a cura di Arianna Caggiano Da qualche settimana, il confine tra Polonia e Bielorussia è protagonista di un arrivo sempre più consistente di migranti, provenienti principalmente dal Medio Oriente, che ha determinato una crisi migratoria, umanitaria e politica. I tentativi di attraversamento della frontiera sono stati al centro del dibattito politico e istituzionale di diversi attori politici, determinando un peggioramento specialmente nei rapporti tra Bielorussia e Unione Europea. Per comprendere le motivazioni dell’arrivo di migliaia di migranti alle frontiere esterne dell’Europa orientale, è necessario fare un passo indietro nel tempo. Infatti, l’origine dei flussi dal Medio Oriente risale all’inizio dell’estate 2021, quando il governo di Alexander Lukashenko ha iniziato ad orchestrare il viaggio di migliaia di persone disposte a migrare verso l’Europa tramite l’agevolazione di procedure burocratiche finalizzate a rilasciare visti “turistici” ad agenzie di viaggi statali, di cui Minsk ha una partecipazione economica, in Paesi come Iraq, Siria, Egitto, Libano, Iran e Afghanistan. Il motivo per cui il dittatore bielorusso Lukashenko ha incoraggiato i flussi migratori verso il confine con l’Europa è giustificato dalla volontà di Minsk di rispondere alle interferenze – così definite da Lukashenko – dell’UE negli affari interi del paese. Infatti, a seguito delle elezioni presidenziali tenutesi il 9 agosto 2020, che hanno conferito il sesto mandato consecutivo ad Alexander Lukashenko, l’Unione Europea ha rifiutato di riconoscere i risultati elettorali, imponendo sanzioni contro il governo bielorusso per la repressione e le persecuzioni dell’opposizione politica. Lukashenko, in risposta a tali azioni, ha orchestrato la cosiddetta “guerra ibrida” colpendo gli Stati Membri e le istituzioni di Bruxelles nel loro punto più debole: i flussi migratori verso le frontiere esterne dell’Unione Europea. Di fronte agli arrivi organizzati da Minsk, l’Unione Europea ha accusato il regime di Lukashenko di sfruttare la crisi migratoria per fini politici e di strumentalizzare le vite umane dei migranti per creare pressione alle istituzioni. La strategia del presidente bielorusso sarebbe quella di ricattare l’UE per ridurre le sanzioni e restituire legittimità internazionale al proprio governo. In un dibattito in plenaria tenutosi la prima settimana di novembre a Bruxelles, l’Alto Rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza, Josep Borrell, ha dichiarato l’impegno da parte delle istituzioni UE per trovare soluzioni con i paesi d’origine affinché possano impedire l’arrivo di altri flussi. Inoltre, Borrell ha sottolineato la necessità da parte delle forze bielorusse di fornire aiuti umanitari ai migranti attualmente presenti al confine con Polonia, Lituania e Lettonia. Tuttavia, il regime di Lukashenko è lontano dal fornire assistenza umanitaria ai migranti, incoraggiandoli invece a oltrepassare i confini esterni dell’Unione con l’obiettivo di mettere in ulteriore difficoltà le istituzioni di Bruxelles. Di fronte a tale crisi, l’Unione Europea ha annunciato il quinto pacchetto di sanzioni nei confronti della Bielorussia, finalizzato a colpevolizzare Lukashenko per la strumentalizzazione delle vite dei migranti, nonché la continua repressione dei dissidenti. Tra le altre misure a fronte della precaria situazione umanitaria alla frontiera, la Commissione Europea ha stanziato 700 mila euro per le organizzazioni internazionali partner (UNHCR, IOM, IFRC) presenti al confine per fornire assistenza in cibo, kit di pronto soccorso e coperte. Una volta arrivati a Minsk, i migranti giungono al confine del primo paese d’ingresso, la Polonia. Analizzando la posizione del governo polacco, guidato da una formazione nazionalista e ostile all’accoglienza dei migranti, è importante sottolineare come quest’ultimo sia responsabile delle procedure di asilo ed accoglienza secondo il Regolamento di Dublino. Dalla fine della scorsa estate, il governo polacco ha militarizzato il confine estendendo le recinzioni e aumentando le sue pattuglie. Inoltre, nelle ultime settimane, a fronte dell’arrivo improvviso di migliaia di persone pronte a valicare il confine, il Primo Ministro polacco, Mateusz Morawiecki, ha schierato circa 12 mila soldati dell’esercito con l’obiettivo di difendere i confini polacchi e la frontiera esterna dell’UE. Tra le varie misure, gli uomini dell’esercito hanno utilizzato gas lacrimogeni per impedire ai migranti di oltrepassare la frontiera, bloccandoli quindi al confine in condizioni umanitarie e climatiche disastrose. L’UE ha incoraggiato le autorità di Varsavia a porre fine ai violenti respingimenti verso la Bielorussia e accogliere l’assistenza delle organizzazioni internazionali per gli aiuti umanitari. Il governo di Varsavia, insieme a Slovenia, Austria, Grecia, Ungheria e Danimarca, ha chiesto all’UE di finanziare la costruzione di un muro alla frontiera esterna orientale per impedire gli attraversamenti irregolari. Nonostante la relativa apertura verso l’installazione di una barriera in funzione anti-migratoria da parte del presidente del Consiglio europeo Charles Michel, la Commissione guidata da Von der Leyen ha respinto l’idea di utilizzare il bilancio dell’Unione per finanziare eventuali recinzioni. Sebbene il principale responsabile dell’attuale crisi umanitaria sia considerato il regime di Lukashenko, da settimane il governo di Morawiecki è accusato di respingimenti anche a scapito di coloro che riescono a valicare il confine e che sono quindi titolari del diritto di chiedere asilo nel paese di prima accoglienza, come sancito dal diritto internazionale e dal regolamento di Dublino. Sulla stessa linea della Polonia, come riportato da Il Post, il vicepresidente della Commissione Europea, Schinas, in un dibattito tenutosi il 23 novembre 2021, ha dichiarato che la Commissione, nonostante il rifiuto di finanziare la costruzione di un muro, proporrà una deroga alle norme sancite nei trattati UE in tema di accoglienza e protezione dei richiedenti asilo. La proposta prevede la deroga all’art. 78(3) del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), secondo cui, in situazioni di emergenza caratterizzate da “un afflusso improvviso di cittadini di Paesi terzi” Bruxelles “può adottare misure temporanee a beneficio dello Stato membro” interessato. Secondo quanto riportato nel documento preparatorio, tali misure sarebbero finalizzate a supportare gli Stati Membri colpiti (Polonia, Lituania, Lettonia) nella gestione della crisi, “rispettando – allo stesso tempo – i diritti fondamentali e le obbligazioni internazionali”. Nonostante non sia la prima volta che l’UE si trova a fronteggiare una crisi migratoria ai suoi confini esterni, i controversi scenari a Est nel breve periodo costringeranno Bruxelles a trovare i giusti mezzi per porre fine alla strumentalizzazione delle vite umane da parte di Minsk e contemporaneamente collaborare, nel rispetto dei valori fondamentali, con gli Stati Membri coinvolti.
