Centro Studi Internazionali per Associazione Nicola Ciardelli Di Enrico Bruni La guerra in Italia Dall’entrata in guerra dell’Italia nel 1940 al 1945 la penisola fu da subito sconvolta da incessanti bombardamenti, intensificatisi a seguito dell’invasione nazista che trasformò di fatto il territorio nazionale in una trincea. L’obbiettivo dei bombardamenti aerei erano gli impianti industriali e bellici italiani, ma le tecnologie militari post I guerra mondiale non erano ancora così sofisticate da permettere azioni chirurgiche contro bersagli strategici. I soldati alleati e quelli dell’Asse non si trovavano pertanto a maneggiare armi di precisione: il radar, infatti, verrà brevettato proprio durante il secondo conflitto mondiale da ingegneri britannici. Pertanto, non saranno soltanto gli obbiettivi strategici a crollare sotto il fuoco delle potenze alleate: interi quartieri, infrastrutture civili, luoghi di culto diverranno ben presto vittime involontarie del conflitto – proprio per questo si parla di conflitto totale in riferimento alla Seconda Guerra Mondiale. Il 31 agosto 1943 i bombardamenti per aprire la strada alle truppe alleate raggiungono la nostra città. Gli obbiettivi sono chiari: fiaccare le infrastrutture di sostentamento della guerra fascista e abbattere il morale dei civili. Il bersaglio sono ancora una volta gli impianti della zona industriale di Porta a Mare, ma ben presto gli aerei alleati arriveranno a colpire tutte le strade fino a Porta Fiorentina. Il bombardamento fu effettuato da 152 apparecchi americani, suddivisi in quattro squadroni, composti da Boeing B17 (le cosiddette Fortezze Volanti) e da B 24 - “Liberator”. Le difese antiaeree italiane non furono in grado di opporre alcuna resistenza, poiché i velivoli operavano ad alta quota. Le prime bombe raggiunsero il suolo alle 13 e nell'arco di 9 minuti caddero circa 1.100 bombe, per un totale di 408 tonnellate di esplosivo. Tutta la parte sud oltre Piazza Vittorio Emanuele II si trasformò in una lugubre distesa di macerie. I dati sottostimati della Prefettura indicarono 952 vittime, 1.000 feriti, 961 case crollate e molte centinaia danneggiate. Precedentemente, nella notte tra il 9 e il 10 luglio l’esercito degli Alleati aveva concluso con successo lo sbarco delle proprie truppe in Sicilia, non trovando una resistenza militare in grado di difendere le coste dell’isola. Il 25 luglio il Gran Consiglio del Fascismo, massimo organo dirigente del Partito Nazionale Fascista e più alto organo costituzionale del Regno d’Italia sotto la dittatura, approvava l’ordine del giorno Dino Grandi con 19 voti favorevoli (Acerbo, Albini, Alfieri, Balella, Bastianini, Bignardi, Bottai, Cianetti – ritira il giorno successivo – Ciano, De Bono, de Marsico, De Stefani, De Vecchi, Federzoni, Gottardi, Grandi, Marinelli, Pareschi, Rossoni), 7 contrari (Biggini, Buffarini-Guidi, Farinacci, Frattari, Galbiati, Polverelli, Scorza, Tringali Casanova) e un astenuto (Suardo). L’odg recitava: “Il Gran Consiglio del Fascismo, riunendosi in queste ore di supremo cimento, volge innanzi tutto il suo pensiero agli eroici combattenti di ogni arma che, fianco a fianco con la gente di Sicilia, in cui più alta risplende l'univoca fede del popolo italiano, rinnovano le nobili tradizioni di strenuo valore e d'indomito spirito di sacrificio delle nostre gloriose Forze Armate. Esaminata la situazione interna e internazionale e la condotta politica e militare della guerra; proclama il dovere sacro per tutti gli italiani di difendere ad ogni costo l'unità, l'indipendenza, la libertà della Patria, i frutti dei sacrifici e degli sforzi di quattro generazioni dal Risorgimento ad oggi, la vita e l'avvenire del popolo italiano; afferma la necessità dell'unione morale e materiale di tutti gli italiani in questa ora grave e decisiva per i destini della Nazione; dichiara che a tale scopo è necessario l'immediato ripristino di tutte le funzioni statali, attribuendo alla Corona, al Gran Consiglio, al Governo, al Parlamento, alle Corporazioni i compiti e le responsabilità stabilite dalle nostre leggi statutarie e costituzionali; invita il Governo a pregare la Maestà del Re, verso il quale si rivolge fedele e fiducioso il cuore di tutta la Nazione, affinché Egli voglia per l'onore e la salvezza della Patria assumere con l'effettivo comando delle Forze Armate di terra, di mare, dell'aria, secondo l'articolo 5 dello Statuto del Regno, quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a Lui attribuiscono e che sono sempre state in tutta la nostra storia nazionale il retaggio glorioso della nostra Augusta Dinastia di Savoia". A seguito di questo voto epocale, Benito Mussolini si recò a Villa Savoia – residenza reale all’interno del più grande complesso di Villa Ada, oggi sede dell’Ambasciata Egiziana – per presentare le proprie dimissioni a Re Vittorio Emanuele III, il quale ne ordinò l’arresto nominando il Maresciallo di Italia Pietro Badoglio Capo del Governo. Sebbene la caduta del regime venne effettivamente interpretata dalla popolazione come la fine della guerra, è noto il proclama radio del Maresciallo Badoglio “la guerra continua al fianco dell’alleato germanico”. Nei quarantacinque giorni che separano l’Italia dall’Armistizio la storia italiana si caratterizza per due aspetti: le forti proteste popolari a favore della pace parallelamente alla riorganizzazione dell’antifascismo politico, e lo stanziamento in Italia dei primi reparti tedeschi contemporaneamente alle trattative segrete del Governo italiano con i comandi degli Alleati. Il 3 settembre 1943 fu così stipulato l’Armistizio tra Regno d’Italia e anglo-americani. Questo verrà reso noto agli ex “alleati germanici” solo cinque giorni dopo, l’8 settembre, giorni preziosi che permetteranno allo Stato Maggiore del Regio Esercito, al Governo tutto e, soprattutto, alla famiglia Savoia di abbandonare la Capitale e di riorganizzarsi a Brindisi, in quello che diverrà il Regno del Sud. Sulla fuga dei vertici dello Stato italiano e sulla non predisposizione di un piano per fronteggiare le truppe tedesche presenti sul territorio nazionale, si sono espressi in molti, avanzando tesi alle volte contrastanti. In un articolo della Rivista Limes, l’analista Gino Birindelli fornisce una lettura politica interessante e originale di quell’avvenimento storico: “L’8 settembre 1943 l’Italia non ha perso l’onore militare, come si tende a far credere. Ha perso l’onore politico. Se ancora oggi soffriamo di una crisi di credibilità internazionale è perché per due volte in un quarto di secolo, nella prima come nella Seconda guerra mondiale, abbiamo abbandonato l’alleato liberamente scelto. Non per colpa o per decisione delle forze armate, che furono mandate a morire in una guerra sbagliata nei tempi e nei modi, ma per l’incapacità e per la mancanza di cultura militare della nostra classe dirigente. Se ancora oggi l’Italia è considerata politicamente inaffidabile, la causa sta nel tradimento dell’8 settembre”. In alcuni territori della penisola e dell’ex “Impero” le truppe italiane tentarono di organizzare da soli una controffensiva alla penetrazione delle truppe tedesche, che, seguendo le disposizioni predisposte dall’Alto Comando tedesco sotto il nome in codice di “Operazione Achse”, dall’8 al 19 settembre puntarono a neutralizzare le forze armate italiane e a occupare l’Italia centro-settentrionale, nonché i territori occupati nel Mar Egeo e nei Balcani. Qui, ricordiamo, tra i tanti episodi, la strage della Divisione Aqui a Cefalonia e la resistenza approntata da reparti autorganizzati del Regio Esercito e di civili a Porta San Paolo. (VIDEO https://www.youtube.com/watch?v=MJH3GwYbV1Q VIDEO 2 https://www.youtube.com/watch?v=SRBzflFtOhE) Nello stesso mese Mussolini fu liberato dal reparto di Otto Skorzeny dalla sua prigionia sul Gran Sasso e il 23esimo giorno dello stesso mese venne istituita la Repubblica Sociale Italiana con capitale nella località di Salò, in Lombardia. La penisola si divise così in due: lo Stato italiano legittimo a sud, lo Stato fantoccio saloino a nord. In questo contesto, la città di Pisa si trovò sopra la Linea Gustav e sotto la Linea Gotica, in regime di occupazione nazifascista: la guerra continua e si trasforma in guerra di Liberazione. Il conflitto in città Nei primi mesi del 1943 le città del nord non erano state il bersaglio principale dell’aereonautica alleata, che si era piuttosto concentrata sulle zone del Meridione per fornire supporto aereo allo sbarco delle truppe in Sicilia. In quei mesi la Soprintendenza pisana lavorava in previsione delle incursioni aeree che avrebbero coinvolto la città con l’avvicinamento del fronte. In Piazza del Duomo venivano ultimati i preparativi per la difesa antiaerea e in aprile il capo delle maestranze Bruno Farnesi organizzava la messa in sicurezza delle ultime opere d’arte rimaste in Duomo. L’Opera del Duomo si caratterizzò in quei giorni come un punto di riferimento per la cittadinanza, stabilendo il 15 maggio che in caso di incursioni aeree la Cattedrale sarebbe stata adibita a rifugio antiaereo, mentre Battistero, Campanile e Camposanto sarebbero stati sigillati. Nei mesi di giugno e luglio gli allarmi aerei si intensificarono, costringendo gli operai della Primaziale a interrompere ad ogni sirena i lavori di tutela del patrimonio artistico. La Soprintendenza, nella persona del soprintendente Vittorio Invernizi, aveva disposto i lavori per la protezione antiaerea dei monumenti della Piazza, complicati però non soltanto dalle dinamiche della guerra, ma anche dalla mancanza di fondi. Dopo il bombardamento di Livorno del 28 maggio fu evidente la necessità di approntare nuove modalità di tutela del patrimonio locale. Fra queste, venne proposta la creazione di squadre di volontari dediti allo spegnimento degli incendi e l’approntamento di depositi d’acqua in prossimità dei monumenti maggiormente minacciati – come già era stato fatto a Firenze; queste due direttive non poterono tuttavia essere esperite. Sotto la direzione di Piero Sanpaolesi, succeduto a Invernizi come Sprintendente il I luglio 1943, i lavori a tutela del patrimonio artistico della città e di Piazza dei Miracoli proseguirono in continuità con quanto precedentemente disposto. A Calci proseguiva lo