a cura di Massimo Spinelli A causa del coinvolgimento diretto dell’Italia nei flussi migratori nel Mediterraneo, in alcuni momenti si corre il rischio di restringere troppo il focus d’analisi di un fenomeno caratterizzato da origini, connotazioni e conseguenze ben più variegate e diffuse di quelle che toccano il nostro paese. Infatti, è fondamentale ricordare che le rotte che portano alla cosiddetta “Fortezza Europa” sono molteplici, e coinvolgono territori che vanno dalla Bulgaria a est, fino alle Isole Azzorre e alle Isole Canarie a ovest. Nell’ultimo anno, proprio queste ultime sono diventate per molti migranti, rifugiati e richiedenti asilo, la porta d’ingresso per il Vecchio Continente, facendo riemergere tutte le inefficienze e le contraddizioni del sistema d’asilo europeo. L’arcipelago delle Canarie non è di certo nuovo ad essere teatro di moti migratori. Proprio come altri territori di raccordo tra Europa e Africa, come le città di Ceuta e Melilla o lo Stretto di Gibilterra, le isole spagnole hanno visto transitare sul loro territorio migliaia di viaggiatori speranzosi di approdare in Europa. Sfortunatamente, i pochi dati ufficiali a disposizione rendono complessa una ricostruzione dei primi fenomeni di massa in questa regione, e le statistiche certificate si basano, come spesso accade in questi casi, sui primi decessi registrati nei tentativi di approdare sulle coste spagnole. Le prime morti si verificarono al largo di Fuerteventura nel 1999 a causa del naufragio di un barcone proveniente dal Marocco con a bordo una dozzina di persone tra giovani uomini e minori. In questo caso, le persone che persero la vita furono nove. I maggiori rischi per chi decide di intraprendere il pericoloso viaggio includono la vasta area da coprire per operazioni di monitoraggio e soccorso da parte delle autorità marittime, e soprattutto la considerevole lunghezza delle traversate. Infatti, nonostante la distanza tra i punti più vicini delle Canarie e il Marocco sia solo di 96 chilometri, i migranti spesso si imbarcano a Dakhla, Marocco, o addirittura in Mauritania. Ciò comporta un percorso che può variare dai 450 agli 800 chilometri in alcuni casi, determinando stime di fatiscenti imbarcazioni scomparse che arrivarono addirittura a sfiorare il 33% nel 2006. Dopo il picco di tentativi di traversata raggiunto intorno al 2006, anche grazie ad una serie di accordi bilaterali mirati alla riduzione dei flussi migratori siglati tra Spagna e i paesi di partenza, le cifre del fenomeno si sono sempre assestate su livelli poco significativi ai fini statistici. Purtroppo però, le vittime di questi moti migratori irregolari sono tornate a crescere vertiginosamente a partire dal 2019, anno nel quale si sono registrate 210 morti in mare, notevolmente in crescita rispetto alle 40 dell’anno precedente, ma pur sempre meno delle 850 registrate nel 2020. Inoltre, l’area di controllo all’interno della quale vengono condotte operazioni di ricerca dei corpi è talmente ampia che solo una ridotta percentuale delle vittime di questi naufragi viene ritrovata in seguito alla tragedia. In questo modo, il dramma che caratterizza queste (vecchie) nuove rotte migratorie si intreccia con il tema dei migranti scomparsi, una situazione che si verifica sempre più spesso nel contesto mediterraneo. Nonostante le difficoltà elencate sopra non contribuiscano a offrire dati realistici utili a descrivere la magnitudine del fenomeno migratorio, l’aumento significativo del numero di tentativi di percorrere questa rotta risulta evidente dai dati parziali collezionati finora. Questo improvviso balzo in avanti delle partenze è dovuto principalmente a due ragioni distinte, accomunate però dalla stessa causa scatenante: la pandemia di COVID-19. La chiusura dei confini in risposta al contagio dilagante da parte degli stati europei, e la crisi economica che ha colpito duramente settori produttivi quali quello agricolo e quello ittico di stati come Marocco, Senegal e Mali, sono sicuramente annoverabili tra le motivazioni che hanno spinto molte più persone a tentare la traversata. Questi dati sembrano trovare ulteriori conferme quando si esamina la composizione della popolazione migrante, costituita principalmente da ex-pescatori ed ex-agricoltori originari del Senegal, del Mali o della Mauritania. Le isole spagnole, che contano su risorse limitate e che si sono dimostrate impreparate ad accogliere un numero elevato di migranti rispetto alle proprie capacità, fanno fronte all’emergenza disponendo campi e alloggi improvvisati organizzati dai militari. Nella prima metà di marzo si sono fatte registrare diverse proteste a Tenerife e a Gran Canaria, nelle quali residenti e migranti hanno unito le forze per convincere le autorità a trasferire gli ospiti dai campi sulle isole, alla Spagna continentale. A parte alcuni casi sporadici, dovuti perlopiù ad emergenze di tipo sanitario, il permesso di trasferimento è stato negato, in quanto il governo spagnolo sostiene che la maggior parte della popolazione migrante non avrebbe diritto a nessuno status che preveda la protezione internazionale. Recentemente, l’Organizzazione Mondiale per le Migrazioni (OIM) ha pubblicato un report dettagliato che si occupa proprio dell’analisi e dell’interpretazione dei dati raccolti lungo questa rotta migratoria. Tra le raccomandazioni principali, rivolte prevalentemente ad attori istituzionali, figurano gli appelli ad un maggior investimento nelle operazioni di pattugliamento e soccorso in mare, oltre che a ad un rinnovato impegno per salvaguardare la dignità e i diritti di coloro che si imbarcano in questi rischiosi viaggi. I timori degli osservatori si basano sulle oggettive difficoltà con le quali le Canarie devono misurarsi, specialmente considerando il rapido numero di sbarchi che si stanno verificando negli ultimi mesi. La Commissaria europea per gli affari interni, Ylva Johansson, ha più volte richiamato l’attenzione delle istituzioni europee sull’emergenza spagnola, recandosi sul posto in visita ufficiale alla fine del 2020, e durante vari interventi al Parlamento europeo dall’inizio di quest’anno. Nonostante queste indicazioni, si fa strada la preoccupazione che l’impasse europeo, particolarmente e tristemente noto in materia di politiche migratorie, possa replicare quell’immobilismo già evidenziato durante simili emergenze in passato. Specialmente in periodi come questo, quando la stagione estiva è alle porte e i tentativi di traversata si intensificano, la paura di trovarsi impreparati a gestire una nuova emergenza migratoria pare quanto mai giustificata.
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