a cura di Ludovica Radici Giovedì 14 ottobre 2021, Beirut si è trovata al centro di uno scontro a fuoco come non accadeva dai tempi della guerra civile libanese, con almeno sei morti e diverse decine di feriti. Prima di questa escalation di violenza, nella capitale libanese stava iniziando una protesta contro il giudice incaricato di condurre un’inchiesta sull’esplosione del 4 agosto 2020, causata da 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio accatastate nel porto di Beirut senza alcuna misura di sicurezza, e senza che la classe politica del Paese, cosciente del pericolo che quel materiale costituiva per la sicurezza pubblica, facesse qualcosa per impedirlo. L’esplosione ha distrutto il porto di Beirut e causato più di 200 morti, aggravando la crisi economica che imperversa in Libano da quasi tre anni. Ad organizzare questa manifestazione sono stati i sostenitori di Hezbollah, partito sciita, che accusavano il giudice Tarek Bitar di portare avanti un’agenda politica atta a screditare loro e Amal, un’altra fazione sciita vicina ad Hezbollah, oltre che di essere una figura politica alla mercé degli Stati Uniti. Tarek Bitar era stato nominato come sostituto di Fadi Sawan, un magistrato a sua volta rimosso dall'incarico dopo aver incriminato per negligenza diverse cariche dello Stato, come l’ex ministro dei Lavori Pubblici, Youssef Fenianos, e l’ex primo ministro Hassan Diab, che si era formalmente dimesso dopo l’esplosione, ma che in realtà aveva mantenuto l'incarico fino allo scorso settembre. Erano stati incriminati da Fadi Sawan anche l’ex ministro delle Finanze, Ali Hassan Khalil, e l’ex titolare dei trasporti Ghazi Zeaïter. Poiché Khalil e Zeaïter erano deputati di Amal, questa decisione ha contribuito a ravvivare le tensioni settarie nel Paese, soprattutto dopo la bocciatura del ricorso che i due hanno fatto, accusando il giudice Sawan di mancata imparzialità. Nonostante la rimozione di Sawan, la tensione non si è placata, in quanto il giudice Bitar ha promesso di continuare il lavoro del suo predecessore, e, due giorni prima degli scontri, ha emesso un mandato di cattura in contumacia verso Khalil, con l’appoggio della Corte di Cassazione. L’esatta dinamica delle violenze del 14 ottobre è ancora difficile da ricostruire. Secondo la BBC, Hezbollah e Amal hanno accusato dei cecchini delle Forze Libanesi (FL), partito in prevalenza cristiano-maronita, di aver aperto il fuoco contro i manifestanti radunatisi pacificamente davanti al Palazzo di Giustizia di Beirut. Tuttavia FL ha negato questa versione, sostenendo di aver cominciato a sparare solo dopo che le violenze erano già cominciate. In ogni caso, gli scontri non hanno interessato solo cecchini e militari, ma anche i civili che abitavano nell’area circostante e che hanno raccontato di aver dovuto fuggire dalle loro case, o cercare di proteggersi riparandosi sotto i tavoli. Nonostante ciò, le sparatorie hanno causato decine di feriti, e una donna è stata uccisa dentro la sua casa da una pallottola vagante. Queste violenze sono avvenute in un momento molto delicato per il Libano, colpito da una crisi economica gravissima che ha messo il Paese completamente in ginocchio. Le prime avvisaglie di questa crisi si ravvisano nel 2018, quando il prezzo del petrolio aveva cominciato a calare e l’Arabia Saudita, che considera la vicinanza di Hezbollah all’Iran una minaccia per la sua sicurezza interna, aveva ritirato il suo sostegno alle istituzioni libanesi, costringendole così ad aumentare le tasse. Nell’anno successivo, ad ottobre 2019, il Libano attraversava una stagione di proteste di piazza che aveva minato l’ordine politico ed economico del Paese, con i manifestanti che si sono riversati in strada per esprimere il loro dissenso verso il governo di Hassan Diab, accademico vicino alla coalizione sostenuta da Hezbollah, ritenuto incapace di prestare ascolto alle richieste della popolazione. Negli ultimi anni, il sistema economico libanese ha mostrato le sue fragilità insite, acuite da un'eccessiva dominazione del settore bancario e dei settori immobiliari e dei servizi, vicini alla ripartizione partitica del Paese, che ha portato ad una sempre maggiore distribuzione di posti pubblici su base settario-partitica, a discapito di settori più produttivi, e ad un costante incremento del debito pubblico. In mancanza di una buona credibilità a livello interno e internazionale, dovuta alle proteste e all’inizio della stabilità interna nel 2019, ingenti capitali sono stati trasferiti fuori dal Libano, per paura che l’inflazione dilagante ne neutralizzasse il valore. In tutta risposta, le banche del Paese hanno limitato i prelievi agli sportelli, mentre la Banca centrale, che ha posto un cambio ufficiale di 1.500 lire libanesi per dollaro, ha in realtà supportato la creazione di scambi di valuta non ufficiali, dove per dollaro si arrivano a cambiare 20.000 lire libanesi. Inoltre, queste restrizioni sullo scambio di valute hanno colpito pesantemente la capacità di istituzioni e aziende di importare beni di primaria necessità, ad esempio medicinali e carburante. A questa già tragica situazione si aggiungono le recenti tensioni tra Arabia Saudita e Libano: i Paesi del Golfo, infatti, hanno giocato un ruolo essenziale nel fornire assistenza economica al Libano, ma, dopo alcuni commenti critici del Ministro dell’Informazione George Kordahi nei confronti del coinvolgimento saudita nella guerra civile in Yemen, ad inizio novembre l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi e il Bahrein hanno espulso gli ambasciatori libanesi dai loro Paesi, e il 5 novembre il Capo del Consiglio delle Camere saudite, ha scritto un post su Twitter dove invitava compagnie e privati a cessare i rapporti con il Libano. La messa al bando saudita dei prodotti libanesi è un’ulteriore mazzata all’economia di un Paese in ginocchio, il cui lustro dei primi 2000, recuperato faticosamente dopo quindici anni di guerra civile, è solo un lontano ricordo. Il governo insediatosi nella scorsa estate, per ora, non ha dato prova di saper gestire la situazione libanese, né di essere foriero di un cambiamento, ma bisogna mantenere la speranza che la situazione possa cambiare nei prossimi mesi, per il bene dei cittadini libanesi.
A cura di Vittorio Ruocco, Programma sulla politica estera italiana
Cooperazione rafforzata. È questa l’espressione inserita nel titolo del Trattato del Quirinale, un trattato internazionale firmato lo scorso venerdì 26 novembre 2021 dal Presidente della Repubblica francese, Emmanuel Macron, e dal Presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi, alla presenza del Presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella. La cornice nella quale quest’accordo è stato concluso si rivela certamente non casuale, lasciando ampio margine di manovra agli analisti della politica internazionale sul reale significato di una cooperazione che ambisce, tra l’altro, ad accelerare il processo di integrazione europea. In conformità alle norme costituzionali[1], l’accordo non è immediatamente efficace, essendo la sua ratifica subordinata all’esame ed all’approvazione dei rispettivi Parlamenti. Diversi gli ambiti toccati dall’accordo: ambiente, sicurezza, giovani e cultura, con particolare enfasi sulla cooperazione istituzionale dei due Paesi, sia sul piano europeo che su quello bilaterale. Sono da rilevare, infatti, come entrambi convergano sul Mediterraneo come «ambiente comune» oppure sul rafforzamento delle relazioni europee-africane, «con particolare attenzione al Nord Africa, al Sahel e al Corno d’Africa». In questa regione, infatti, si concentrano importanti interessi strategici, come il processo di stabilizzazione della Libia e la partecipazione militare alla task force europea Takuba, impegnandosi contestualmente a realizzare «un’Europa democratica, unita e sovrana». Un richiamo, se si vuole, agli elementi costitutivi di uno Stato[2]. Non mancano, infatti, enunciazioni sull’«autonomia strategica dell’Unione Europea» in chiave economica-monetaria, alimentare e spaziale, alimentando la storica ambizione francese di assumere un ruolo di primo piano nella NATO facendosi promotrice della nascita di una nuova potenza militare europea. Più che sulla concertazione politica continentale, però, il Trattato sembra focalizzarsi sul miglioramento delle relazioni bilaterali, toccandone quasi esaustivamente i temi principali . Nello specifico, particolare enfasi è stata posta sulla cooperazione culturale, transfrontaliera, digitale e nella lotta al terrorismo e al crimine organizzato. Dopo aver richiamato più volte l’accordo culturale italo-francese del 1949, le Parti hanno convenuto di costituire dei fora comuni per fronteggiare le problematiche legate a questi temi come il Consiglio italo-francese di Difesa e Sicurezza (art. 2.2), Unità operativa di polizia italo-francese (art. 4.3), Forum di consultazione dei ministeri della giustizia (art. 4.6) e dei ministeri dell’economia, delle finanze e dello sviluppo economico (art. 5.5), un Dialogo strategico sui trasporti (art. 6.5), il Consiglio franco-italiano della Gioventù (art. 9.1), il Comitato di cooperazione transfrontaliera (art. 10.7) e, soprattutto, il Comitato strategico paritetico dei ministeri degli esteri (art. 11.4). L’iniziativa che, però, ha suscitato maggiore clamore è la partecipazione trimestrale di un membro del Governo di uno dei due Paesi al Consiglio dei ministri dell’altro