sfollamento e la manutenzione delle opere d’arte della Cattedrale e nel luglio dello stesso anno il Ministero autorizzò la Soprintendenza a iniziare lo sgombero delle opere conservate nel Museo Civico di Pisa trasferite in provincia di Firenze, nella Palazzina del Campo da Golf dell’Ugolino sulla via Chiantigiana. Il 31 agosto 1943 i bombardamenti per aprire la strada alle truppe alleate nella loro avanzata raggiungono la nostra città. Gli obbiettivi sono chiari: fiaccare le infrastrutture di sostentamento della guerra fascista e abbattere il morale dei civili. In città erano molti a pensare che la zona sarebbe stata risparmiata dai bombardamenti, soprattutto per la presenza dei monumenti della Piazza. Pisa, tuttavia, era al tempo uno snodo strategico particolarmente interessante nel contesto del conflitto: ospitava l’aeroporto, era attraversata dall’Aurelia che la collegava al porto di Livorno, nonché era sede di stabilimenti industriali al servizio delle dinamiche di guerra. Così, alle 13 del 31 agosto, quattro squadroni di apparecchi americani composti da Fortezze Volanti e da B 24 - “Liberator” sorvolano la città, prendendo come bersagli la parte sud-ovest, partendo dal quartiere industriale di Porta a Mare e arrivando fino a Porta Fiorentina. Le difese antiaeree italiane non furono in grado di opporre alcuna resistenza, poiché i velivoli operavano ad alta quota. Le prime bombe raggiunsero il suolo alle 13 e nell'arco di 9 minuti caddero circa 1.100 bombe, per un totale di 400 tonnellate di esplosivo. Sulla Saint Gobin furono lanciate circa 367 bombe; a Porta a Mare gli stabilimenti industriali furono rasi al suolo e l’affollato quartiere operaio riportò un altissimo numero di caduti. Tutta la parte sud oltre Piazza Vittorio Emanuele II si trasformò in una distesa di macerie. I dati sottostimati della Prefettura indicarono 952 vittime, 1.000 feriti, 961 case crollate e molte centinaia danneggiate. Il conflitto imperversò nella nostra città fino al 2 settembre 1944 quando i partigiani scortarono le truppe angloamericane nella città già controllata dal Comitato di Liberazione Nazionale, ma i mesi di occupazione tedesca erano stati carichi di sofferenze per tutta la città. Il 2 settembre 1943 la difesa contraerea italiana, denominata dai pisani “Tosca”, mancando il bersaglio nemico, colpì una colonna della sesta galleria della Torre, che l’anno seguente sarebbe diventata attrazione per l’esercito di liberazione da cui poter estrarre un ironico souvenir della città. Nel settembre del 1943 altri due pesanti bombardamenti, avvenuti rispettivamente nelle date di 23 e 24 settembre, danneggiarono il tetto del Duomo, provocando lievi danni anche alla facciata, e il tetto del Camposanto, danno che mise a serio rischio la conservazione degli affreschi della parete nord-est. In quei bombardamenti le zone residenziali di Borgo Stretto e delle Case Dipinte vennero prese di mira, come, del resto, il patrimonio monumentale ecclesiastico: la chiesa di Sant’Antonio, già danneggiata nel bombardamento del 31 agosto, venne definitivamente distrutta (si salvò soltanto un bassorilievo di una Madonna col Bambino di Andrea Guardi), mentre le chiese del Carmine, di San Paolo a Ripa d’Arno e dei Santi Cosma e Damiano subirono ulteriori danni. Nel mese di ottobre, un’ulteriore incursione aerea colpì la zona di Porta Nuova, provocando l’apertura di una voragine all’interno delle mura medievali all’altezza della Porta del Leone. In quel giorno, la Domus Mazziniana, già colpita nei bombardamenti del mese precedente, venne completamente distrutta; si salvò solo una parte corrispondente alla stanza in cui morì Mazzini, il cui letto fu trasportato in salvo fuori dall’edificio per salvarlo dal crollo. Gli uffici della Soprintendenza avevano intanto lasciato la città, trasferendosi temporaneamente nei locali della Certosa di Calci. Il trasloco delle opere d’arte dal Museo Civico della Città si era dovuto interrompere a causa dei bombardamenti, riprendendo poi nel novembre e interessando successivamente il patrimonio del Museo dell’Opera del Duomo. A complicare le operazioni di trasferimento nei depositi fu anche il cambio di regime dallo Stato italiano agli apparati della Repubblica di Salò: con la nomina a direttore generale Antichità e Belle Arti del Ministero dell'Educazione Nazionale del fascista Carlo Anti, i piani di salvaguardia che prevedevano il trasferimento delle opere in depositi predisposti a Roma con il supporto della Santa Sede vennero liquidati e sostituiti con la soluzione di Firenze. In quello stesso mese le maestranze del Camposanto avevano dato il via a una prima campagna di restauro del tetto dell’edificio, riparando le capriate del tetto e la copertura di lastre piombo. Il 25 dicembre un altro bombardamento salutò le festività natalizie, causando ingenti danni al tetto del Camposanto. Nei due mesi successivi tutti gli sforzi della Primaziale furono volti alla riparazione del tetto, preservando in questo modo gli affreschi alle pareti. Con il nuovo anno, i bombardamenti non cessarono, verificandosi in maniera più strategica e periodica. Questi distrussero la ferrovia e l’aeroporto, devastando la zona della Cittadella e il Centro della città. A seguito dei bombardamenti migliaia di abitanti sfollarono sui monti e nelle campagne, i servizi amministrativi furono ridotti a zero, le officine cessarono la loro produzione e la città, non appena gli eserciti alleati la raggiunsero, si trasformò in una trincea. Il 19 luglio iniziò l’offensiva dell’esercito alleato via terra e i tedeschi ordinarono di minare i ponti e i lungarni per rallentare l’avanzata. Così, a nord dell’Arno si assestarono i tedeschi supportati dalle milizie repubblichine, mentre da sud gli alleati “cannonavano” le difese tedesche stanziate sui lungarni. In quell’ultima estate di guerra i danni provocati dalla guerra fascista erano stati ingenti: in giugno tra bombe e mine tedesche la cittadella era stata pesantemente danneggiata, mentre Palazzo Pretorio con la sua torre dell’orologio e vaste zone dei lungarni con i loro storici ponti erano state rase al suolo. Non si trattò soltanto di perdite in numeri di civili, ma di un vero e proprio stravolgimento del disegno urbanistico della città che alterò per sempre la sua immagine ottocentesca. L’incendio del Camposanto A luglio si verificò quella che fu la vera e propria tragedia per il patrimonio storico artistico della nostra città e non solo: il 27 luglio durante un bombardamento di artiglieria proveniente da mezzogiorno, venne esploso un colpo che raggiunse il tetto del Camposanto Monumentale provocando un incendio di alcune capriate. Le fiamme che divamparono fusero le lamine di piombo che formavano il tetto: un evento simile si era già verificato nel 1595, quando durante i lavori di ristrutturazione una piccola fiamma usata dagli operai provocò l’incendio di gran parte del tetto della Cattedrale, danneggiando così la struttura e gli arredi medievali. Il danno al Camposanto era di portata straordinaria. Nel corso dei secoli questo monumento aveva assunto una fama e un valore superiore a tutti gli altri monumenti della piazza: considerato una sorta di Pantheon cittadino, avendo accolto nel corso dei secoli le sepolture degli esponenti più illustri della città, a partire dal 1700 era divenuto una delle tappe del cosiddetto gran tour per gli straordinari affreschi che adornavano le pareti delle gallerie. Camposanto dei grandi della città in origine, poi vero e proprio museo arricchito dagli acquisti voluti dal suo conservatore nominato nei primi dell’800, Carlo Lasinio, che in quegli anni si adoperò per traferire in questo luogo monumenti antichi ed opere d’arte provenienti da altre chiese di Pisa e dal territorio. Chiaramente non era volontà degli Americani quella di colpire monumenti tanto importanti quanto quelli di Piazza dei Miracoli; tuttavia, erano già stati fatti vari piani nel caso in cui le ipotesi che vedevano la presenza di un comando tedesco negli edifici della Piazza si fossero rivelate vere. L’obbiettivo di quei colpi di artiglieria leggera era una batteria tedesca posta alle spalle di Piazza del Duomo in via Contessa Matilde che, purtroppo, venne mancata in quella notte di fine luglio. Fu così che il 27 luglio, i colpi di artiglieria statunitensi arrivarono sul tetto del Camposanto Monumentale, provocando un incendio che non fu possibile arrestare – responsabilità anche da imputare ai tedeschi di stanza in città che si rifiutarono di aiutare i cittadini a placare le fiamme in una fase in cui la città era priva d’acqua. Il calore sprigionato dall’incendio della copertura del tetto provocò il rigonfiamento degli intonaci dipinti degli affreschi che rigonfiandosi si distaccarono in parte dal muro. Nel giro di una notte uno dei più imponenti esempi di architettura medievale si trasformò nell’ombra di se stesso. In quei mesi di caldo estivo le travi lignee del tetto erano particolarmente secche e per questo fu facile per il fuoco progredire di trave in trave molto rapidamente. Bruciando le travi, il piombo che le rivestiva, liquefacendosi, iniziò a colare sugli affreschi e sui sarcofagi conservati all’interno delle gallerie, distendendosi poi sul pavimento marmoreo a mo’ di manto dallo spessore di qualche millimetro. L’azione del capitano Deane Keller e del gruppo dei Monuments Man Nel corso dei primi due anni di guerra i governi delle nazioni belligeranti stavano assumendo coscienza della natura dei danni della guerra nei confronti del proprio capitale storico culturale. Negli Stati Uniti, gruppi di privati cittadini e Organizzazioni Non Governative si mobilitarono già dai primi tempi del 1943 per la creazione di un programma di salvaguardia del patrimonio artistico europeo. A seguito di una forte crescita di un sentimento internazionale in termini di protezione e con l’intento di migliorare la propria immagine all’estero, il Presidente Roosvelt autorizzò l’istituzione di una commissione al fine di salvaguardare l’arte nei territori occupati dagli Alleati. La commissione prese il nome di American Commission for the Protection and Salvage of Artistic and Historic Monuments in War Areas, conosciuta anche come Second Roberts Commission dal nome del suo presidente, Owen Roberts, Giudice