. Tra luci e ombre, proprio in virtù di quella crisi migratoria, l’Unione Europea ha fatto significativi passi avanti in materia di regolamentazione comunitaria dei flussi migratori. Tra i più rilevanti ricordiamo: il Piano d’azione dell’UE contro il traffico dei migranti siglato nel 2015; l’Operazione SOPHIA, prima operazione militare di sicurezza marittima europea nel Mediterraneo centrale; la creazione del Centro Europeo per le Migrazioni e il Traffico di esseri umani. D’altro canto, resta vivido nella memoria dei cittadini europei anche il contestato accordo tra l’UE e la Turchia di Erdoğan, simbolo di un’Unione incapace di organizzarsi per far fronte a quella straordinaria emergenza che è stata la crisi migratoria. Una valutazione complessiva di questa serie di iniziative comunitarie risulta complessa ma quanto mai necessaria, in particolare alla luce degli ultimi avvenimenti. Negli ultimi mesi, a Bruxelles si sta valutando la proposta della Commissione relativa ad un nuovo Patto europeo per le migrazioni. Il nuovo accordo si propone di superare il regolamento di Dublino, rivelatosi tanto obsoleto quanto inefficace. Il nuovo piano promosso dal Presidente della Commissione, Ursula Von der Leyen, prevede un meccanismo di rafforzata cooperazione con i paesi di origine e una nuova guardia costiera europea, ingenti investimenti per lo screening dei migranti all’ingresso della frontiera europea, oltre che rimpatri sponsorizzati da quegli stati membri che non hanno intenzione di partecipare alla ridistribuzione dei richiedenti asilo. Un progetto ambizioso che però sembra non trovare il favore degli analisti, i quali si dicono scettici riguardo le possibilità che un accordo simile possa generare consenso nell’UE divisa dalle frizioni interne rispetto ad un tema tanto delicato. In tal senso, il veto di Ungheria e Polonia al bilancio, e di conseguenza al Recovery Fund, non può che lasciar presagire lunghi ed estenuanti mesi di negoziati.
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