Paese (art. 11.3), un articolo che, così come l’intero corpo dell’accordo, richiama la medesima iniziativa franco-tedesca adottata con il Trattato di Aquisgrana (2019), siglato tra la Francia di Macron e la Germania dell’ormai ex Cancelliera Angela Merkel per rinnovare il più famoso Trattato dell’Eliseo (1963). Parigi ha, quindi, manifestatamente definito il rafforzamento della cooperazione bilaterale sia con Berlino che con Roma, i quali mancano ad oggi di un’intesa simile tra loro. Il tramonto dell’era Merkel sembra aver lasciato un vuoto nella politica europea e la firma al Quirinale proverebbe a soddisfare le esigenze delle due potenze: la Francia bisognosa di un partner che colmi la (temporanea) lacuna lasciata dalla transizione politica tedesca; lo Stivale alla ricerca di una via (o di un alleato) che possa ridarle credibilità in Europa e nel Mediterraneo, tentando, forse, di elaborare una politica estera globale; le politiche pubbliche di entrambi i Paesi che palesano comuni auspici, considerato l’indebitamento post-emergenziale, le convergenze sul fondo Next Generation EU e sulle “necessarie” riforme europee per la spesa pubblica. Non va dimenticato il rapporto personale tra Draghi e Macron: ex banchieri favorevoli ad un’Europa più audace e risolutrice dei tradizionali problemi economici, un rapporto personale «di fiducia reciproca» come già descritto dal Presidente del Consiglio italiano[3]. Un grande successo, dunque, che sembra lasciare nell’ombra i non trascurabili dissidi tra i due Paesi alpini. La collaborazione bilaterale sulla cybersicurezza, sul cloud e sull’intelligenza artificiale, sulla connettività e sul 5G-6G – elementi del perimetro di sicurezza nazionale cibernetica[4] - non può che ricordare la vicenda TIM-Vivendi, in cui il gruppo francese è azionista di maggioranza di una delle aziende strategiche nazionali, alle prese con l’offerta di acquisizione da parte del fondo statunitense KKR a cui Vincent Bolloré[5] si oppone fermamente. Alle questioni irrisolte si aggiunge anche la definizione dei confini marittimi italo-francesi, il cui tentativo nel 2015[6] ha provocato un forte dibattito nell’opinione pubblica italiana. Non solo, anche l’acquisizione dei cantieri di Saint-Nazaire da parte di Finmeccanica nel 2017 rappresenta una delle spine nel rapporto bilaterale, considerato che l’operazione è stata osteggiata proprio dalla temporanea nazionalizzazione del sito industriale decisa da Macron. Vicende che, oggi, sono volontariamente relegate all’ombra, a favore di un rilancio dell’Europa a guida italo-franco-tedesca. Impedendo al misogallismo di spuntarla, la cerimonia di firma in pompa magna ha eccezionalmente rappresentato il successo di una politica estera di relativamente lungo corso, promossa non dal Governo, puntualmente soggetto a rimpasti, bensì proprio dal Quirinale. Mentre a Palazzo Chigi si sono succeduti quattro governi, espressioni di singolari maggioranze parlamentari, la stabilità della sua carica ha consentito alla Presidenza della Repubblica di favorire l’avvicinamento di ciò che il Guardian ha definito “the three leading European powers”: Francia, Italia e Germania. L’abbandono di un partner importante come il Regno Unito nel 2016, l’adozione di una più individualista politica estera statunitense, prima trumpiana poi bideniana, il marcato euroscetticismo del gruppo di Visegrad. Elementi, questi, che hanno certamente giocato un ruolo di primo piano nel favorire una nuova concertazione europea, un momento prospero che sia Macron che Mattarella hanno saputo cogliere, malgrado i rallentamenti provocati dal governo giallo-verde nell’incrinare il rapporto diplomatico con il richiamo dell’ambasciatore francese al Quai d’Orsay. Sono stati proprio i pentastellati, ancora oggi al Governo, ad aver ripetutamente attaccato i vicini d’oltralpe sulla TAV, la Libia e l’immigrazione, la Françafrique, fino a sostenere pubblicamente i gilet gialli. Dissidi che con il Trattato del Quirinale sembrano relegati ad una storia che resta, tuttavia, recente. [1] art. 80 della Costituzione italiana (1948) e art. 53 della Costituzione francese (1958) [2] Gli elementi costitutivi dello Stato sono convenzionalmente individuati in: a) popolo; b) territorio; c) governo o sovranità. [3] A margine della Conferenza Internazionale sulla Libia (12 novembre 2021), il Presidente del Consiglio dei ministri Mario Draghi ha affermato che il riaccostamento delle posizioni italo-francesi sulla Libia è frutto anche del loro rapporto di fiducia reciproca. Per approfondire: https://www.governo.it/it/articolo/il-presidente-draghi-alla-conferenza-internazionale-sulla-libia/18514 [4] Per approfondire: https://www.camera.it/temiap/documentazione/temi/pdf/1123773.pdf?_1638105139217 [5] Presidente della società Vivendi, detentrice del 23,75% delle azioni del gruppo TIM (dati al 30 settembre 2021). Fonte: https://www.gruppotim.it/it/investitori/azioni/azionisti.html [6] Il 21 marzo 2015, i governi francese e italiano hanno sottoscritto l’accordo di Caen relativo alla delimitazione del mare territoriale e delle zone soggette alla rispettiva giurisdizione nazionale . Nell’opinione pubblica italiana, veniva contestato da più parti che l’allora Governo Renzi avesse ceduto alla Francia parte delle acque territoriali sarde, con l’aggravante che le forze di polizia marittima francesi applicarono immediatamente i nuovi confini marittimi, sebbene l’accordo non fosse (e non è) ancora stato ratificato da parte italiana. a cura di Giorgio Catania Allarme in vista delle elezioni di metà mandato (midterm) del prossimo anno. Lo smacco più evidente al presidente è arrivato dalla Virginia. Qui alle presidenziali del 2020 Joe Biden aveva trionfato su Donald Trump con un margine di 10 punti percentuali. Dodici mesi dopo, il democratico Terry McAuliff ha ceduto il passo al repubblicano Glenn Youngkin. La sconfitta assume dei connotati ancor più fragorosi se pensiamo alla campagna elettorale del Partito Democratico, che ha visto il coinvolgimento di personalità del calibro di Biden, Kamala Harris, Barack Obama ed i coniugi Clinton. Il verdetto è stato chiaro e, secondo molti analisti, è destinato a spingere la possibile ricandidatura di Trump nel 2024. Del resto, il voto del Super Tuesday per rinnovare governatori e sindaci rappresenta molto più di una tornata elettorale e viene interpretato come un giudizio degli americani sul primo anno di Presidenza Biden. Tra le cause della sconfitta Dem, c’è senza dubbio il costante aumento dei prezzi negli Stati Uniti, non solo dei beni alimentari. Benzina ed auto usate sono divenute costosissime o addirittura introvabili per la mancanza di microchip. Di certo il manager milionario Youngkin è stato in grado di mobilitare tutto l’elettorato repubblicano e di attirare le simpatie di tutti gli elettori indipendenti, evitando di identificarsi completamente con Trump: ha semplicemente accettato il suo appoggio senza richiedere la sua presenza fisica in Virginia. A complicare ulteriormente lo scenario sono le elezioni per il governatore del New Jersey, dove il governatore uscente, il democratico Phil Murphy, è stato rieletto con un risicatissimo margine di scarto (50% a 49%) nella gara con il repubblicano Jack Ciattarelli, diventando il primo democratico a vincere un secondo mandato in questo Stato negli ultimi 44 anni. Una vittoria che ha evitato una “Caporetto” per i Democratici ma che fa riflettere molto, visto e considerato che in New Jersey un anno fa Biden aveva sconfitto Trump con un distacco di circa 16 punti percentuali. La lezione che il Partito dell’Asinello dovrebbe imparare è che l’anti-trumpismo sembra non funzionare più come una volta. I Democratici hanno probabilmente sbagliato a fondare buona parte della loro campagna elettorale sulla demonizzazione di Donald Trump. Il “fattore Trump” – che si era rivelato decisivo in occasione delle elezioni presidenziali del 2021 – non ha più la stessa presa nell’elettorato americano. La sconfitta in Virginia e la vittoria risicata in New Jersey rappresentano qualcosa di più di un campanello d’allarme. A novembre 2022 si svolgeranno infatti le elezioni di midterm ed i Dem rischiano di perdere il controllo della Camera e del Senato. Una rimonta sarebbe possibile solo grazie ad una forte ripresa dell’economia, dell’occupazione ed una riduzione dell’inflazione (fino ad oggi galoppante). Tutto ciò passa attraverso l’implementazione dei piani di investimenti per le infrastrutture e la protezione sociale. Inizialmente Biden aveva previsto una spesa di 2300 miliardi per le riforme infrastrutturali e di 1800 miliardi per le riforme sociali ma oggi – a causa dell’opposizione del senatore Dem Joe Manchin – deve far fronte ad un ridimensionamento che porta l’Infrastructure Bill ad una cifra vicina ai 1100 miliardi di dollari. I primi segnali incoraggianti stanno arrivando dai numeri della disoccupazione, che (seppur non uniformemente) sta calando in modo sostanzioso e viaggia verso livelli pre-covid. Restano problematici i livelli di inflazione. L’incremento generale dei prezzi sta mettendo in difficoltà molte famiglie americane e non accenna a frenare. I vertici del Partito Democratico sono convinti che la dinamica inflattiva sia un qualcosa di temporaneo ma così non è. Infatti, stando alle parole della Segretaria al Tesoro Janet Yellen, è lecito aspettarsi dei miglioramenti significativi solo “nella seconda metà del 2022”.