della Corte Suprema, ed operò a fianco dell’esercito statunitense fino al 1946. Poco dopo l’istituzione della Roberts Commission, venne affidato al capitano Deane Keller, professore di Belle Arti all’Università di Yale, l’importante incarico di coordinare il distaccamento italiano della task force Monuments, Fine Arts and Archives, i cosiddetti Monuments Men. Il gruppo dei Monuments Men operò fino al 1951: composto da circa 345 soldati tra uomini e donne provenienti da quattordici paesi diversi, aveva il compito di proteggere i beni culturali e le opere d’arte nelle zone di guerra. Il 2 settembre 1944, il gruppo dei Monuments Men entrò a Pisa insieme agli Alleati. In una prima perlustrazione dei luoghi più importanti della città, il capitano Keller rinvenne tre mine piazzate dai tedeschi nel Palazzo dell’Archivio di Stato. Se queste fossero esplose avrebbero provocato, oltre alla devastazione dello storico edificio, la distruzione di importanti documenti in esso conservati. Nei giorni successivi al 2 settembre il capitano Keller si dedicò completamente all’organizzazione dei soccorsi e degli interventi di recupero del Camposanto Monumentale e del Palazzo dell’Università, i due monumenti maggiormente danneggiati. Era volontà del comando americano organizzare immediatamente un primo intervento di protezione e recupero di quei monumenti, nonostante poco più avanti imperversasse ancora la battaglia. Keller riunì velocemente una squadra di lavoro di cui primo collaboratore fu il Sovrintendente di Pisa dott. Sanpaolesi che, sebbene accusato di collaborazionismo col regime nazisfascista, fu indicato dallo stesso Keller come una figura necessaria di consulenza nella prima fase degli interventi. A questo primo nucleo di periti tecnici si affiancarono oltre ai genieri americani, un gruppo di cooperatori italiani e volontari civili, grazie ai quali l’obbiettivo di messa in sicurezza del perimetro del Camposanto fu raggiunto nel giro di pochi giorni. I lavori partirono dando priorità alla ricostruzione di una copertura in cartoni catramati necessaria a salvaguardare dall’arrivo della stagione autunnale quanto restava degli affreschi, ma questa soluzione si rivelò ben presto non sufficiente e così si propose di realizzare un nuovo tetto con materiali più consistenti. Il reperimento di questi materiali non fu semplice: in città la domanda per materiali edili si era notevolmente alzata a seguito delle necessità della ricostruzione e Keller dovette ricorrere a un’azione di forza. Venuto a conoscenza della presenza di un carico di legname nel porto di Livorno destinato all’uso bellico, ne ordinò la requisizione e lo fece portare in piazza del duomo, innalzando così una copertura con la collaborazione del capo delle maestranze dell’Opera, Bruno Farnesi. Ma l’impegno di Keller non si concluse qui: chiamando a Pisa i massimi specialisti in restauro da tutta la penisola liberata, permise così di dare il via agli interventi di pulitura della pavimentazione, dei sarcofagi e di salvaguardia degli affreschi. Già nell’ottobre di quell’anno, a poco più di un mese dalla liberazione di Pisa, la prima fase del recupero era stata completata e il Camposanto poteva dirsi sostanzialmente salvo. Deane Keller tornò a Pisa nella primavera del 1965: tornò non soltanto per rivedere quel monumento che tanto si era impegnato a salvare dalla catastrofe e a cui ormai si sentiva indissolubilmente legato, ma fu l’occasione per vedere ufficialmente riconosciuto il proprio lavoro dalle istituzioni cittadine quando l’Opera della Primaziale gli consegnò la medaglia d’onore della città di Pisa con la motivazione “per il contributo essenziale dato alla ricostruzione del Camposanto”. A otto anni dalla sua morte, al termine di un lungo iter burocratico, la salma del professor Deane Keller è stata tumulata il 23 maggio del 2000 in Camposanto, più precisamente in quell’ala nord da dove nel ’44 scaturirono le fiamme. Una testimonianza letteralmente impressa nel marmo di quanto l’impegno profuso per la ricostruzione di un patrimonio storico artistico mondiale sia rimasta indissolubilmente impressa nella memoria collettiva della città di Pisa. Bibliografia di Riferimento:
a cura di Edoardo Tagliabue La Cina sta osservando attentamente quanto sta succedendo in Europa orientale, con l’insorgere del conflitto tra Ucraina e Russia. Da diversi anni la Russia e la Cina stanno intensificano i loro sforzi per ridurre il potere americano, mentre gli Stati Uniti affrontano ora la sfida più complicata per il loro primato globale dalla dissoluzione dell'Unione Sovietica. Il destino dell'Ucraina è parte integrante di questa rinnovata competizione tra grandi potenze. La gestione ambigua degli Stati Uniti nel pieno sostegno militare all’Ucraina, dal rifiuto di istituire una “no-fly-zone”, alla bocciatura dell’invio dei jet polacchi MIG-29 all’aviazione ucraina per conto della NATO, potrebbe fornire delle indicazioni alla Cina su quanto Washington effettivamente difenderebbe Taiwan da un eventuale invasione cinese. Questo rende la crisi ucraina un banco di prova cruciale del potere globale degli Stati Uniti: prima la narrazione del concetto di America First adottata da Donald Trump nelle questioni estere e poi il ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan dell’amministrazione Biden, hanno alimentato la percezione a livello internazionale che gli Stati Uniti si stiano dirigendo verso il declino della propria forza globale; considerata una nazione troppo divisa al suo interno e stanca di sostenere i suoi impegni oltre oceano. Questa narrazione, sembra aver preso piede all'interno della leadership cinese ed è diventata un tema regolare della propaganda ufficiale di Stato. Lo Stretto di Taiwan, che separa l'isola dalla Cina, è stato — ed è tutt’ora — un potenziale punto di conflitto, dato l’aumento delle tensioni negli ultimi due anni. Pechino invade regolarmente, con propri aerei militari (39 nel mese di gennaio scorso) lo spazio aereo di Taiwan, tenendo esercitazioni militari pericolosamente vicine all’isola in un apparente tentativo di intimidire il governo democratico di Taipei. Xi Jinping afferma ripetutamente che un’eventuale unificazione tra Pechino e Taipei debba avvenire in modo pacifico, ma la posizione aggressiva ha sollevato il timore a Taiwan che il leader cinese stia meditando un’invasione per reclamare la provincia ribelle. La Cina sostiene che Taiwan stia andando sempre di più verso una direzione dannosa per gli interessi nazionali di Pechino; proprio come l'Ucraina si è allontanata sempre più dall'orbita di influenza di Mosca. La presidente di Taiwan, Tsai Ing-wen, da quando è stata eletta nel 2016 ha cercato di ridurre la dipendenza dell'economia dalla Cina, rafforzando anche i legami con gli Stati Uniti e altri Paesi in chiave anti-cinese. Anche gli Stati Uniti hanno cercato di intensificare sempre di più i legami tra Washington e Taipei: ufficialmente, gli Stati Uniti sostengono ancora di linea della “One China Policy” e non riconoscono formalmente il governo di Taipei. Tuttavia, nel 2020 l’amministrazione Trump ha inviato un membro del gabinetto a Taipei: si trattava del funzionario americano di rango più elevato inviato da oltre quarant’anni. Lo scorso dicembre, inoltre, Biden ha invitato Taiwan al Summit for Democracy per rinnovare le democrazie nel mondo e affrontare le derive autoritarie. La politica di lunga data di “ambiguità strategica” su questo punto è progettata come deterrente all'azione militare cinese. Pechino dovrebbe supporre che invadere Taiwan potrebbe coinvolgerla in una guerra con gli Stati Uniti, poiché Washington ha probabilmente più ragioni e interessi a combattere per Taiwan che per l’Ucraina: il sistema traballante delle alleanze in Asia-Pacifico, così come le catene di approvvigionamento cruciali per i semiconduttori e altri componenti high-tech, possono indubbiamente coinvolgere gli interessi nazionali americani. Ely Rather, assistente segretario alla Difesa per gli affari di sicurezza nell’Indo-Pacifico, ha testimoniato in seno al Comitato per le relazioni estere del Senato che Taiwan fa parte di una rete di alleati e partner per gli Stati Uniti che è fondamentale per la sicurezza della regione e critica per la difesa degli interessi vitali degli USA nell’Indo-Pacifico. La NATO non ha un equivalente in Asia e sotto certi aspetti questo vuoto può dare a Washington una maggiore libertà d’azione, e nel caso di Taiwan, gli Stati Uniti potrebbero trovare maggiore sostegno dagli alleati regionali per una posizione più forte. Per esempio, lo scorso luglio, Tarō Asō (allora vice primo ministro del Giappone) ha dichiarato che il suo governo si sarebbe unito agli Stati Uniti nella difesa di Taiwan qualora l'isola fosse stata attaccata dalla Cina. Risulta chiaro, quindi, che per il Giappone (l’altra potenza dell'Asia orientale) la sicurezza di Taiwan è vista come un interesse nazionale e anche questa posizione giapponese potrebbe fungere da deterrente per Pechino. Inoltre, personalità nel settore della difesa, sostengono che Pechino e Mosca potrebbero coordinare i loro attacchi; o meglio, la Cina potrebbe approfittare della distrazione di una guerra europea per fare pressione militare su Taiwan. Alla luce di tutto questo, Xi Jinping esaminerà la situazione in Ucraina per ottenere informazioni utili su quali strumenti Biden impiegherà per fare pressione sulla Russia, quanto sia disposto a rinunciare ad un potenziale compromesso con Putin e quanto efficacemente lavori con gli alleati in Europa. Il leader cinese cercherà quindi di misurare il livello di determinazione americana. Xi e gli altri leader che si oppongono agli interessi degli Stati Uniti possono trarre conclusioni su come l’amministrazione Biden stia operando e soprattutto su come gli Stati Uniti gestiscano le crisi militari a livello internazionale. Ciò che si può dire con maggiore certezza è che la questione ucraina e Taiwan mettono in risalto l’instabilità di potenza egemone del sistema internazionale da parte degli Stati Uniti. Sistema che vista l’invasione russa e un’ipotetica invasione cinese potrebbe disfare le tese reti di alleanze che sostengono l'ordine mondiale americano e inaugurare una nuova era di conflitto e instabilità globale.