A cura di Erika Frontini, Osservatorio sull'Unione europea
Con una sentenza senza precedenti nella storia dell’integrazione europea, lo scorso ottobre la Corte Costituzionale polacca ha portato le tensioni tra questo Paese e le istituzioni europee in materia di stato di diritto ad un nuovo livello. I giudici di Varsavia hanno dichiarato che alcuni articoli dei Trattati sono incompatibili con la Costituzione polacca, aprendo la strada alla disapplicazione delle norme comunitarie da parte delle autorità nazionali. Nello specifico, la sentenza riguarda gli articoli 1 e 19 del Trattato sull’Unione Europea, i quali stabiliscono il primato del diritto europeo su quello nazionale[i]. Questa sentenza marca, di fatto, l’avvenuta negazione di un pilastro fondamentale dell’ordinamento giuridico europeo. La sentenza costituisce un nuovo capitolo di una dinamica di lungo corso che ha più volte visto le autorità polacche violare i principi fondamentali dello stato di diritto. Dalla sua ascesa al governo nel 2015, il partito Diritto e Giustizia è stato accusato di compromettere l’indipendenza del potere giudiziario, la libertà di espressione e alcuni diritti civili. Le istituzioni europee hanno risposto attivando i diversi meccanismi a disposizione, ma con scarso successo, sia perché tali strumenti soffrono di significative carenze strutturali, sia a causa di una debole coesione da parte degli Stati membri, dovuta anche al fatto che quello polacco non è un caso isolato. Migliori risultati potrebbero scaturire dal nuovo meccanismo di condizionalità finalizzato a sospendere l’erogazione dei fondi europei in caso di mancato rispetto dello stato di diritto. Tuttavia, nonostante le crescenti pressioni da parte del Parlamento europeo, la Commissione ha ribadito di non voler attivare tale strumento prima che la Corte Europea di Giustizia si sia espressa sulla sua legalità, nel rispetto di un compromesso raggiunto nel dicembre 2020 con i governi ungherese e polacco, i quali sostengono che all’UE non sia mai stata attribuita la competenza di stabilire come gli Stati membri dovessero dare attuazione allo stato di diritto ed organizzare il potere giudiziario a livello nazionale[ii]. La sentenza di ottobre segue una precedente pronuncia della Corte di giustizia dell’UE che aveva dichiarato l’introduzione di una sezione disciplinare della Corte suprema polacca incompatibile con il diritto europeo, chiedendone l’immediata sospensione[iii]. Tale organo avrebbe la funzione di indagare sugli errori giudiziari dei magistrati, con poteri molto ampi, tra cui la facoltà di avviare procedimenti penali contro i giudici che criticano le riforme giudiziarie e le nomine di cariche pubbliche[iv]. Il governo polacco non ha gradito quella che ritiene un’ingerenza illegittima in una materia di competenza nazionale ed ha quindi invitato il massimo organo giurisdizionale polacco ad esprimersi sul primato del diritto europeo. Tale principio sancisce il valore superiore del diritto europeo rispetto ai diritti nazionali degli Stati membri e vale per tutti gli atti europei di carattere vincolante. Ne deriva che gli Stati membri non possono applicare norme nazionali di qualsiasi natura se contrarie al diritto europeo[v]. Il principio non è contemplato nei Trattati, ma è stato introdotto dalla Corte di giustizia, in particolare nella sentenza Costa contro Enel del 1964, nella quale la Corte ha stabilito che, al fine di preservare la peculiare natura del diritto comunitario, questo prevale sulle leggi nazionali, anche quelle antecedenti alla firma dei Trattati. Il concetto ha poi continuato a prendere forma nella giurisprudenza della Corte, attraverso un dialogo spesso conflittuale con le corti nazionali. Infatti, sarebbe scorretto affermare che la supremazia del diritto europeo non sia mai stata messa in discussione prima dell’episodio polacco. Negli anni, la definizione di tale principio così come elaborata dalla Corte di giustizia è stata oggetto di contestazioni da parte di diversi tribunali costituzionali, quali, ad esempio, quelli italiano e tedesco. Questi hanno più volte sottolineato l’esistenza di “contro-limiti” alla diretta applicazione del diritto comunitario, che non può porsi in violazione dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale nazionale, come affermato dalla Corte costituzionale italiana nel 1973[vi]. Una posizione ancora più critica si può riscontrare in “Solange I”: partendo dal presupposto che l’ordinamento nazionale e quello comunitario sono due realtà distinte ed autonome, nel 1974 il Tribunale costituzionale tedesco negò l’esistenza di un primato assoluto del diritto europeo fintantoché questo non garantisse un livello di protezione dei diritti fondamentali almeno pari a quello offerto dalla Legge fondamentale tedesca. Pertanto, la corte tedesca avrebbe continuato a verificare la compatibilità delle norme comunitarie con la carta costituzionale[vii]. Nel tempo, i giudici tedeschi hanno assunto toni più conciliatori, arrivando a ribaltare le conclusioni precedenti in “Solange II”, dove il Tribunale federale rinuncia ad esercitare il controllo di costituzionalità sugli atti comunitari in virtù del fatto che, alla luce dei successivi sviluppi intervenuti nel processo di integrazione, il diritto europeo e la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’UE assicurano una protezione efficace dei diritti fondamentali[viii]. Similmente, in “Granital” e “Fragd” la Corte costituzionale italiana ha riconosciuto la prevalenza immediata delle norme europee, ma sempre nel rispetto dei supremi principi costituzionali. Tuttavia, il dibattito sul primato del diritto europeo è tutt’altro che chiuso. Recentemente, ha fatto molto discutere una nuova sentenza del Tribunale costituzionale tedesco che ha messo in dubbio la legalità del programma di quantitative easing, minando l’autorità della Corte europea che lo aveva già riconosciuto come conforme ai Trattati[ix]. Rispetto a quest’ultimo episodio, la sentenza polacca differisce in quanto non si limita ad una misura specifica, ma dichiara espressamente la prevalenza del diritto nazionale su quello comunitario. Inoltre, il caso polacco desta grande preoccupazione perché, diversamente dai precedenti, non siamo di fronte ad un dibattito di natura prettamente giuridica, ma ad uno scontro politico-istituzionale i cui toni si fanno sempre più ostili, lasciando poco margine di compromesso - al punto che la Corte polacca individua come possibili soluzioni al conflitto normativo la modifica della Costituzione, la modifica delle norme europee o l’uscita della Polonia dall’Unione[x]. In realtà, né il governo né il popolo polacco hanno intenzione di uscire dall’UE[xi]. Tuttavia, la vicenda fa presagire una “legal polexit”: nel caso in cui la sentenza venisse implementata, l’applicazione di tutte le norme che derivano dal diritto europeo in Polonia non sarebbe più garantita. I giudici polacchi si troverebbero a dover scegliere tra violare il diritto europeo o quello nazionale, rischiando, nella seconda ipotesi, di essere sanzionati[xii]. A rimetterci sarebbero in primo luogo i cittadini polacchi, che rischierebbero di non vedersi più riconosciuti molti diritti. Ma un simile scenario avrebbe conseguenze gravi per l’integrità dell’ordinamento europeo in tutti i suoi settori: se l’applicazione delle norme europee in un Paese membro non è più assicurata, il libero movimento di beni, servizi, capitali e persone non sarà più garantito[xiii]. Di fatto, questo processo è già iniziato: alcuni Stati membri hanno sospeso le estradizioni verso la Polonia per timore che i sospettati non subiscano un giusto processo[xiv]. Oltre a ciò, a destare timore è anche l’effetto contagio: come la Polonia, altri Paesi potrebbero decidere di non implementare specifiche norme dell’ordinamento giuridico europeo, svuotandolo di ogni legittimità ed efficacia. Per queste ragioni, la sentenza di ottobre non è semplicemente un nuovo episodio della saga riguardante lo stato di diritto in Polonia, ma si inserisce nel più ampio dibattito sulla natura e sul futuro del processo di integrazione europea. Rappresenta infatti una manifestazione dell’opposizione tra l’idea di “un’Europa sempre più unita”, da una parte, e “un’Europa delle nazioni”, dall’altra - una tensione che ha sempre fatto da sfondo al processo di integrazione. La posizione difesa dal governo polacco (e da molte altre forze politiche nel continente) è indubbiamente la seconda, come dimostrano le parole pronunciate dal premier Morawiecki nel suo intervento al Parlamento europeo: “L’UE è una grande conquista dei Paesi europei ed è una forte alleanza economica, politica e sociale ed è l’organizzazione più forte e meglio sviluppata della storia. Però l’UE non è uno Stato, lo sono invece gli Stati membri della UE. Gli Stati sono quelli che rimangono sovrani al di sopra dei Trattati”[xv]. Al contrario, la supremazia del diritto europeo e le modalità con cui tale principio si è affermato sono espressione di un’integrazione sempre più profonda, che oltrepassa i confini fisici e giuridici degli Stati. In tal senso, questa sentenza e ciò che ne conseguirà potrebbero avere un ruolo importante nel tracciare la direzione che il progetto europeo prenderà nel prossimo futuro. [i] La Polonia non riconoscerà più la supremazia delle leggi europee, Il Post, 8 ottobre 2021, https://www.ilpost.it/2021/10/08/polonia-sentenza-unione-europea/ [ii] S. Fabbrini, La questione polacca e il destino della Ue, Il Sole 24 Ore, 19 ottobre 2021, https://www.ilsole24ore.com/art/la-questione-polacca-e-destino-ue-AEkaXUq [iii] Corte di giustizia dell’Unione Europea, Ordinanza del vicepresidente della Corte, C-204/21 R, 14 luglio 2021, https://bit.ly/30UtwQO [iv] Lo “Stato di diritto” che c’è sempre meno, in Polonia, Il Post, 23 ottobre 2021, https://www.ilpost.it/2021/10/23/stato-di-diritto-unione-europea-giustizia/ [v] Il primato del diritto europeo, Glossario delle sintesi, Eur-Lex, consultato il 26 ottobre 2021, https://bit.ly/3mgWzqb [vi] Corte Costituzionale, Sentenza 183/1973, 18 dicembre 1973, https://bit.ly/31pddMp [vii] BverfGE, Solange I, 37, 291, 29 maggio 1974 [viii] BverfGE, Solange II, 73, 339, 22 ottobre 1986 [ix] S. Auer e N. Scicluna, Poland has a point about the EU’s legal supremacy, Politico, 19 ottobre 2021, https://www.politico.eu/article/poland-court-eu-legal-supremacy/ [x] D. Prestigiacomo, Polexit: hanno ragione i giudici polacchi? Come stanno le cose (e il "precedente" italiano), Europa Today, 26 ottobre 2021, https://europa.today.it/fake-fact/primato-nazionale-leggi-ue-caso-italiano-polexit.html [xi] L. Misculin, No, la Polonia non sta per uscire dall’Unione Europea, Il Post, 11 ottobre 2021, https://www.ilpost.it/2021/10/11/polonia-polexit/ [xii] S. Amiel e C. Pitchers, 'Polexit': Will Poland's 'nuclear strike' on EU's legal order lead to the country quitting the bloc?, Euronews, 8 ottobre 2021, https://www.euronews.com/2021/10/08/polexit-will-poland-s-nuclear-strike-on-eu-s-legal-order-lead-to-the-country-quitting-the- [xiii] Poland is a problem for the EU precisely because it will not leave, The Economist, 14 ottobre 2021, https://www.economist.com/europe/2021/10/14/poland-is-a-problem-for-the-eu-precisely-because-it-will-not-leave [xiv] E. Zalan, Poland questions EU legal primacy in court ruling, Eu Observer, 8 ottobre 2021, https://euobserver.com/democracy/153170 [xv] Polonia, scontro al Parlamento Ue. Von der Leyen: “Recovery bloccato a chi viola lo stato di diritto”. Varsavia: “Stati sovrani sui Trattati”, ma apre alle richieste di Bruxelles sull’indipendenza dei giudici, Il Fatto Quotidiano, 19 ottobre 2021, https://bit.ly/3jFNg1g a cura di Giulia Pavan
Il 15 agosto 2021 ha segnato profondamente la storia dell’Afghanistan con la presa della capitale Kabul da parte dei talebani, che ha determinato la nascita del nuovo Emirato islamico dell’Afghanistan. L’offensiva dei talebani, volta a riprendere il controllo dell’Afghanistan, era cominciata all’inizio di luglio dopo che l’esercito statunitense aveva iniziato la ritirata dal paese. In poco tempo, le truppe islamiche sono riuscite a prendere il controllo di alcune delle città più importanti del Paese tra cui Herat, Kandahar e Ghazni, senza incontrare quasi nessuna resistenza da parte delle forze governative e di polizia. Infine, il completamento della conquista del paese con la presa di Kabul ha segnato definitivamente la fine dell’esilio dei talebani, iniziato nel 2001 con l’operazione “Enduring Freedom” guidata dagli Stati Uniti. L’ingresso dei talebani a Kabul ha costretto alla fuga in Uzbekistan il presidente afghano Ashraf Ghani. La fuga del Presidente ha determinato l’evacuazione di diverse ambasciate e il rimpatrio immediato di numerosi giornalisti e diplomatici che rischiavano rappresaglie da parte dei talebani. Il forte clima di tensione nel Paese ha scatenato il panico tra i civili, preoccupati per l’insediamento del nuovo governo e per il proprio futuro. Soprattutto le donne si sono dimostrate allarmate di fronte al ritorno di un regime storicamente violento e repressivo nei loro confronti; infatti, nel 1996, quando i talebani per la prima volta salirono al potere in Afghanistan, i diritti che le donne erano riuscite a conquistare negli anni precedenti furono soppressi brutalmente. Il percorso di emancipazione della donna in Afghanistan iniziò con l’ascesa al trono del re Amanullah nel 1919. Durante il suo regno vennero messe in atto molteplici riforme liberali nei confronti delle donne, con l’obiettivo di risollevare la figura femminile da una visione della società prettamente patriarcale, elevandone il ruolo attraverso l’istruzione, la partecipazione alla vita pubblica e la libertà di espressione. Nel 1921 il matrimonio forzato venne abolito e nel 1964 le donne ottennero il diritto di voto e di essere elette nelle cariche elettive. Nel 1977 venne fondata l'Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afgane (RAWA) e nel 1978 nacque il consiglio delle donne afgane, che contribuì alla decisione del governo di concedere gli stessi diritti alle donne in tutti gli ambiti. Tuttavia, L’arrivo dei talebani segnò una profonda regressione del ruolo della donna, che venne esclusa totalmente dalla vita sociale, politica e lavorativa. Le donne vennero private di ogni libertà, segregate in casa, obbligate ad indossare il burqa, sottomesse all’autorità maschile e furono soggette a violenze ed abusi. La fine del regime dei talebani nel 2001, riaccese la lotta per l’emancipazione femminile in Afghanistan e portò all’abrogazione di tutti i divieti imposti precedentemente dai talebani. Le donne riconquistarono la maggior parte dei loro diritti, accompagnati da importanti sviluppi economici, politici e sociali a favore della popolazione femminile. Oggi, dopo appena due mesi dalla caduta del governo e dal ritorno dei talebani in Afghanistan, le preoccupazioni iniziali riguardanti il futuro delle donne nel paese, sono ormai una triste e concreta realtà. Inizialmente, i talebani avevano dichiarato di voler riconoscere il ruolo delle donne nella società e tutelarne i diritti. “L’Emirato islamico non vuole che le donne siano vittime. Dovrebbero essere nella struttura del governo in base alla sharia”, queste erano state le parole di Enamullah Samangani, rappresentante della “commissione cultura” dei talebani. Tuttavia, quello che sta accadendo ora nel paese non potrebbe essere più lontano dalle promesse fatte dal nuovo governo. Attraverso testimonianze e notizie che filtrano dal territorio, è evidente come le donne siano le vittime principali del nuovo regime politico. La legge islamica (Sharia) attualmente seguita dai talebani prevede una totale repressione del ruolo della donna, la quale viene privata di ogni diritto e sottomessa totalmente alla volontà maschile. I divieti attualmente imposti alle donne in Afghanistan rappresentano la negazione lampante della Dichiarazione Universale sui Diritti Umani che venne approvata dalle Nazioni Unite nel 1948, al fine di proteggere gli individui dai crimini del totalitarismo. Tra i diritti negati alle donne c’è quello di praticare sport, tale divieto è dovuto al fatto che le donne facendo sport potrebbero essere esposte al rischio di mostrare il corpo o il viso, circostanza non permessa dall’islam. Dal punto di vista politico alla donna non è concesso diventare ministro, poiché il suo ruolo è ritenuto strettamente legato alla procreazione e alla cura della famiglia. L’istruzione femminile è concessa a livello superiore e universitario, a condizione che le studentesse si attengano a dure restrizioni sul loro abbigliamento e sui loro movimenti. Nelle scuole vi è una netta separazione degli spazi tra maschi e femmine, per evitare