Di Giuseppe Marcone, Osservatorio sull’Unione europea
L’Unione europea è pronta a riabbracciare l’energia nucleare? Difficile, ma non impossibile. Nonostante l’opposizione di alcuni attori internazionali e innegabili difficoltà tecniche, infatti, investire nel nucleare civile potrebbe rivelarsi utile sia a livello ambientale che geopolitico. Per affrontare efficacemente la sfida della transizione ecologica, l’Unione europea ha ideato un sistema di classificazione delle attività economiche giudicate sostenibili: la “tassonomia Ue”. Il 2 febbraio 2022 la Commissione ha presentato un atto delegato volto ad includere anche l’energia nucleare in questo sistema, che si prefigge l’obiettivo di aiutare le imprese, gli investitori e la classe politica ad agire nel rispetto della tutela ambientale. La decisione di inserire l’utilizzo di questa energia tra le attività accettate nella tassonomia, seppur con dei vincoli stringenti, ha però alimentato le proteste da parte di diversi attori internazionali. Greenpeace e WWF sono tra le maggiori organizzazioni che si oppongono fermamente al via libera della Commissione al nucleare[1], ponendo l’accento specialmente sull’annosa questione dello smaltimento delle scorie, ma questo dissenso è condiviso anche da alcuni Stati membri dell’Ue. La Ministra austriaca per l’ambiente, Leonore Gewessler, ha dichiarato l’intenzione di presentare denuncia presso la Corte di Giustizia Europea non appena questo atto di “greenwashing” sarà votato in Parlamento, con l’approvazione del Ministro dell’energia del Lussemburgo Claude Turmes, convinto a ricorrere alle vie legali in sinergia con il governo austriaco. Sempre ostili, ma meno minacciose, sono state invece le reazioni di Spagna e Germania, che si mantengono contrarie pur senza minacciare di ricorrere a procedimenti legali[2]. Le perplessità sull’utilizzo dell’energia nucleare restano effettivamente numerose: svolto attraverso un’analisi sui potenziali effetti nocivi delle attività nucleari, il rapporto del Joint Research Centre dell’Unione Europea (JRC)[3] esprime notevole incertezza, confermando in parte i dubbi già sollevati al riguardo dal TEG, il gruppo di 35 esperti in finanza sostenibile costituito dalla Commissione nel 2018. Anche lo SCHEER[4] sottolinea la necessità di più approfonditi studi sugli effetti a lungo termine dei rifiuti radioattivi. Inoltre, vi sono inevitabili difficoltà nel processo di realizzazione di nuovi impianti nucleari, per i quali è necessario un considerevole investimento iniziale a fronte di tempi di costruzione particolarmente lunghi, facendo aumentare i rischi di ritardi e crescite inaspettate dei costi[5]. Tuttavia, la tassonomia non obbliga ad investire nelle attività in essa indicate e il nucleare potrebbe essere semplicemente un’energia di transizione, visto che il documento verrà sottoposto a rivisitazioni triennali per adeguarsi alle migliori tecnologie disponibili. Come detto chiaramente dalla Commissaria Mairead McGuinness, l’obiettivo principale resta la neutralità climatica e l’abbandono del carbone, e le scelte volte a perseguire questo obiettivo si basano su dati scientifici. Infatti, nonostante le incertezze, l’energia nucleare ha un’altissima efficienza e i rapporti JRC e SCHEER sono comunque concordi nel ritenerla utile per la transizione ecologica, paragonandola alle fonti rinnovabili in termini di emissioni di CO2. Inoltre, la percezione distorta dei rischi del nucleare è spesso alimentata dalla disinformazione. Esemplari sono infatti i recenti allarmismi riguardo alla centrale di Zaporizhzhia, che non ha mai rischiato di trasformarsi in una nuova Chernobyl[6], così come le narrazioni imprecise del disastro di Fukushima del 2011, riguardo al quale lo UNSCEAR[7] e l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica hanno ribadito la pressoché totale assenza di vittime legate al rilascio di materiale radioattivo dalla centrale Dai-ichi[8]. Ad ogni modo, l’impiego del nucleare non deve essere inteso come alternativo alle rinnovabili, bensì di supporto ad esse. Oggi queste fonti presentano ancora un problema di aleatorietà, ovvero l’impossibilità di fornire flussi energetici continui e affidabili, al quale le riserve nucleari potrebbero sopperire in maniera molto più sostenibile dei combustibili fossili. Un uso congiunto di nucleare e rinnovabili sarebbe oltretutto auspicabile in chiave strategica, poiché entrambe le fonti di energia richiedono ingenti quantità di materie prime: per l’attuale processo di fissione nucleare è infatti necessario l’uranio, un minerale esportato soprattutto da Canada, Australia e largamente dal Kazakistan[9], paese potenzialmente problematico considerati gli stretti legami con la Russia; per molti sistemi di energia rinnovabile, invece, c’è bisogno di determinate terre rare, ma anche di altri elementi chiave come il silicio per i pannelli fotovoltaici o il litio per le batterie, sui quali però la Cina ha un netto predominio in termini di estrazione e produzione[10]. Contare su poche fonti d’energia potrebbe quindi costringere l’Europa ad avere un esiguo numero di fornitori, e mai come adesso sembra lampante il pericolo di dipendere fortemente da un esportatore, specialmente quando si tratta di paesi con i quali vi sono complicate relazioni diplomatiche e commerciali. Lo sviluppo del nucleare potrebbe dunque contribuire alla diversificazione energetica e favorire una minore dipendenza europea dal gas russo, un problema senz'altro esacerbato dalla guerra in Ucraina, e che la Commissione prevede di affrontare anche tramite il recente piano REPowerEU[11]. A livello nazionale, molti Stati hanno già scelto il nucleare come strumento d’indipendenza. Tra questi la Finlandia, che dopo lunghe attese ha collegato il terzo reattore della centrale di Olkiluoto alla corrente nazionale[12], e soprattutto la Francia, dove Emmanuel Macron ha annunciato un grande rilancio energetico tramite il prolungamento dell’operatività delle centrali giudicate affidabili e la costruzione di almeno sei nuovi reattori entro il 2035[13]. Oltre ad alcuni paesi Ue, seguono questa direzione non solo il governo Biden, con forti investimenti per la ricerca nucleare e per il mantenimento delle centrali statunitensi già esistenti nell’ambito della Bipartisan Infrastructure Law[14], ma anche altri grandi attori internazionali: la Russia prevede di stanziare circa 100 miliardi di rubli per la costruzione di nuovi impianti nucleari[15], mentre la Cina pianifica enormi investimenti per la creazione di oltre 150 nuove centrali nei prossimi 15 anni[16]. In Europa, però, molti Stati rimangono scettici e sembrano intraprendere percorsi opposti. L’Italia ha da tempo voltato le spalle al nucleare e, nonostante l’apertura del Ministro Cingolani al tema, una sostanziale diffidenza permane tra gli italiani, soprattutto per quanto riguarda i depositi di materiale radioattivo[17]. Tentenna anche la Germania: il processo di smantellamento del nucleare tedesco è stato avviato nel 2001 dall’ex cancelliere Schröder (presto membro del consiglio di amministrazione del gigante russo Gazprom) e velocizzato nell’era Merkel in seguito all’incidente di Fukushima, ma il suo compimento non appare più scontato. Si discute infatti di un possibile rinvio dello spegnimento dei reattori nucleari poiché, anche per compensare le oscillazioni delle fonti rinnovabili, la Germania è attualmente uno dei maggiori paesi al mondo per consumo annuale di carbone[18]. La tassonomia, ora sotto scrutinio del Parlamento europeo, potrà aiutare nella scelta di futuri investimenti e contribuire ad un maggiore coordinamento delle politiche energetiche, tuttavia rimane uno strumento limitato: nonostante il grande segnale d’apertura, va ribadito infatti che questo documento sarà sottoposto ad aggiornamenti triennali e non stabilisce obblighi per gli Stati membri, che mantengono il diritto di scelta riguardo alle proprie fonti energetiche. L’energia nucleare ha ampi margini di miglioramento a livello ambientale, ciò nonostante è efficiente e può avere grande rilevanza strategica all’interno di un mix che favorisca le fonti rinnovabili. Un rinnovato approccio al nucleare potrebbe dunque rivelarsi importante per una maggiore indipendenza energetica dell’Europa. [1] Greenpeace European Unit, Press release, Taxonomy: inclusion of nuclear and gas is “attempted robbery” – Greenpeace, 2/2/2022, https://www.greenpeace.org/eu-unit/issues/climate-energy/46036/taxonomy-nuclear-gas-attempted-robbery/ [2] WWF press release, EU concludes Act with fossil gas and nuclear as ‘green’ investment, 2/2/2022, https://wwf.panda.org/wwf_news/press_releases/?4997941/EU-concludes-act-with-fossil-gas-and-nuclear [3] JRC Publication Repository, Technical assessment of nuclear energy with respect to the ‘do no significant harm’ criteria of Regulation (EU) 2020/852 (‘Taxonomy Regulation’), 2021, https://publications.jrc.ec.europa.eu/repository/handle/JRC125953 [4] Scientific Committee on Health, Environmental and Emerging Risks (SCHEER), SCHEER review of the JRC report on Technical assessment of nuclear energy with respect to the ‘do no significant harm’ criteria of Regulation (EU) 2020/852 (‘Taxonomy Regulation’), 2021, https://ec.europa.eu/info/sites/default/files/business_economy_euro/banking_and_finance/documents/210629-nuclear-energy-jrc-review-scheer-report_en.pdf [5] Terenghi, Elisa, Icona Clima, Energia Nucleare: pro e contro. Emissioni, costi e tempi, 2021, https://www.iconaclima.it/energia/energia-nucleare-pro-e-contro-parte-1-emissioni-costi-e-tempi/ [6] Romano, Luca, Geopop, Centrale nucleare Zaporizhzhya: in Ucraina c’è stato davvero il rischio di una nuova Chernobyl?, 5/3/2022, https://www.geopop.it/centrale-nucleare-zaporizhzhia-in-ucraina-ce-stato-davvero-il-rischio-di-una-nuova-chernobyl/ [7] United Nations, Report of the United Nations Scientific Committee on the Effects of Atomic Radiation (UNSCEAR), Sixty-seventh and sixty-eighth sessions (2–6/11/2020 and 21–25/6/2021), https://www.unscear.org/unscear/en/fukushima.html [8] International Atomic Energy Agency (IAEA), The Fukushima Accident – Report by the Director General, 2015, https://www-pub.iaea.org/mtcd/publications/pdf/pub1710-reportbythedg-web.pdf [9] World Nuclear Association, World Uranium Mining Production, 2021, https://www.world-nuclear.org/information-library/nuclear-fuel-cycle/mining-of-uranium/world-uranium-mining-production.aspx [10] Chang, Felix K., Foreign Policy Research Institute, China’s Rare Earth Metals Consolidation and Market Power, 2/3/2022, https://www.fpri.org/article/2022/03/chinas-rare-earth-metals-consolidation-and-market-power/ [11] European Commission, REPowerEU: Joint European action for more affordable, secure and sustainable energy, 8/3/2022, https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/ip_22_1511 [12] O’Byrne Mulligan, Euan, The Guardian, Finland opens nuclear power plant amid concerns of European energy war, 12/3/2022, https://www.theguardian.com/environment/2022/mar/12/finland-opens-nuclear-power-plant-amid-concerns-of-europe-energy-war [13] Wajsbrot, Sharon, Les Echos, Emmanuel Macron veut faire renaître le nucléaire français, 10/2/2022, https://www.lesechos.fr/industrie-services/energie-environnement/nucleaire-macron-annonce-la-construction-de-six-nouveaux-epr-1386101 [14] US Department of Energy, Office of Nuclear Energy, 10 Big Wins for Nuclear Energy in 2021, 2021, https://www.energy.gov/ne/articles/10-big-wins-nuclear-energy-2021 [15] Nuclear Engineering International, NEI Magazine, Russian government allocates about RUB100 billion for new nuclear projects, 15/2/2022, https://www.neimagazine.com/news/newsrussian-government-allocates-about-rub100-billion-for-new-nuclear-projects-9481402/ [16] Van Boom, Daniel, CNET, What the US could learn from China's nuclear power, 2021, https://www.cnet.com/science/why-the-us-should-learn-from-chinas-nuclear-power-expansion/ [17] L’Italia è uno dei pochi paesi a non avere ancora un deposito nazionale, che garantirebbe maggiore sicurezza nella gestione dei rifiuti radioattivi – Avvantaggiato, Gianni, Il Giornale dell’Ambiente, Il Deposito Nazionale delle scorie nucleari: si farà mai? 17/3/2022, https://ilgiornaledellambiente.it/deposito-nazionale-scorie-nucleari/ [18] Deutsche Welle, Coal and fossil fuel share of German electricity rises in 3Q, 2021, https://www.dw.com/en/coal-and-fossil-fuel-share-of-german-electricity-rises-in-3q/a-60114010 a cura di Angela D’Ambrosio Il 24 febbraio 2022, la Russia ha invaso l’Ucraina dando vita ad un conflitto dalle caratteristiche apparentemente tutte europee; un conflitto che prosegue ormai da oltre un mese, arrecando danni devastanti alla popolazione e, nel breve e lungo periodo, all’economia non solo europea, ma internazionale. Con l’avvento di tale inatteso conflitto, l’Europa si trova ad affrontare, nuovamente, una crisi migratoria di proporzioni enormi, ma stavolta qualcosa sembra sia cambiato. Nel 2015 l’Europa faceva fronte ad un arrivo massiccio di profughi siriani, anche questi ultimi in fuga da un tremendo conflitto che lacerava il loro paese. Il Vecchio Continente aveva allora mostrato, sino ad oggi, di essere impreparato di fronte a simili crisi, di avere ancora bisogno di lavorare duramente su una politica migratoria comunitaria, che regolarizzi la migrazione a livello europeo, che garantisca protezione a chi la merita e che faciliti un processo di integrazione ad oggi quasi inesistente. Ma cosa cambia, allora, nella risposta che l’Europa fornisce oggi ai profughi ucraini? La prima risposta a questa domanda, la più semplice ed anche la più chiara, è che l’Europa sembra oggi pronta ad accogliere i profughi provenienti da un paese in guerra. I paesi europei, non solo quelli parte dell’Unione Europea, hanno mostrato sin dal principio del conflitto una solidarietà encomiabile, pronti ad accogliere, a diminuire i controlli sui documenti, ad abolire gli obblighi di visto, a fornire alloggi e pasti ai profughi ucraini. Il 2 marzo 2022, la Commissione europea ha proposto di attivare la direttiva sulla protezione temporanea, direttiva che garantisce ai cittadini ucraini rifugiatisi nei diversi paesi europei uno status di protezione temporanea nei territori dell’Unione Europea, il permesso di soggiorno, l’accesso all’educazione e al lavoro; la direttiva è applicabile anche ai cittadini stranieri e agli apolidi residenti in Ucraina che riscontrano difficoltà nel processo di ritorno verso il loro paese d’origine, così come ai richiedenti asilo o ai beneficiari di protezione internazionale. Persino paesi come la Polonia o l’Ungheria, generalmente contrari all’accoglienza di migranti, hanno temporaneamente “abbattuto” le proprie mura per accogliere i profughi ucraini. In questa macchina di solidarietà, per ora abbastanza efficiente, messasi in moto dall’inizio dell’invasione russa nel territorio ucraino, c’è però una falla. Una falla che fa luce sul tema tra i più discussi in Europa: la migrazione, in particolare quella di cittadini non europei. Con il via al grande esodo dall’Ucraina verso i paesi europei limitrofi, una “nuova narrazione” si è fatta spazio tra i racconti di fuga dalla guerra: quella dei cosiddetti “profughi di serie b”, ovvero quei profughi, per lo più africani, ma anche indiani e mediorientali, che sono stati respinti al confine ucraino, e che sono riusciti (a volte) ad attraversare quel confine con estrema difficoltà e lentezza. Alla luce di questi accadimenti, verrebbe allora da riflettere su quel cambiamento di cui sopra. Forse è lecito pensare che non sia vero che l’Europa è pronta ad accogliere tutti i migranti, non ancora almeno. La guerra in Ucraina è senza ombra di dubbio un conflitto più “sentito” dalle popolazioni europee: molti giornalisti e politici, europei e non, hanno presto sottolineato, con frasi più o meno corrette e piacevoli, la differenza tra i profughi provenienti da questo conflitto, combattuto “in casa”, e gli altri conflitti, combattuti in terre lontane, i cui abitanti hanno una pelle dal colore diverso, una storia diversa, una cultura diversa. In un articolo di Macromega, Ingrid Colanicchia parla di un processo di “costruzione selettiva” (e di conseguenza anche di “commozione selettiva”), che è quel processo secondo il quale tutto ciò che accade lontano da noi, da ciò che normalmente riconosciamo come simile o vicino alla nostra realtà, cultura, religione, è “altro”. E quando qualcosa accade all' altro allora, non ci riguarda più, magari ci interessa, ma è lontano, non possiamo farci molto. É quello che avviene con i conflitti mediorientali, africani e asiatici. É quello che accade con i migranti in mare, alle porte dei nostri paesi, spesso respinti. Il sociologo e ricercatore delle migrazioni austriaco Gerald Knaus dice “La volontà di accogliere dipende sempre dalle storie di chi arriva”, e il conflitto a cui stiamo assistendo in questi giorni ne è un esempio lampante. Perché due persone, una ucraina, l’altra nigeriana, che fuggono dallo stesso paese in guerra, ricevono un trattamento diverso quando devono attraversare il confine ucraino? Perché i migranti che scappano da una guerra lontana non hanno diritto ad una protezione temporanea? Questi, come tanti altri quesiti che scaturiscono da tali eventi, sono spesso senza una risposta univoca o semplice. Certamente, la cultura in cui siamo immersi ci ha abituato a determinate dinamiche che spesso non ci fanno nemmeno più chiedere che cosa abbia vissuto o da cosa stia scappando il migrante che rischia la vita nel Mediterraneo. Allo stesso modo l’informazione, componente fondamentale della nostra cultura, gioca il suo ruolo chiave nel descrivere più o meno nei dettagli certi eventi piuttosto che altri, dandogli così un’importanza maggiore o minore. Cosa ci dice allora questo processo di “costruzione selettiva” di cui siamo i protagonisti? Il conflitto russo-ucraino ha il potere, inconscio, di presentarci due facce della stessa Europa: ci presenta da un lato un’Europa compatta, pronta a rispondere alle emergenze di un popolo vicino, amico. Ci mostra l’agenzia Frontex pronta a collaborare con i governi per sostenere i migranti ucraini, non per respingerli. Dall’altro, ci apre gli occhi, nuovamente, sull’ineguaglianza esistente in tema di migrazioni e diritti, e su narrazioni come quella dei “migranti di serie b”; su un’Europa che ancora non è cambiata, paradossalmente statica. La speranza, allora, è che dalle atrocità di un conflitto europeo, così stravolgente e tragico, si riesca a trarre una lezione fondamentale, e che l’Europa arrivi finalmente a definire un meccanismo di gestione dei flussi migratori equo e giusto. La speranza, è che non si guardi più al diverso che scappa da una guerra lontana come “l’altro”, ma come quello che è: una persona che merita solidarietà ed aiuto a prescindere dalla sua provenienza e, soprattutto, dal colore della sua pelle.
a cura di Emanuele Volpini Dal 1948, i rapporti tra Israele e il mondo arabo non hanno visto particolari segnali di miglioramento, se non in rare occasioni. Il primo episodio in cui sono stati istituiti rapporti ufficiali tra Gerusalemme e uno dei paesi del Medio Oriente è stato nel 1979. L’allora presidente egiziano Sadat fece ciò che non era mai accaduto nei trent’anni precedenti: riconoscere l’esistenza stessa di Israele. Lo fece andando in visita al parlamento israeliano - Knesset - e chiedendo una pace unilaterale per porre fine a tre decenni di lotte tra il suo popolo e gli israeliani. Le conseguenze per l’Egitto furono il suo isolamento diplomatico e l’espulsione dalla Lega Araba fino al 1989, con spostamento della sede operativa da Il Cairo a Tunisi. Da quel momento, nessun altro paese del mondo arabo ha mai più intrapreso strade di riconciliazione con Israele (eccezion fatta per la Giordania). Questo fino al 2020: gli Accordi di Abramo firmati il 15 settembre hanno rappresentato un evento di una portata simile a quello compiuto da Sadat oltre 40 anni fa. Gli Accordi di Abramo sono il terzo caso di ufficializzazione dei rapporti tra paesi del mondo arabo e Gerusalemme. A firmare questa iniziativa sono state due nazioni: Bahrain ed Emirati Arabi Uniti. Gli Emirati, dopo Egitto e Giordania, sono il terzo paese a normalizzare le relazioni diplomatiche con Israele e sono anche il primo paese del golfo a farlo. Anche il Sudan è entrato a far parte dell’accordo, mentre il Marocco – che ha già normalizzato le relazioni con Israele – resta alla finestra; Israele, inoltre, sarebbe pronto a portare avanti un discorso di normalizzazione anche con un futuro governo libico. In aggiunta a questi attori che hanno intrapreso una nuova fase della loro politica estera regionale, vi è l’Arabia Saudita del principe Moḥammad bin Salmān Āl Saʿūd. Il cambio di rotta avviene non casualmente. Gli Stati Uniti sono entrati in una fase di retrenchment e hanno abbandonato - seppur solo militarmente - il Medio Oriente dopo trent’anni dalla prima Guerra del Golfo. La nuova stagione delle relazioni internazionali degli attori mediorientali col loro nemico storico giunge in un momento di transizione per l’intera regione. A partire dagli Accordi di Abramo si sono intensificate sempre più le relazioni tra i Paesi arabi e Israele. L’Arabia Saudita, sotto questo punto di vista, si trova in prima fila. L’obiettivo del principe Moḥammad bin Salmān Āl Saʿūd e anche dei suoi omologhi regionali è instaurare un rapporto di cooperazione e sviluppo con Gerusalemme. La fase più acuta del conflitto arabo-israeliano sembra essere ormai alle spalle. Nonostante l’opposizione di Re Salman - la cosiddetta vecchia guardia legata al retaggio del passato -, le nuove generazioni, sia arabe che israeliane, vogliono lasciarsi indietro questa guerra pluridecennale che ha colpito fortemente i paesi arabi coinvolti e che ha lasciato strascichi anche in Israele. A suggellare ciò, non bisogna dimenticare il fatto che il ministro degli esteri israeliano, Yair Lapid, stia cercando di espandere gli Accordi di Abramo proprio all’Arabia Saudita e all’Indonesia. In ambito securitario, la potenza militare e tecnologica israeliana è da sempre fonte di ammirazione ma anche preoccupazione per gli attori arabi mediorientali. Per questa ragione, l’Arabia Saudita, come il Bahrain e soprattutto gli Emirati Arabi Uniti, vedono nella partnership con Israele un’occasione per limitare e cercare di arginare la politica aggressiva e di destabilizzazione attuata dal governo iraniano. Della pericolosità di Teheran si è discusso il 30 gennaio, quando il presidente israeliano Isaac Herzog in visita a Dubai ha incontrato il ministro degli esteri Sheikh Abdullah bin Zayed Al Nahyan. I temi trattati principalmente sono stati appunto due: la posizione antisraeliana dell’Iran e la minaccia alla leadership regionale del mondo arabo dei paesi del golfo. Questi avvenimenti, a partire dagli Accordi di Abramo fino alla storica visita di Herzog, mostrano come vi sia un interesse comune nel favorire la détente tra Israele e il mondo arabo. Inoltre, l’allontanamento parziale dal conflitto arabo-israeliano da parte dei vertici politici di alcuni dei Paesi storicamente più intransigenti è stato visto anche come una mossa per avvicinarsi a Washington. Il supporto americano, in un momento delicato e di profondo cambiamento come questo, in particolare dopo il ritiro dall’Afghanistan, mostra come la minaccia iraniana sia percepita ancora come il pericolo primario per gli attori regionali. Il fatto che i Paesi del Golfo, da sempre patria dell’Islam politico, stiano aprendo le loro porte a Stati come Israele, ma anche Turchia - non va dimenticato il nuovo asse tra Ankara e Doha -, è sintomo di cambiamento ma anche di consapevolezza delle minacce che riguardano tutti gli attori arabi sotto diversi punti di vista: securitario, politico ed economico.