qualsiasi tipo di rapporto tra i due sessi. Gli abusi e la violenza sulle donne sono aumentati notevolmente, a causa della totale assenza di protezione e tutela verso la popolazione femminile. L’imposizione di codici di abbigliamento obbligatori, la segregazione forzata e il divieto della libertà di espressione, hanno scosso notevolmente la popolazione femminile afgana. Numerose proteste si sono diffuse nel paese, capitaniate da donne che reclamano i loro diritti, specialmente il diritto all’istruzione e il diritto di vestirsi liberamente. Le proteste sono state represse dal governo talebano, non sono mancati gli atti di violenza in cui sono rimaste ferite diverse manifestanti. Queste proteste dimostrano come le donne afgane abbiano acquisito più consapevolezza e determinazione nel difendere i loro diritti, rispetto al 1996 e non sembrano voler rimanere impassibili di fronte alla loro stessa cancellazione; infatti, hanno apertamente dichiarato guerra ad un governo fondato sul patriarcato e sul dispotismo. La speranza, oggi, è quella che la comunità internazionale non rimanga indifferente di fronte a questi abusi verso il mondo femminile. Il Consiglio Europeo ha ribadito l’impegno dell'UE nel sostenere la pace e la stabilità nel paese afghano, offrendo un aiuto operativo soprattutto a sostegno dei diritti delle donne. Inoltre, è stato indetto un G20 straordinario per discutere della crisi afghana, nel quale i leader internazionali hanno ideato una possibile risposta multilaterale alla crisi in atto. Anche l’Onu ha fatto un appello al governo talebano affinché collabori per la realizzazione dell’obiettivo n. 5 dell’Agenda Onu 2030: “raggiungere l’uguaglianza di genere e l’autodeterminazione di tutte le donne e ragazze”. Tuttavia, i molteplici appelli rivolti all’Afghanistan dai vertici della comunità internazionale non hanno sortito alcun effetto. Ad oggi, le prospettive future per le donne afgane sono incerte. Osservando l’andamento della linea politica perseguita dai talebani finora, le previsioni sono tutt’altro che rosee. Solamente la determinazione della comunità femminile in Afghanistan e l’intervento concreto delle autorità internazionali potranno influenzare gli eventi futuri e restituire alle donne i diritti che spettano loro. a cura di Youssef Siher Il 5 settembre scorso l'Africa occidentale è stata di nuovo scossa da un colpo di stato in Guinea ad opera dell'esercito del paese, capeggiato dal colonnello Mamady Doumbouya. Il golpe portò alla deposizione del presidente in carica Alpha Condé (rieletto per il suo terzo mandato nell’ottobre 2020, dopo che aveva modificato la Costituzione, la quale negava la rielezione dopo due mandati), allo scioglimento del governo, alla cancellazione della Costituzione e alla sostituzione dei governatori regionali con militari. Doumbouya ha poi spiegato in un comunicato nella tv nazionale guineana che l'azione violenta intrapresa dall'esercito incarni la volontà del popolo. Popolo che egli descrive come martoriato da povertà estrema e oppresso da una classe dirigente politica corrotta. Infatti la Guinea si trova al 178esimo posto per l'Indice di Sviluppo Umano, circa metà della sua popolazione vive sotto la soglia di povertà e il suo sistema sanitario non è riuscito a reggere il duro colpo della pandemia da Covid-19 oltre alla già devastante epidemia di Ebola che aveva provocato migliaia di decessi nel paese negli ultimi anni. La speranza di vita alla nascita è di 58 anni per gli uomini e 60 per le donne. Il tasso di alfabetizzazione si aggira intorno al 30%, mentre la spesa del governo per l'istruzione non supera il 2,6% del PIL nazionale. Dati tragicamente sorprendenti se si tiene in considerazione che il sottosuolo della Guinea è uno dei più ricchi di tutta l'Africa. Oltre a importanti giacimenti di petrolio e miniere di oro, le riserve di bauxite (materiale utilizzato per la produzione di alluminio) presenti nel paese subsahariano rappresentano, secondo le stime, la metà della riserva mondiale. Inoltre, in termini di diritti umani e civili, la Guinea si trova in una posizione veramente drammatica. Negli ultimi anni si sono moltiplicate le manifestazioni e le proteste contro un sistema politico corrotto e contro il presidente Condé, stimato e legittimato un decennio fa ma poi criticato e condannato per la sua spietatezza e la sua forte repressione del dissenso e delle libertà. Dalla fine del 2019 la situazione nel paese era peggiorata dopo la decisione del presidente Condé di modificare la Costituzione per potersi ricandidare ad un terzo mandato. Le manifestazioni contro la sua candidatura e la successiva vittoria alle elezioni presidenziali dell’ottobre 2020 hanno provocato più di 60 morti, centinaia di feriti e arresti. Il colpo di stato militare è stato quindi visto da una buona parte della popolazione come una liberazione da una dittatura violenta e reprimente. Doumbouya è stato elevato a eroe e figura importante per la transizione del paese verso elezioni democratiche. Il colonnello Doumbouya, capo delle forze speciali dell'esercito ed ex legionario francese, ha preso poi potere quale nuovo capo dello stato guineano in quanto presidente del Comitato nazionale per la Riconciliazione e lo Sviluppo (CNRD), giunta dell'esercito che si è prefissata l’obiettivo di guidare il paese, per un periodo di transizione di 18 mesi, verso la democrazia. In data 6 settembre Doumbouya ha infatti convocato il presidente del consiglio uscente Ibrahima Kassory Fofana e i membri del suo esecutivo come simbolo di conciliazione. Doumbouya promette infatti che l'intento della giunta militare è quello di «creare le condizioni per un nuovo inizio politico e sociale» e non adottare misure di repressione della classe politica uscente. Parole di conforto anche verso la comunità internazionale da parte del neo presidente Doumbouya, che ha rassicurato i grandi clienti del paese (la Cina compra circa metà della bauxite estratta) che la produzione e l'estrazione non sarebbero state interrotte. Il business con la Cina è stimato infatti a 3 miliardi di dollari, un introito non indifferente per le casse dello stato. Nonostante ciò, il Segretario Generale dell'ONU ha condannato fermamente il colpo di stato e ha chiesto l'immediato rilascio del presidente Alpha Condé. La Cina e gli Stati Uniti si sono anch'essi immediatamente espressi contro il colpo di stato e si sono dimostrati ostili al governo militare. Reazione seguita poi dalla maggior parte della comunità internazionale. Il 28 settembre il CNRD ha poi presentato uno “Statuto della transizione” che delinea i doveri del governo di transizione. Lo statuto istituisce un governo guidato da un primo ministro civile e un Consiglio Nazionale di Transizione (CNT) che fungerà da assemblea costituente. Il consiglio sarà composto da 81 membri tra esponenti di partiti politici, forze di sicurezza, sindacati, imprenditori e cittadini indipendenti. L’organismo dovrà inoltre avere tra i suoi membri almeno il 30% di donne. La particolarità di questa carta è che vieta a tutti coloro che prenderanno parte alla transizione di candidarsi alle prossime elezioni nazionali e locali. La carta vieta poi a tutti i membri del governo Condé di poter partecipare alla stesura della nuova Costituzione. Sembra che la comunità internazionale stia guardando con attenzione, e non più solo con avversione, alla transizione democratica della Guinea. L'ambasciatore della Guinea all'ONU ha spiegato all’Assemblea Generale che la nuova Costituzione sarebbe stata redatta prima delle nuove elezioni. Il FNDC (Front National Por La Défense De La Constitution), cioè il movimento politico civile che lottava contro il vecchio sistema politico, ha espresso parere favorevole all'apertura e all'impegno della giunta militare verso la democrazia partecipata e ha accolto con favore la visita di Doumbouya al cimitero di Bambeto, nella periferia della capitale, Conakry, per rendere omaggio alle persone uccise durante la repressione delle proteste contro il terzo mandato di Condé, definendolo come un «atto altamente simbolico». Ora non ci resta che aspettare e osservare l’evoluzione di questa transizione democratica, sperando che non faccia la fine di quella che era stata portata avanti un decennio fa dall'allora eletto democraticamente (prima volta nella storia della Guinea) e oggi deposto militarmente, Alpha Condé.
Il Nicaragua e le elezioni di novembre: quale impatto sulla regione e sui rapporti internazionali?5/11/2021
a cura di Andrea Barbato Dopo diversi anni di apparente stabilità, dal 2018 il Nicaragua è tornato ad essere un attore sotto osservazione dalla comunità internazionale. L'ondata di proteste e di rivendicazioni sociali iniziata ormai quattro anni fa, ha riacceso vecchi conflitti irrisolti dando vita ad un rapido e progressivo deterioramento del sistema democratico. Oggi, in vista delle elezioni generali del 7 novembre 2021, il paese centroamericano si presenta come uno dei più preoccupanti scenari di crisi nel mondo. Il Nicaragua è sempre stato uno dei paesi più instabili della regione centroamericana e, in generale, di tutta l'America Latina. Scenario di lunghi e sanguinosi conflitti civili, oggetto di interferenza statunitense durante l'amministrazione Reagan, nell’ambito della lotta alle guerrillas attraverso i contras, con quello che sarebbe poi diventato famoso come l'iran-contra affair. Protagonista, inoltre, di uno dei pochi conflitti interstatali combattuti sul suolo americano, nel contesto della guerra civile di El Salvador (dal 1979 al 1992). Da quando i Sandinisti, guidati da Daniel Ortega, hanno ripreso il potere nel 2007, il Paese ha vissuto un progressivo declino sotto tutti i punti di vista. Dal 2018, alle ondate di proteste che si sono susseguite, il governo ha risposto con una repressione drastica e violenta, che ha provocato numerosi morti, feriti, incarcerazioni arbitrarie e casi di tortura. Nel 2019, complici le forti pressioni esterne, il governo sandinista e l'alianza civica, ovvero l'opposizione, si sono resi protagonisti di un importante processo di de-escalation volto a favorire una stabilizzazione politica nel paese, ma i risultati sono stati pochi e decisamente temporanei. Nel 2020, soprattutto in seguito alla promulgazione di alcune leggi con chiari intenti discriminatori e volti a marginalizzare le opposizioni, la situazione politica nel paese è degenerata in una vera e propria crisi. Se già nel 2018 la comunità internazionale aveva reagito condannando fermamente la deriva anti-democratica, negli ultimi due anni l'involuzione ha subito un'accelerazione disarmante, diventando oggetto di numerosi appelli da parte di più attori internazionali. A partire dai primi mesi del 2021, in particolare a partire da maggio 2021, quando le autorità giudiziarie nicaraguensi hanno ordinato l’arresto di 37 figure di primo piano delle opposizioni, queste ultime sono progressivamente sparite. Il 7 agosto 2021, il principale partito d'opposizione è stato escluso dalla competizione elettorale, certificando ufficialmente il percorso verso una campagna presidenziale priva di alcun presupposto democratico. Il Nicaragua è una delle economie più fragili e deboli al mondo. Già prima della pandemia, il paese stava attraversando una dura recessione, la crisi sanitaria non ha fatto altro che esacerbare una situazione già ai limiti. L'impatto della pandemia sul piano economico è ben identificabile nelle previsioni della Banca Mondiale per il secondo semestre del 2021, durante il quale ci sarebbe da aspettarsi il terzo peggior dato al mondo, dopo Haiti e il Venezuela, per quel che riguarda la crescita del PIL. Comprendere l'attuale, tremenda, crisi politica e sociale del paese centroamericano senza essere a conoscenza della gravità della sua crisi economica sarebbe impossibile. Se il consenso di Daniel Ortega era già in netto calo prima dell'inizio della recessione, con l'inizio di quest'ultima e con il suo acuirsi durante la pandemia, per Ortega era diventato ormai impossibile risalire nei sondaggi. Per le prossime elezioni in Nicaragua si prospetta una facile vittoria per Ortega e per i Sandinisti, soprattutto considerato che le poche opposizioni lasciate libere di competere vengono identificate come politicamente amichevoli nei confronti del governo sandinista. Lo scenario che verrà a delinearsi, frutto di una progressiva involuzione democratica che ha ormai affossato ogni forma di opposizione, è motivo di estrema preoccupazione. La stabilità politica, economica e sociale sembra essere attualmente irraggiungibile e, in un contesto di importanti cambiamenti politici nella regione centroamericana con le recenti elezioni in El Salvador e le imminenti elezioni in Honduras, sarà interessante analizzare i nuovi equilibri sub-regionali e regionali. Sarà necessario, inoltre, comprendere e prevenire le conseguenze immediate di queste elezioni presidenziali. Prima fra tutte, la crisi umanitaria che è già in corso e che, parallelamente al grave esodo da Haiti, sta ponendo numerosi interrogativi sulla gestione dei flussi migratori verso gli Stati Uniti e, in misura minore rispetto a prima, verso Costa Rica. In un contesto così complesso, va ricordato che queste elezioni potrebbero provocare effetti interessanti sui delicati equilibri politici regionali, soprattutto all’interno del grande arco della sinistra latinoamericana. Ortega rappresenta da sempre uno dei nodi divisivi tra la sinistra cosiddetta “radicale” (facendo riferimento riferimento a quello spettro politico guidato in particolare dal Venezuela di Chavez e dalla Bolivia di Morales) e quella “moderata” (guidata da Lula in Brasile, ma anche dall’attuale Fernandez in Argentina). In effetti, dal Gruppo Puebla, che avrebbe la funzione di riunire i leader della sinistra latinoamericana, non è arrivata una reazione unitaria agli avvenimenti in Nicaragua. Se Evo Morales dalla Bolivia ha espresso ulteriormente un sostegno rafforzato alla “rivoluzione sandinista” di Ortega, dall’altro lato Lula, Fernandez e Lopez Obrador hanno criticato la deriva autoritaria. Se dalle Nazioni Unite sono arrivate continue condanne soprattutto in relazione alla preoccupante situazione dei diritti umani nel paese, l'Unione Europea, sin dal 2018, concretizza il suo dissenso attraverso sanzioni nei confronti di individui considerati protagonisti della deriva autoritaria nicaraguense. Come nella maggior parte dei casi, le sanzioni costituiscono un mezzo molto debole, poco incisivo sul piano strutturale: nonostante ciò, l'Unione Europea ha deciso di continuare a limitarsi all’uso delle sanzioni per condannare il Nicaragua, prorogando di un anno le misure restrittive. Sarà interessante analizzare in che modo l'UE, in sinergia con gli Stati Uniti, con il Canada e con i principali attori regionali latinoamericani, possa giocare un ruolo da protagonista nel futuro prossimo del Nicaragua, un ruolo più incisivo e politicamente influente, in un paese che rischia di essere, sempre di più ed insieme ad Haiti, l'epicentro di una preoccupante ed insidiosa crisi regionale.
a cura di Laura Salvemini Il 31 ottobre 2000 veniva approvata all'unanimità la Risoluzione 1325/2000 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, la prima nell'agenda “Donne, pace e sicurezza” che conta ad oggi altre nove risoluzioni. Nell'anno del suo ventunesimo anniversario parlare degli effetti di questa risoluzione, dei suoi limiti e della necessità del gender mainstreaming nella prevenzione e risoluzione dei conflitti rimane necessario e urgente, ancor più alla luce dei recenti sviluppi in Afghanistan. I quattro obiettivi principali fissati dalla risoluzione sono il riconoscimento del ruolo fondamentale delle donne nella prevenzione e risoluzione dei conflitti, una maggiore partecipazione nei processi di mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, l’adozione di una “prospettiva di genere” e la formazione di personale sui diritti delle donne. Nonostante il progresso apportato dalla UNSCR 1325 negli ultimi vent'anni appaia evidente, la risoluzione è stata oggetto di critiche riguardanti il linguaggio utilizzato, il contenuto e la forma. In particolare è stato evidenziato come il linguaggio utilizzato nella risoluzione perpetui l’immagine convenzionale del ruolo delle donne come passivo e debole, una rappresentazione che contrasta gli obiettivi dichiarati dalla risoluzione stessa. Un esempio di questa narrazione si trova in uno dei punti principali della risoluzione riguardante la “protezione” delle donne, che vengono in questo modo caratterizzate come beneficiari di aiuto e non come agenti attivi nella prevenzione e risoluzione dei conflitti. La successiva Risoluzione 1889/2009 ha indicato i Piani Nazionali d'Azione (o National Action Plans, NAP) come strumenti per l’attuazione della UNSCR 1325 a livello nazionale. Ad oggi, 98 paesi hanno adottato un NAP, corrispondenti al 51% dei paesi membri delle Nazioni Unite. Di questi, solo il 36% (ovvero 35) include un budget allocato per l’attuazione del piano e soltanto il 32% (equivalente a 31) menziona delle azioni specifiche verso il disarmo. Tra gli esempi di NAP di successo compare spesso quello del Nepal, definito come un'istanza di inclusività e di effettiva coerenza con gli intenti della UNSCR 1325 grazie all'avvenuta inclusione geografica e sociale. Nella fase di progettazione del NAP sono stati infatti coinvolti rappresentanti della società civile, di comitati e associazioni locali provenienti da tutte le regioni del paese. Al contrario, il NAP dell’Afghanistan è stato spesso citato in relazione alla problematica dell’uso delle quote come testimonianza di una maggiore rappresentazione delle donne nelle posizioni di decision-making a livello nazionale, come prefissato dalla risoluzione. La quota parlamentare di donne in Afghanistan era nel 2013 del 27%, ma è stata definita in realtà come un esempio di rappresentanza “vuota”, dato che nella maggior parte dei casi i ruoli ricoperti dalle donne non conferivano loro alcun potere decisionale. Dopo il ritiro delle truppe americane dal territorio e la riconquista dei Talebani, i diritti che le donne afghane avevano conquistato e acquisito negli ultimi vent'anni sono stati velocemente messi in discussione e in alcuni casi cancellati. La linea di governo dei Talebani è apparsa chiara fin dai primi giorni, quando con l'annuncio di un governo ad interim per l' “Emirato islamico d'Afghanistan” veniva comunicata la composizione dell’esecutivo, completamente al maschile. Il primo atto del nuovo governo è stato quello di abolire il Ministero delle Donne, sostituito da quello della Virtù e della prevenzione dei vizi, seguito dall’imposizione del burqa, restrizioni per l'educazione femminile e divieti circa la pratica sportiva. In una lettera aperta firmata il 2 settembre 2021 più di 350 organizzazioni, NGO e enti da tutto il mondo hanno chiesto alle rappresentanze permanenti delle Nazioni Unite attenzione e protezione verso le donne Afghane e non solo, sottolineando come i diritti delle donne e la loro partecipazione nei processi di risoluzione dei conflitti siano a rischio anche in altre zone nel mondo, menzionando le situazioni del Myanmar, della Colombia e dello Yemen. Nella lettera viene sottolineato come la nuova situazione in Afghanistan, combinata con gli effetti devastanti del Covid-19, rischi di far perdere a diverse donne le posizioni di leadership guadagnate negli ultimi decenni, lottando per l'uguaglianza di genere e per i diritti delle donne. Viene infatti rimarcato come in alcune parti del mondo essere donna significhi “decidere tra la lotta per la difesa dei propri diritti e la propria vita”. Sorya Karimi, attivista afghana organizzatrice di alcune proteste a Kabul, evidenzia ulteriormente questo problema, spiegando come protestare sotto il nuovo regime dei Talebani significhi accettare il rischio di perdere la vita lottando per i propri diritti. Nella lettera viene invocata la Risoluzione 1325, chiedendo che l’azione delle donne non venga limitata o sacrificata in nome della protezione, ma che vengano fatti degli sforzi per permettere la loro piena partecipazione nei processi di pace e sicurezza. Affinché ciò sia possibile, i firmatari richiedono l’immediato intervento per fermare le rappresaglie e gli attacchi in atto in Afghanistan - e in altri paesi- contro le donne coinvolte nella difesa dei diritti umani, le peacebuilders e le attiviste a rischio in questo momento. I limiti della Risoluzione 1325, a più di vent'anni dalla sua adozione, appaiono chiari osservando i dati disponibili sulla presenza delle donne in posizioni di leadership nelle operazioni di peacekeeping dell'ONU, dell'UE e dell'OSCE. In un report del 2020 del Stockholm International Peace Research Institute viene evidenziato che, ad ottobre 2020, le donne rappresentavano solo il 10% dei comandanti delle forze e il 26% dei ruoli di leadership nel personale dell’ONU. Il dato più avvilente proviene però dalle missioni della Common Security and Defence Policy dell'UE, dove le donne rappresentano lo 0% delle posizioni di leadership. Appare dunque evidente come, per quanto sia indiscutibile l’importanza della Risoluzione 1325 per aver aperto il discorso sulla partecipazione delle donne nei processi di prevenzione e risoluzione dei conflitti, ci sia ancora diversa strada da percorrere affinché la loro partecipazione sia garantita e salvaguardata, e che la situazione in Afghanistan debba essere affrontata il prima possibile per evitare che gli sforzi degli ultimi vent’anni vengano vanificati.