a cura di Gianluca Maglione Schiacciata dalle sanzioni occidentali in risposta all’invasione dell’Ucraina, la Russia volge lo sguardo alla Cina, alla ricerca di mercati sui quali far affluire l’enorme offerta di risorse naturali. Da tempo, la svolta green dell’Unione Europea ha costretto Mosca a rivedere i propri piani energetici e considerare mercati alternativi a quello europeo per garantire uno sbocco sicuro alla produzione di gas naturale. Come è noto, l’esportazione di gas rappresenta una voce essenziale del bilancio della Federazione Russa e, allo stato attuale, quello europeo resta ancora il maggior mercato di riferimento. Attraverso il colosso dell’energia Gazprom, infatti, Mosca indirizza verso l’Europa circa 200 miliardi di metri cubi (bcm) di gas all’anno, pari all’83% della produzione totale. L'accesso drasticamente ridotto al mercato europeo nel lungo periodo, aggravato dalla decisione del Governo tedesco di bloccare definitivamente il gasdotto Nord Stream 2, spinge Mosca a guardare con decisione al mercato cinese, in costante espansione. Negli ultimi anni, la domanda cinese di risorse naturali è cresciuta in modo esponenziale, complice l’intenzione di raggiungere la neutralità carbonica entro il 2060. Secondo le stime, nei prossimi anni il consumo cinese di gas passerà dai 331 bcm attuali ai 526 bcm, rendendo il mercato cinese decisamente appetibile alle forniture russe. Il 43% dell’approvvigionamento energetico della Repubblica Popolare Cinese avviene, infatti, sul mercato estero, collocando Pechino al primo posto tra i maggiori importatori al mondo avanti al Giappone. La crescente ostilità nei confronti degli Stati Uniti e dei suoi alleati condivisa da Mosca e Pechino ha contribuito a determinare l’approfondimento della partnership strategica tra i due Paesi anche attraverso il rafforzamento dell’alleanza energetica. A margine delle celebrazioni delle Olimpiadi invernali, il presidente russo Vladimir Putin e il suo omologo cinese Xi Jinping hanno siglato un accordo trentennale per la fornitura di gas naturale e la costruzione di un nuovo gasdotto dal nome Power of Siberia 2, che collegherà la penisola siberiana di Yamal con la Cina nord-orientale, tramite il territorio della Mongolia. Secondo le previsioni, i primi flussi di gas dovrebbero attraversare il nuovo gasdotto entro il 2026. Una volta terminato, Gazprom convoglierà verso il territorio cinese fino a 50 bcm di gas naturale all’anno, garantendo a Mosca introiti per circa 100 miliardi di euro e a Pechino la possibilità di diversificare parte dei suoi approvvigionamenti dall’estero. Le trattative hanno subito un’accelerazione anche in ragione della carenza di carbone che ha interessato lo scorso anno la Repubblica Popolare Cinese, costretta ad assicurarsi l’energia necessaria per sostenere la propria industria. Nel lungo periodo, peraltro, i cinesi intendono smarcarsi dalla dipendenza delle importazioni di gas naturale liquefatto (GNL) via mare, proveniente in gran parte da Australia e Stati Uniti. Infatti, affinché questo raggiunga le coste cinesi, è necessario che attraversi uno dei maggiori colli di bottiglia mondiali, lo Stretto di Malacca, con il rischio di tagli ai rifornimenti in caso di gravi tensioni con due dei principali fornitori di GNL al mondo. La nuova infrastruttura andrà ad affiancare il gasdotto Power of Siberia, che dal dicembre 2019 collega gli enormi giacimenti siberiani alla città russa di Blagoveščensk, posta al confine nord-orientale della Cina. A regime entro il 2025, Power of Siberia sarà in grado di fornire circa 38 bcm di gas naturale all’anno, rispetto agli attuali 10 bcm. Anche in questo caso, l’accordo coincise con una fase altrettanto critica delle relazioni tra Russia e Occidente, in seguito all’applicazione delle sanzioni imposte per l’occupazione della Crimea. Nel frattempo, la Russia intende sfruttare le opportunità fornite dall’apertura della rotta artica aumentando la produzione di GNL attraverso l’impianto Yamal LNG, realizzato dalla società russa Novatek con l’aiuto di ingenti finanziamenti cinesi. Sebbene il nuovo accordo rappresenti un’ottima notizia per la politica energetica russa, è verosimile ritenere che quando il Power of Siberia 2 sarà operativo il mercato mondiale del gas presenterà caratteristiche molto diverse rispetto ad oggi. Nel 2025, infatti, è prevista l’entrata in funzione del mega giacimento qatariota North Field. Secondo gli esperti, le enormi quantità di GNL prodotte da Doha andranno ad alterare il mercato, incidendo inevitabilmente sul potere negoziale di Mosca. Nel lungo periodo, poi, i due gasdotti consentiranno di compensare solo parte delle perdite russe in Europa. Basti considerare che, a pieno regime, il Power of Siberia 2 avrà solo un quinto della capacità della controparte europea, il Nord Stream 2. Infine, il rafforzamento della presenza sul mercato cinese richiede tempo e, soprattutto, ingenti investimenti in gasdotti e altre infrastrutture di supporto. L’accordo energetico annunciato da Putin e Xi Jinping rafforza la cooperazione strategica tra i due paesi in un momento estremamente delicato per il presidente russo. Con i rapporti tra Russia e Occidente ai minimi storici, Putin è costretto a guardare ad est per limitare i danni causati dalle sanzioni e diversificare i mercati per l’esportazione di risorse naturali. Dal canto suo, la Cina considera la Russia un partner affidabile per la fornitura di energia essenziale a sostenere il piano di decarbonizzazione e smarcarsi, almeno parzialmente, alle importazioni di GNL. Anche per queste ragioni, Pechino si è astenuta dal condannare apertamente l'invasione russa ribadendo la sua neutralità. Secondo gli osservatori, infatti, l’ulteriore approfondimento dei rapporti tra i due paesi passerà ancora attraverso il rafforzamento della cooperazione in questo settore, al fine di sostenere gli sforzi per salvaguardare la reciproca sicurezza energetica.
a cura di Enrico Bruni Nella costruzione di una nuova collettività totalitaria, i regimi dittatoriali mirano a sviluppare proficui rapporti con il mondo dell’arte, eccellente veicolo comunicativo dei valori incarnati dal regime ed efficace strumento di materializzazione degli ideali della dittatura. Fu per prima l’Unione Sovietica a incentivare l’uso dell’arte per propagandare l’ideologia comunista, realizzando manufatti di notevole interesse, tra cui ricordiamo il dittico de “L’operaio e la kolchoziana” di Vera Muchina (il cui bozzetto è stato recentemente esposto alla mostra Revolutija al MAMbo di Bologna) e “La Madre Patria chiama!” del memoriale della Battaglia di Stalingrado. Paesi come l’Unione Sovietica e la Cina di Mao hanno dato un fondamentale contributo alla definizione dei canoni del realismo socialista, movimento artistico sviluppatosi anche all’interno della Corea di Kim Il-sung. Nell’abbracciare il linguaggio del realismo socialista, il padre della Patria nordcoreana aveva l’ambizione di creare un nuovo immaginario, capace di rappresentare la Corea agli occhi dei propri concittadini, provati dal processo di costruzione del nuovo Stato socialista, come il miglior posto possibile in cui vivere. Nell’intraprendere questo progetto, le autorità nordcoreane guardarono alla romanità come modello di riferimento per l’arte pubblica, in particolare all’uso degli archi di trionfo per celebrare le glorie del regime (Arco di Trionfo realizzato a Pyongyang dal Mansudae Art Studio), mentre il leader stesso si misurava con gli imperatori cinesi Qin Shihuangdi e Qianlong per quanto riguarda il culto della personalità, da un lato, e la rappresentazione dei mestieri, dall’altro. Per favorire questo programma di elaborazione iconografica della nuova Corea, il regime vide necessario organizzare e riunire gli artisti del paese sotto un unico soggetto che potesse vigilare sul rispetto dei canoni del realismo socialista, che nel frattempo aveva assimilato influenze dal mondo occidentale, sperimentando motivi come colonne, obelischi e torri che andarono a decorare la nuova capitale dopo la devastazione della Guerra (1950-53). Al fine di omologare il panorama artistico del paese, venne istituito nel 1959 lo Studio Mansudae, con sede a Pyongyang. Lo Studio conta all’attivo un numero pari a quattromila dipendenti, di cui circa un migliaio rappresentato da artisti diplomati alla Pyongyang Art School. La creazione del collettivo artistico fu fortemente sostenuta dal dittatore Kim Il-sung, il quale volle affidare a questo nucleo di artisti le più importanti commissioni pubbliche come la realizzazione del Grande Monumento Mansudae, monumento che ospita i due colossi bronzei dei due leader defunti, o della Statua del Chollima, simbolo della velocità dello sviluppo economico del paese. Fin dai primi anni di attività, le ambizioni degli artisti del Mansudae non si sono mai limitate ai confini interni della propria nazione, ma con l’apertura del Mansudae Overseas Project negli anni ‘70, il collettivo si è adoperato per l’internazionalizzazione del proprio marchio distintivo: il realismo socialista. Si possono infatti contare numerosi interventi all’estero: a Francoforte dove allo Studio è stata affidata nel 2006 la ricostruzione della Fontana delle Favole andata distrutta nella II Guerra Mondiale, o le commissioni in paesi africani come la Nigeria dove artisti del Mansudae hanno realizzato il colossale Monumento al Rinascimento Africano di Dakar, completato nel 2009. Le opere del Mansudae sono rimaste a lungo escluse dal mercato internazionale dell’arte, a causa sia delle politiche isolazioniste nordcoreane sia delle sanzioni emanate dalle organizzazioni internazionali. In questo contesto si registra una svolta nel 2005, quando l’italiano Pier Luigi Cecioni è invitato dal viceambasciatore nordcoreano a esibirsi come direttore della Florence Symphonietta all’annuale Festival dell’Amicizia. Durante la permanenza, Cecioni si propone di diventare il tramite tra Oriente e Occidente per la diffusione delle opere degli artisti Mansudae. Tornato nuovamente in Corea nell’inverno del 2006, assieme al fratello Eugenio Cecioni, direttore dell’Accademia di Belle Arti di Firenze per il triennio 2014-2016, Pier Luigi Cecioni firma con lo Studio un accordo che gli conferisce la qualifica di intermediario ufficiale del Mansudae in Occidente. L’anno successivo viene così progettato il sito ufficiale dello Studio per il pubblico occidentale, e il 17 maggio viene inaugurata la prima mostra di artisti nordcoreani. L’impegno di Cecioni ha permesso la diffusione di queste opere presso il pubblico occidentale, inserendo un elemento di novità nel mercato dell’arte unico nel suo genere. Da una prima osservazione delle opere, colpisce la mancanza di firme: si tratta un’arte anonima, nel vero significato della parola poiché la firma dell’artista è obliterata da quella dello Studio. Lo stile è omologato, non si notano differenze rilevanti tra un artista e un altro. Come evidenziano alcune critiche mosse da esperti del settore, per un pubblico occidentale, tali opere rischiano di apparire come eccessivamente scolastiche e un tantino pretenziose; un linguaggio figurativo elementare per chi in circa un secolo ha spaziato nella diversificazione di linguaggi della contemporaneità. Tuttavia, l’esposizione di opere del realismo coreano garantisce un’ulteriore differenziazione del patrimonio artistico nel mondo occidentale che, sebbene sia estraneo a questa visione di arte totalitaria, ha la necessità di confrontarsi con i registri stilistici degli altri popoli, creando così un ponte tra le frontiere. Operazioni commerciali come quella del Cecioni hanno subito un contraccolpo quando, in risposta al quarto test nucleare sotterraneo realizzato il 6 gennaio 2016 dalla Corea del Nord, la risoluzione n. 2371, 2017 del Consiglio di Sicurezza ONU ha inserito nella lista delle sanzioni il Mansudae Overseas Project, assieme ad altre realtà, invitando a “congelare i fondi e le risorse economiche delle persone ed entità” coinvolte in operazioni di finanziamento della DPRK. Le Nazioni Unite hanno riscontrato che tramite operazioni come la vendita di opere d’arte, il regime dei Kim riusciva ad aggirare le sanzioni, ottenendo finanziamenti da parte di paesi occidentali. Una successiva risoluzione (Risoluzione n. 2375, 2017, par. 18) ha invitato gli Stati a imporre la chiusura entro 120 giorni per le imprese o cooperative che si presume possano essere collegate a entità o individui nordcoreani. Tale risoluzione ha dato origine ad una controversia con la Repubblica Popolare Cinese che ospita nel quartiere artistico di Beijing la Mansudae Art Gallery, galleria che rivendica il ruolo di sede ufficiale dello Studio all’estero. Sebbene in una circolare del Ministero del Commercio Cinese siano state recepite le restrizioni volute dal Consiglio di Sicurezza in merito ai commerci con la DPRK, le autorità cinesi non hanno voluto nominare lo Studio Mansudae tra le organizzazioni a cui le sanzioni erano applicate. Il ministro Gao Hucheng non ha rilasciato dichiarazioni in merito alla decisione. A seguito della pubblicazione delle risoluzioni delle Nazioni Unite, il sito creato dai fratelli Cecioni ha modificato il proprio nome da “Mansudae’s official website abroad” in “North Korea Art Gallery” e nelle informazioni riportate la qualifica di Pier Luigi Cecioni come “Western Representative of Mansudae Art Studio” è stata eliminata. A seguito delle sanzioni del 2017, il sito ha interrotto la sua attività di intermediario, in attesa di una riapertura dei mercati. Cecioni ha prospettato la possibilità di nuove aste, potendo disporre di opere precedentemente acquistate; questo sarebbe l’unico stratagemma nell’immediato per aggirare le sanzioni, che non possono avere effetti retroattivi per acquisti già effettuati. La nuova fase di distensione aperta durante la presidenza Trump potrebbe tradursi in un alleggerimento delle sanzioni a carico delle imprese artistiche nordcoreane. Nei prossimi anni potrebbero quindi essere organizzate nuove esposizioni in cui sarà possibile avvicinarsi da una prospettiva esclusiva a un mondo tanto affascinante, quanto inquietante, quale la Corea dei Kim.