a cura di Giovanni Maggi Quando gli Afghanistan e Iraq “war log” furono pubblicati da WikiLeaks, Joe Biden, che allora era Vice Presidente, aveva definito Julian Assange un “terrorista hi-tech”. Era la posizione più forte presa all'interno dell’amministrazione Obama. A distanza di 11 anni dalla divulgazione dei documenti, Joe Biden è Presidente e continua a perseguire l'estradizione del fondatore di WikiLeaks iniziata dal predecessore Donald Trump. Al momento, Assange si trova in un carcere di massima sicurezza nel Regno Unito, e la giudice Vanessa Baraitser ne ha negato l’estradizione nel gennaio 2021 a causa della salute mentale instabile del giornalista. La corte si riunirà in appello il 27-28 Ottobre 2021 e Assange si trova di fronte 175 anni in prigione sulla base di 17 accuse. L’atto contro lo spionaggio del 1917, preso come base per processare Assange, fu presentato da Woodrow Wilson come il modo miglio per assicurarsi di “salvaguardare il rispetto e onore degli Stati Uniti”. Durante lo Stato dell’Unione del 1915, il presidente affermò anche che: “Gli uomini [che attentano direttamente a rispetto e onore], devono essere annichiliti. Non sono tanti, ma sono infinitamente malvagi, e dobbiamo fare tutto ciò che è in nostro potere per perseguirli. […] Creano cospirazioni contro la neutralità del nostro governo, mirano a spiare tutte le azioni governative per poter servire interessi alieni ai nostri”. La legge passò al congresso nel 1917, senza che includesse le clausole di censura proposte da Wilson. Fu emendata prima nel 1918, così da proibire la divulgazione di documenti codificati oltre che l’uso di alcune “espressioni profane o sleali”, e nel 1961 per allargare l’impatto della legge ad atti commessi in tutto il mondo. È la prima volta nella storia che un giornalista viene condannato sulla base di quest'atto legislativo. Qui è necessario specificare che lo stato di giornalista del fondatore di WikiLeaks è in discussione e il risultato di questo dibattito avrà conseguenze rilevanti sia per quanto riguarda il processo di estradizione che per il precedente legale che potrebbe creare. Uno dei tanti modi per interpretare questo caso si basa su alcune specifiche asserzioni del pensiero politico di Noam Chomsky. In una conferenza intitolata “I fondamenti dell’ordine mondiale” del 1999, il linguista e filosofo americano sostiene, tra le altre cose, che la politica estera statunitense è basata su un dogma – che egli definisce di tipo religioso – il quale, per definizione, rimane vero anche di fronte all'evidenza. Secondo Chomsky, libertà, democrazia e diritti umani vengono presi come principi fondamentali e indiscutibili nella politica americana e, in quanto tali, non possono essere falsificati in modo efficace agli occhi del pubblico. Essi scaturiscono dall’eccezionalissimo della società USA e da quella che Robert Bellah chiama “religione civile americana” la quale, tra le altre cose, porta a santificare le istituzioni e i documenti fondanti dello Stato. È anche grazie ad atti legislativi, come l’atto del 1917 che mira esplicitamente a “salvare l’onore e il rispetto degli Stati Uniti”, che gli USA sono in grado di mantenere fissi questi dogmi quasi teologici. Se presi insieme, questi fattori permettono di spiegare il supporto del pubblico per quelle guerre che mirano ad “esportare la democrazia”, un obiettivo che rimane tale davanti a qualsiasi evidenza. Ciò è anche riflesso in alcuni studi sull’opinione pubblica, specialmente in quelli condotti negli anni '70 e '80, che la identificano come relativamente stabile nel contesto della politica estera americana. Nulla spiega meglio questa stabilità che la (non)variazione dell’opinione pubblica nel caso dei Pentagon Papers. I documenti, pubblicati dai giornali americani nel 1971, infatti dimostravano che il governo aveva mentito sui motivi della sua invasione in Vietnam e sugli obiettivi della guerra. Fino ad allora, al pubblico americano era stata venduta una narrativa basata sulla responsabilità morale di difendere i vietnamiti da una imminente invasione cinese e sovietica, e liberare il paese dalle minacce comuniste. I papers dimostravano che questa narrativa era infondata. Le azioni americane in Vietnam erano anche un tentativo di dimostrare “la volontà e la capacità degli Stati Uniti di imporsi in campo internazionale”. Gli autori della fuga di notizie, che ricorda le divulgazioni di WikiLeaks, saranno accusati sulla base dell’atto del 1917. Per quanto compromessi nel caso specifico della guerra in Vietnam, i principi fondanti della politica estera americana sono però rimasti fissi. Infatti i cittadini americani, nonostante condannassero le azioni compiute dagli USA in seguito alla pubblicazione dei Pentagon Papers – e richiedessero cambiamenti immediati nel contesto della guerra –, continuarono a percepire il loro stato come garante internazionale di democrazia e diritti umani. Torniamo ora a WikiLeaks. I video e documenti divulgati da WikiLeaks nel 2010 mostravano, ancora una volta, azioni militari e politiche in contrasto con la narrativa dogmatica dei due conflitti promossa da politici e mass media americani fino a quel momento. Le prove di crimini di guerra – tra torture, uccisioni di civili e giornalisti, e occultamento di cadaveri – e delle finalità degli interventi militari, davano vita a una rappresentazione “alternativa” della presenza USA e NATO in Afghanistan e Iraq. Anche in questo caso l’atto legislativo del 1917 che mira a perseguire gli individui che “curiosano nelle attività governative […] per servire interessi alieni” a quelli americani è preso come base per perseguire il fondatore di WikiLeaks – artefice della fuga di notizie contro il dogma americano. Tre delle diciassette accuse che pendono su Assange si rifanno al solo atto di aver pubblicato le informazioni. Come potrebbe essere chiaro, ciò potrebbe avere serie conseguenze per quanto riguarda la libertà della stampa internazionale e si inserirebbe in un momento storico che già vede un deterioramento progressivo della libertà di stampa e della protezione dei giornalisti, con effetti inevitabili sulla stabilità democratica internazionale. Da un punto di vista legale, la divulgazione di informazioni che sono di interesse pubblico è un atto protetto nel contesto della legge internazionale dei diritti umani, rappresentato nella costituzione americana dalla clausola di libertà di stampa del primo emendamento. Nonostante la politicizzazione del processo, la condanna di Assange pende su specifici dettagli presenti all’interno dei documenti pubblicati da WikiLeaks. Se venisse dimostrato che la loro divulgazione ha messo in pericolo la strategia e la sicurezza nazionale americana, l’atto rientrerebbe nelle misure previste dell’atto contro lo spionaggio. La questione diventa quindi come l’atto contro lo spionaggio si relaziona con la costituzionale libertà di stampa. Fino a che punto un governo democratico è legittimato a perseguire individui, anche stranieri, per la pubblicazione di informazioni riservate ma di interesse comune che mettono in discussione i dogmi di stato? Qualunque sarà il risultato del processo e, prima ancora, dell’estradizione, l’opinione pubblica americana non metterà in dubbio i “principi indiscutibili” della politica estera del proprio stato. Come per i Pentagon Papers, nonostante lo scandalo, i dibattiti e le specifiche condanne, la religione civile del paese, che santifica i suoi testi fondanti e le sue istituzioni, manterrà ben saldi i "fondamenti teologici” della società americana: libertà, democrazia, e diritti umani.
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