a cura di Antonio di Casola Nella sovente instabile regione mediorientale, il Regno Hashemita di Giordania rappresenta oramai da qualche decennio un attore tendenzialmente in grado di garantire un elevato livello di stabilità e sicurezza. Re Husayn, prima, e suo figlio Abdullah II, poi, sono riusciti, a livello interno, a percepire il cambiamento dei tempi e ad operare una modernizzazione della monarchia e, sul piano degli affari esteri, a mantenere con notevole abilità diplomatica rapporti generalmente equilibrati con la gran parte degli Stati aventi interessi nell’area. In particolare, la Giordania intrattiene relazioni pacifiche sia con Israele sia con Paesi a quest’ultimo storicamente oppositori, cercando di apparire il più possibile in una posizione di neutralità nei conflitti per poterne, così, beneficiare da tutti i fronti. La strategia vincente della Giordania consiste esattamente in questo: nel proporsi come “ponte” tra due mondi, come l’interlocutore islamico più affidabile agli occhi dello scettico Occidente. Nonostante il passato conflittuale, si può senza sopravvalutazioni affermare che oggi, almeno a livello istituzionale, i rapporti tra Giordania ed Israele siano pacifici. Per diversi anni, a partire dalla firma del trattato di pace nell’ottobre 1994, il rapporto è stato caratterizzato da una reciproca tolleranza, ma negli ultimi mesi, spinti dall’onda degli Accordi di Abramo e, nello specifico, dall’esempio degli Emirati Arabi Uniti, i due Paesi hanno intensificato la cooperazione, specialmente a livello economico. Il più recente esempio ne è la stipula, il 19 gennaio scorso, di un piano di cooperazione sul clima, finalizzato ad attenuare le conseguenze che stanno colpendo particolarmente i Paesi più desertici dell’area. Con questo accordo, concluso attraverso la mediazione proprio degli EAU, la Giordania, il cui territorio soffre una pesante carenza idrica, si è impegnata ad esportare in Israele all’incirca 600 megawatt di elettricità generata da pannelli solari, per ricevere in cambio 200 milioni di metri cubi di acqua desalinizzata. Già a dicembre, inoltre, i due Stati avevano firmato un accordo per facilitare le esportazioni giordane, il cui livello da anni si era bloccato ad una certa, discreta, quota senza riuscire mai a superarla. La situazione, tuttavia, non sempre è idilliaca. Il piano di cooperazione ha fatto seguito ad un incontro tra il Re e il Ministro della Difesa israeliano Gantz, avvenuto il 5 gennaio: l’incontro aveva avuto un precedente appena 7 anni prima, ed è quindi risultato storico. Il Governo giordano, infatti, continua a non esitare nel condannare Israele quando ritiene le sue azioni contrarie al diritto internazionale: il 7 gennaio, ad esempio, il Ministro degli Affari Esteri Abu Al-Foul ha dichiarato il proprio disappunto verso l’approvazione da parte del Governo israeliano della costruzione di più di 3500 edifici nei territori palestinesi, ritenendo che tale atto “rappresenti una violazione del diritto internazionale e mini le basi della pace e le possibilità di raggiungere una pace completa e giusta sulla base della soluzione dei due Stati”. In aggiunta, non è possibile ignorare il fatto che la popolazione, che dalla fine degli anni ’80 è composta per la gran parte da profughi palestinesi e loro discendenti, provi verso Israele un certo risentimento, a causa della nota situazione di occupazione che persiste nella sponda occidentale del Giordano. Questo clima di tensione spesso sfocia in manifestazioni, generalmente non violente, che vengono presto placate dal Governo. Anche in occasione dei più recenti accordi, visti da parte della popolazione come un “tradimento”, dettato esclusivamente da interessi economici, sono seguite proteste. Anche il rapporto con gli altri “vicini” non è meno problematico. La Giordania è unita da un profondo legame storico con l’Iraq, poiché i “padri fondatori” dei due Stati, Abdullah e Faisal, erano fratelli. Ciononostante, con gli anni le tensioni sono cresciute esponenzialmente, soprattutto perché il Regno Hashemita ha dovuto, senza colpe, subire le conseguenze dell’instabilità dell’altro Paese. Prima la Guerra del Golfo, poi la diffusione dell’estremismo islamico e l’espansione dell’ISIS, hanno infatti innescato una profonda crisi economica in Giordania: il crollo del turismo per ragioni di sicurezza, l’arrivo di un numero elevatissimo di profughi iracheni, la penetrazione di cellule terroristiche all’interno del territorio sono solo alcune delle questioni più gravi che il governo giordano si è trovato a dover affrontare negli ultimi decenni. A ciò sono da aggiungersi la crisi in Siria, anch’essa sfociata in movimenti di centinaia di migliaia di persone verso la Giordania – secondo i dati dell’UNHCR, attualmente i rifugiati siriani sono quasi 700mila – e l’immigrazione dall’Arabia Saudita. Quest’ultima, seppur numericamente più discreta, ha permesso l’importazione del Wahhabismo, una corrente dell’Islam più intransigente, che ha aggravato una situazione già compromessa. Nonostante i numerosi problemi, però, la Giordania è un Paese che guarda al futuro. Con gli ingenti investimenti nel settore dell’energia solare, il Regno non intende solo ricavarne autosufficienza energetica e, attraverso la vendita, ricavi economici, ma anche accredito presso il mondo occidentale come Paese “green”, attento alla sostenibilità. Anche dal punto di vista sociale, rispetto agli altri Stati nella regione, la Giordania può essere considerato un Paese all’avanguardia. La situazione delle donne è certamente ancora arretrata, ma in via di sviluppo. Le donne sono tuttora svantaggiate, sul piano giuridico, nelle questioni ereditarie o matrimoniali, che vengono regolate da tribunali religiosi che applicano la sharia. Tuttavia, l’obiettivo stabilito è quello di raggiungere la completa parità di genere entro il 2030. Infine, ulteriore tassello della strategia giordana come interlocutore da prediligere è la promozione del pluralismo e del dialogo interreligioso. Infatti, seppur l’articolo 2 della Costituzione dichiari l’Islam la religione ufficiale dello Stato, la tutela garantita ad alcune minoranze, specialmente quella cristiana che compone circa il 2/3% della popolazione, è indubbiamente di un livello elevato – altre minoranze, però, come quella Bahá'í, non riconosciute dall’Islam come religioni, non godono di alcuna tutela. I Reali giordani sono attivamente impegnati su questo fronte: il celebre Messaggio di Amman del 2004, in risposta al terrorismo islamico, e la World Interfaith Harmony Week, proposta dal Re ed approvata dall’Assemblea Generale ONU, sono solo i due esempi più rilevanti di un’apertura che, seppur certamente strategica, sembra, in fondo, essere sincera.
Il confronto tra Stati Uniti e Cina: la lotta globale per le installazioni di basi militari7/3/2022
a cura di Edoardo Tagliabue In questo momento storico, lo stretto di Taiwan risulta essere il principale luogo di rivalità per la supremazia militare tra Stati Uniti e Cina. Tuttavia, tale rivalità, si sta giocando anche in altre aree del globo distanti dalle zone marittime contese nel Mar Cinese Meridionale. Pechino cerca di espandere la sua presenza militare, mentre allo stesso tempo Washington cerca di ostacolare questo processo di espansionismo sul posizionamento delle basi militari in regioni altamente strategiche. Da tempo, la Repubblica Popolare Cinese ambisce a creare la sua prima base militare permanente sulle coste dell’Oceano Atlantico. Secondo il “The Wall Street Journal” il progetto di Pechino si sta realizzando sulle coste della piccola nazione africana della Guinea Equatoriale. Il “The Economist” statunitense ha dichiarato che la presenza della Cina sulla costa atlantica dell’Africa aumenterebbe inevitabilmente la minaccia per gli Stati Uniti, in quanto una delle funzioni principali della futura base militare sarà quella di rifornire la flotta militare cinese di stanza nell'Oceano Atlantico, creando i presupposti per una flotta militare permanente sulle coste africane. Lo scorso aprile, il Generale Stephen Townsend, Comandante dello United States Africa Command, ha affermato, davanti al Senato degli Stati Uniti, che la minaccia più significativa della Cina deriverebbe dalla costruzione di una struttura navale con capacità militari sulla costa atlantica dell’Africa. Inoltre, lo scorso ottobre, il Vice Consigliere per la sicurezza nazionale, Jonathan Finer, si è recato in Guinea Equatoriale nel tentativo di convincere il Presidente Teodoro Obiang Nguema Mbasogo a rifiutare il progetto infrastrutturale della Cina. Un primo contatto di Pechino con il Paese africano si era verificato già nel 2006, quando le autorità cinesi hanno iniziato ad investire nel progetto di ristrutturazione ed espansione del porto di Bata: infatti, sarebbe proprio in questa sede che la Cina vorrebbe far sorgere la sua installazione militare. Se ciò si realizzasse, avere la marina militare cinese sulle sponde dell’Atlantico inaugurerebbe una nuova fase della competizione strategica globale tra Stati Uniti e Cina. La prima base militare cinese all’estero è sorta nel 2017 a Gibuti in Africa orientale, a cavallo tra l’Oceano Indiano e lo strategico Canale di Suez; di conseguenza, le due scelte strategiche di Pechino per le installazioni della basi militare in Africa sembrerebbero segnalare che il gigante asiatico voglia l’accesso militare, ma anche con prospettive commerciali e politiche nell’ottica della Via della Seta ad entrambi gli oceani, puntando ad aumentare la competizione globale con gli Stati Uniti. Recentemente un’altra schermaglia tra Washington e Pechino sulla questione delle installazioni di basi militari si è aggiunta al quadro di tensione politico-militare tra le due potenze. Infatti, alcune fonti giornalistiche statunitensi e agenzie di intelligence, hanno scoperto che la Cina era in procinto di avviare progetti concreti per la costruzione di un’installazione militare nel porto di Khalifa, ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti. La rilevazione del progetto infrastrutturale di Pechino ha provocato forti tensioni che avrebbero potuto compromettere il rapporto di sicurezza tra Stati Uniti ed Emirati Arabi Uniti. Tuttavia, Gli Stati Uniti hanno fatto valere le proprie prerogative nei confronti degli Emirati Arabi Uniti per impedire il via libera al progetto di costruzione di una base militare nella città di Abu Dhabi da parte delle autorità militari cinesi. Questo per diversi fattori quali la cooperazione nell’intelligence, la vendita di asset militari all’avanguardia, ma soprattutto l’utilizzo da parte degli Stati Uniti della base aerea di Al Dhafra (ai soli 30 km da Abu Dhabi, dove avrebbe dovuto sorgere la base militare cinese). Il Paese del Golfo arabico non è l’unico luogo dove l’impronta militare cinese sta cercando di espandersi: · nel 2016, l’esercito cinese ha costruito basi aeree e altre installazioni nel Mar Cinese Meridionale, fortemente rivendicato da Pechino come zona economica esclusiva, spesso su atolli artificiali costruiti in violazione del diritto internazionale del mare; · nel 2017, come descritto in precedenza, la Cina ha inaugurato l’apertura della propria base militare a Gibuti. Si tratta, in particolare, della prima base militare cinese all’estero, base che ha la funzione principale di rifornimento delle navi che prendono parte alle missioni di peacekeeping in Yemen e in Somalia; · nel 2019, gli Stati Uniti hanno accusato la Cambogia per la mancanza di trasparenza sulle attività di costruzione cinesi nella sua più grande base navale — Ream — esortando Pechino a rivelare l’intera portata del coinvolgimento militare. La Cina ha diverse ragioni per espandere la potenza del proprio esercito e rendere la portata della sua azione militare globale, attraverso l’installazione di basi in diversi Paesi strategici. Uno dei motivi alla base di questa strategia è la forte dipendenza di Pechino dalle importazioni di energia che devono passare necessariamente attraverso le acque internazionali del Golfo Persico sotto il controllo e la supervisione della marina militare statunitense. La strategia cinese potrebbe far crescere la tensione politica e militare in alcuni degli stretti marittimi internazionali, e più in generale, Washington e i suoi alleati non godrebbero più di un accesso libero i alle rotte di navigazione, ma dovrebbero preoccuparsi di confrontarsi con la marina militare cinese Tuttavia, la presenza globale degli Stati Uniti porta alla concentrazione delle risorse militari e civili in diverse aree a livello internazionale, limitando una presenza militare massiccia della propria Marina nelle aree marittime del Pacifico, che al momento sono oggetto di tensioni e rivendicazioni da parte di diversi Paesi asiatici. Ad esempio, la presenza militare statunitense nel Golfo Persico, soprattutto nel controllo del commercio del petrolio nello Stretto di Hormuz, impiega risorse militari che non possono essere disponibili nello Stretto di Taiwan, dove la marina cinese si fa sempre più preponderante. Contemporaneamente, gli Stati Uniti esortano i propri alleati regionali a rivolgere più preoccupazioni all’espansionismo cinese e supportare Washington nelle diverse aree globali ad alte tensioni politiche, poiché un eventuale intensificarsi della conflittualità tra Stati Uniti e Cina porterebbe l’esercito americano a concentrare meno risorse in altri teatri internazionali in modo tale da rivolgere più attenzioni nel Sud-Est asiatico. La competizione globale e strategica tra Pechino e Washington si sta allargando anche dal punto di vista della supremazia militare: in particolare, Pechino ha l’obbiettivo a lungo termine di ampliare oltre i propri confini la sua presenza militare, tramite le installazioni di basi in diverse aree strategiche del globo.
Perché una no-fly zone sull’Ucraina può condurre ad un’escalation di violenza senza ritorno6/3/2022
a cura di Gregorio Staglianò L’escalation di violenza conseguente all’invasione russa del 24 febbraio del territorio ucraino ha sconvolto le relazioni internazionali, riportando in auge concetti e posture da guerra fredda. Tra le strade di Kiev e delle altre città ucraine si combatte un conflitto ibrido, tra guerriglia e cyber-warfare, tra la minaccia atomica e il fuoco dell’artiglieria. Il Presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha rivolto numerosi appelli all’Unione Europea e agli alleati della NATO per chiedere supporto alla resistenza ucraina. L’Alleanza Atlantica si è mobilitata fornendo equipaggiamenti e rifornimenti, ma dimostrando riserve sulla richiesta giunta dal governo di Kiev di istituire una “no-fly zone” sui cieli ucraini. Jens Stoltenberg, Segretario Generale della NATO ha affermato pubblicamente, dopo una riunione dei Ministri degli Esteri dei Paesi dell’Alleanza il 4 marzo, che per il momento è esclusa l’ipotesi dell’istituzione di una zona di interdizione al volo. Le no-fly zones (NFZ) impediscono a un Paese nemico di utilizzare le sue capacità aeree offensive per attaccare obiettivi militari o civili a terra. Non si tratta di “chiudere” semplicemente uno spazio aereo su un determinato territorio, ma di pattugliare scrupolosamente l'area dichiarata off-limits e, in caso di incursioni nemiche essere pronti ad abbatter ogni velivolo non autorizzato. Controllare i cieli di una NFZ include anche assicurarsi di avere il totale controllo della situazione a terra, da cui le difese antiaeree nemiche possono costituire una concreta minaccia. Per questo motivo chi dichiara una NFZ deve assicurarsi di identificare, sabotare, bloccare e distruggere le risorse nemiche rivolte verso i bersagli aerei. A dichiarare una NFZ possono essere organizzazioni internazionali come l’ONU, la NATO o l’UE, ed ovviamente singoli governi. Nel caso ucraino, come richiesto, ad imporre una NFZ sarebbe la NATO, che dovrebbe impiegare le sue forze aeree per intercettare ed eventualmente abbattere velivoli russi o per distruggere l’artiglieria di Mosca presente sul territorio ucraino. Di fatto, quella che può sembrare un’azione difensiva, a protezione della popolazione e di obiettivi sensibili, è in realtà una soluzione offensiva, che coinvolgerebbe attivamente nel conflitto i Paesi membri dell’Alleanza con il rischio di un’escalation senza punto di ritorno. Contrariamente a ciò che ad un livello iniziale di analisi appare, una NFZ non è una misura a metà tra la dimensione umanitaria e quella militare, ma è a tutti gli effetti un’operazione combat, progettata per privare il nemico della sua capacità militare aerea offensiva e che comporta uno scontro diretto e sostenuto. Stabilire una NFZ oggi sui cieli ucraina condurrebbe senza grossi dubbi ad una situazione di conflitto diretto tra la Russia e i Paesi membri della NATO, uno scenario che tutta la comunità internazionale sta cercando di evitare a tutti i costi. Sotto il profilo militare inoltre, non è chiaro quali vantaggi apporterebbe la costituzione di una NFZ, considerando il fatto che non è stata l’aviazione ma l’artiglieria russa a mietere la maggior parte delle vittime civili tra la popolazione ucraina. A giudicare dalle confuse informazioni che giungono dal terreno, i bombardamenti russi sembrano essere inflitti da missili balistici e da crociera, che una volta lanciati non possono essere interdetti dagli aerei in una NFZ. Né Mosca né Kiev hanno la supremazia aerea sui cieli ucraini, e condurre operazioni di pattugliamento e di controllo da parte delle forze della coalizione su un territorio nel pieno di un combattimento, esporrebbe a notevoli rischi i piloti. Senza considerare inoltre, che i militari russi non controllano che porzioni limitate di territorio ucraino, dopo l’inizio delle operazioni lo scorso 24 febbraio, e ciò non consente al Cremlino di installare fisicamente adeguati sistemi d’arma antiaerei, che nel caso di una NFZ sarebbero un target primario delle forze di pattugliamento aereo. Mosca non ha il pieno controllo dei cieli ucraini anche grazie anche all’efficacia dei sistemi di contraerea schierati da Kiev - come gli S-300 o i FIM-92 Stinger – che stanno giocando un ruolo non secondario nel rallentamento dell’avanzata russa verso il cuore del potere ucraino. I sistemi d’arma antiaerea a lungo raggio come gli S-300, gli S-350, gli S-400, - posseduti anche da Mosca e spina dorsale della contraerea russa – consentono inoltre di agire ad una gittata di circa 400 km, e per tale motivo possono ingaggiare i loro bersagli lanciando missili da oltre i confini ucraini. Ciò rende l’istituzione di una NFZ strategicamente non conveniente, per il semplice motivo che le forze aeree della colazione non potrebbero bombardare sistemi antiaerei che non si trovino nel territorio ucraino, con il rischio, al contrario, di trascinare ulteriori attori – come la Bielorussia, teatro di assoluta rilevanza strategica per Putin - nel vortice del conflitto causando una reazione a catena che porterebbe ad un conflitto di vastissime dimensioni. Ad oggi l’efficacia delle NFZ è dibattuta anche nei circoli militari per la difficoltà di applicazione e per gli esiti non sempre certi delle conseguenze. Nel corso degli ultimi anni, le NFZ sono state utilizzate in alcuni contesti bellici, non sempre fornendo gli effetti desiderati. Una NFZ fu imposta per esempio durante la guerra del Golfo nel 1991: Stati Uniti, Francia e Regno Unito ne dichiararono due in Iraq per contrastare gli attacchi dell’allora Presidente Saddam Hussein contro la popolazione civile. Funzionò parzialmente, dato che il regime continuò ad attaccare via terra. Fu poi la NATO ad imporre un’altra NFZ durante la guerra in Bosnia, tra il 1993 e il 1995: in quel caso, per farla rispettare, gli aerei da guerra statunitensi aprirono il fuoco su quelli serbi, che avevano violato l’area interdetta al volo per bombardare obiettivi civili. Anche in quel caso la NFZ non impedì gli attacchi via terra, e andò in contro a varie difficoltà nel tentativo di abbattere i velivoli nemici. Una NFZ fu imposta dall’ONU anche in Libia nel marzo 2011, nella guerra tra il regime di Muammar Gheddafi e i ribelli. Dopo la dichiarazione della zona interdetta al volo, forze aeree francesi, britanniche e statunitensi entrarono nello spazio aereo libico sbriciolando le forze antiaeree di Gheddafi, segnando così l’ingresso delle forze occidentali nella guerra civile libica. In tutti questi contesti, la coalizione possedeva una evidente superiorità militare, sia in termini di forze dispiegate che in quelle utilizzata per deterrenza. Lo scenario ucraino è più complesso, perché il “nemico” a cui impedire di alzarsi in volo è la Russia, in possesso di un robusto capitale militare, convenzionale e non. La volontà reiterata di creare una NFZ, dunque, ha l’aspetto di uno statement politico, più che una chiara volontà strategica militare. Nell’ipotesi che la NATO accetti un giorno di imporre il controllo dei cieli ucraini, Kiev guadagnerebbe non tanto un vantaggio militare su Mosca, quanto la posizione di co-belligeranza della NATO nel conflitto. Dal canto suo però, il Presidente Vladimir Putin ha dichiarato che considererebbe l’imposizione di una NFZ sui cieli di ucraini come un deliberato atto di guerra verso Mosca, che sarebbe quindi “costretta” ad ingaggiare un conflitto con la coalizione occidentale. Uno scenario questo, che i Paesi dell’Alleanza Atlantica devono scongiurare ad ogni costo.
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